La crisi degli Scud è l’ultimo tranello posto dal destino contro il sogno del Presidente Usa, Barack Obama, di risolvere in tempi brevi il processo di pace in Medio Oriente. Secondo le fonti israeliane, Hezbollah sarebbe venuto in possesso di una partita di missili a lunga gittata, grazie all’intercessione della Siria. Damasco ha smentito seccamente il suo coinvolgimento nella questione. Già mesi fa comunque la stampa croata aveva denunciato il traffico di armi dalla Russia verso il Medio Oriente, via Balcani. Il reportage, passato nell’ombra, parlava di razzi Katyusha e di grossi rifornimenti di munizioni che, attraverso le mafia kosovara, defluivano verso il Libano e la Striscia di Gaza. Il servizio quindi non parlava né di Scud né menzionava la Siria.
Ieri però il Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, ha evocato l’atteggiamento siriano come una minaccia alla stabilità regionale. Una dichiarazione, la sua, pronunciata di fronte a un pubblico “di parte”. La Clinton infatti era ospite dell’“American Jews Commission”, la Conferenza degli ebrei statunitensi. Con le elezioni di mid-term che si avvicinano, è facile che la sua presa di posizione avesse una valenza elettorale interna agli Usa, piuttosto che in ambito diplomatico. Ma è anche vero che Washington, nelle ultime settimane, ha assunto un atteggiamento molto più in linea con quello di Israele. Soprattutto dopo le profonde divergenze che avevano caratterizzato i mesi di febbraio e marzo. L’opinione pubblica israeliana teme una guerra. Il Governo Netanyahu, dal canto suo, sta facendo ben poco per placare gli animi. Al tempo stesso, al di là delle frontiere si riscuote un speculare incremento di intransigenza. L’Autorità Palestinese, separata nel suo interno, non intende riprendere i negoziati con un esecutivo a suo giudizio oltranzista com’è quello attuale in Israele. La Siria, che negli ultimi due anni ha compiuto sforzi concreti per riacquistare la credibilità presso la comunità internazionale, ha anch’essa deciso di bloccare le trattative. A Beirut nel frattempo, il Presidente libanese Michel Suleyman è tornato a decantare le lodi della capacità operativa di Hezbollah, lasciando intendere che un eventuale scontro fra il “Partito di Dio” e Israele, questa volta, verrebbe interpretato come un attacco all’intero Paese. Suleyman ha così ribadito l’equazione tra la forza combattiva sciita e la resistenza nazionale contro il nemico israeliano. Nemico di tutto il Libano e non solo di Hezbollah.
Certo, tenendo conto dell’approssimarsi delle elezioni amministrative in Libano a giugno, anche questo atteggiamento potrebbe essere legato più alle questioni del voto che a quelle della sicurezza regionale. D’altra declassare tutta la crisi ai singoli interessi elettorali, sia sulle coste del Mediterraneo sia oltre Atlantico, appare riduttivo. Il congelamento delle attività diplomatiche offre invece un agile spazio di manovra per coloro che non hanno nulla da guadagnare dal processo di pace, bensì premono sui nervi scoperti di ambo le parti affinché le frizioni diplomatiche si trasformino in un’instabilità effettiva e magari si arrivi allo scontro diretto.
Esattamente undici mesi fa, il Presidente Obama pronunciava il suo famoso discorso all’Università islamica del Cairo, al-Azhar. Un discorso di ottimismo e di pace. Oggi siamo molto lontani da allora e da quelle buone intenzioni. Washington ha chiesto che il mondo arabo si spenda all’unanimità per riavviare i colloqui di pace. A suo tempo George Bush fu accusato di unilateralismo nel fare la guerra. Per alcuni aspetti si può dire altrettanto di Obama nel tentativo di fare la pace. La concertazione con la Lega Araba – i cui Ministri degli Esteri si riuniscono oggi – è un richiesta concreta avanzata direttamente dal capo della Casa Bianca. La Clinton ha anche detto che la pace si raggiunge “grazie al rafforzamento degli scambi commerciali e all’abbattimento delle barriere”. Un messaggio che nasce dal summit bilaterale tra Usa e Arabia Saudita sull’economia, che si è appena concluso con successo a Chicago. Un messaggio che forse è diretto anche a Israele, affinché cooperi allo sviluppo della società palestinese. Perché anche questa è una possibile strada per la pace.
Pubblicato su liberal del primo maggio 2010