Il suggestivo pantheon di Orichas nella Santería cubana Di Patrizia Boi

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Per poter comprendere la cultura e le tradizioni di Cuba, dopo aver consultato i molti articoli trovati sul Web, ero ancora confusa e ho cercato qualche libro significativo, la maggior parte dei quali, ormai fuori catalogo. È stata fondamentale per mettere un poco di ordine alla questione, l’opera dell’antropologa ed etnomedico dell’Università di Perugia, Giuliana Muci, che si è dedicata al tema della santería cubana fin dai tempi della sua tesi universitaria. Nel libro La santería cubana – Aspetti teorici, mitologici e rituali, la Muci, pugliese di nascita, originaria di Nardò, prima di addentrarsi nel tema specifico della santería, rammenta i grandi antropologi italiani che si sono occupati dei culti di possessione nel mondo mediterraneo, come Ernesto De Martino che ha studiato il tarantismo pugliese e la magia nel Sud, e come il suo successore Tullio Sepilli che ha vissuto in Brasile dove ha potuto conoscere il candomblé, l’altra religione di origine yoruba – proveniente dal sud-ovest della Nigeria -,  con una mitologia e modalità rituali simili alla santería, nonostante i due paesi si trovino a grande distanza geografica e parlino uno in spagnolo, l’altro in portoghese.

Un altro contributo imprenscindibile secondo la Muci è stato quello dell’antropologoetnomusicologo e saggista cubano, Fernando Ortiz Fernández (L’Avana16 luglio 1881 – L’Avana10 aprile 1969),  profondo conoscitore e appassionato studioso della cultura afrocubana, che ha trasformato il concetto di acculturazione – che presume ci sia un dominante da cui si “accultura” un dominato -, in “transculturazione”, dove il passaggio culturale da una tradizione  all’altra è paritetico, ossia si attua una contaminazione  reciproca.

Anche l’apporto degli studi delle moderne neuroscienze consente di «mettere insieme ciò che per secoli è stato separato: la mente, conscia e inconscia, sede delle emozioni, del pensiero, delle facoltà intellettuali, della creatività, della filosofia, della metafisica e della trascendenza; il corpo, espressione fisica dell’essere, col suo linguaggio metaforico e gestuale oltre che verbale». Secondo il Dottor Paolo Lissoni, esperto di P.NE.I., Psico-Neuro-Endocrino-Immunologia, è possibile proiettare «la mente del Terzo Millennio verso una riconciliazione tra Filosofia, Teologia e Biologia, ponendosi in questo modo a sola vera visione olistica della vita rispetto alla quale è da considerare come artificiosa ogni altra forma di Olismo».

Queste premesse sono utili per comprendere come durante i riti di possessione e trance mistica tipici della santería cubana, spesso stimolati dalla musica, la danza e il canto – che hanno una funzione eccitatoria -, dallo stimolo cromatico e olfattivo attraverso erbe aromatiche, si possa condurre il credente a un momento di  “sospensione spazio-temporale”, rompendo gli schemi ripetitivi della quotidianità, le regole sociali predeterminate e lasciando il posto alla sfera creativa dell’individuo. Il rito, altresì, tende «a fornire strumenti di risposta che garantiscono la sopravvivenza della collettività relativamente alle problematiche inerenti la loro realtà».  Insomma questi sistemi spesso «hanno il compito di proteggere e orientare gli individui e le comunità», oppure sono utili a «sciogliere le paure che ci ingabbiano, sia che provengano dalle quotidiane difficoltà del vivere sia che appartengano alla sfera inconscia».

Bisogna considerare che il termine santería assume spesso un’accezione negativa, come se quest’affollamento di Santi venerati dai fedeli rappresentassero comportamenti che la ragione non può accettare e comprendere.  Se noi andiamo a scandagliare, invece, il senso del rito e le motivazioni che muovono questo mondo frastagliato di dei, possiamo comprendere le ragioni per le quali da un suggestivo processo di fusione culturale siano nati culti magico-religiosi afroamericani come la Santería cubana o Regla de Ocha o Culto de Ifá, come il candomblé brasiliano o il vodu haitiano.

In questa dinamica di “sincretismo religioso” c’è una contaminazione reciproca tra religione degli schiavi africani deportati e quella cattolica dei coloni bianchi, anche se la necessità primaria degli schiavi è stata quella di occultare – sotto le mentite spoglie dei Santi venerati nel mondo Cattolico – il fondamento della loro religione yoruba, incentrata sulla credenza in un pantheon di divinità chiamate Orichas e sul culto dei morti. È da notare, inoltre, che la contaminazione cattolica è legata a una cultura popolare che ha assorbito le «credenze legate al mondo magico e a residui di paganesimo rituale».

Con molta fantasia, spesso difficile da comprendere senza forzature, i fedeli hanno trovato corrispondenze tra gli Orichas yoruba e i santi cattolici creando nuove figure divine, ossia “i santos”.

Rammentiamo che a Cuba gli schiavi provenivano dalle popolazioni yoruba della Nigeria che giungevano nelle Americhe privati dei propri diritti e trasportati, «alla stregua del bestiame, nelle stive delle navi negriere dopo terribili raid condotti nei villaggi di appartenenza» – come afferma Laura Monferdini –  condotti nell’Isla per la lavorazione della canna da zucchero e per la coltivazione del tabacco, mentre le differenti popolazioni amerindie autoctone, erano state decimate nel giro di un secolo dalle condizioni di lavoro proibitive imposte dal regime coloniale e dalle malattie europee a loro sconosciute. Lo schiavismo è stato abolito solo nel 1896 e due anni dopo a Cuba è stata proclamata l’indipendenza, dopo la quale gli schiavi sono stati liberati anche se hanno continuato a subire persecuzioni razziali ancora per lungo tempo.

È da considerare che già nei primi anni della deportazione in massa, gi schiavi di etnia afrocubana erano stati sradicati dalla loro terra e dalla loro cultura, vivevano condizioni di vita e sfruttamento tremende, per cui hanno avuto l’esigenza di associarsi per provvedere ad una sorta di mutuo soccorso: a questo scopo nacquero i Cabildos, Associazioni che offrivano uno spazio logistico per ricostituire la propria cultura di appartenenza, praticando, nel contempo la propria religione.

Attualmente Cuba conta una popolazione di oltre 11 milioni di abitanti, composta da diversi gruppi etnici, la maggior parte discendenti degli spagnoli. I bianchi, infatti costituiscono circa il 64,1% dell’intera popolazione. I neri, i cui antenati provengono dai paesi africani della regione sub-sahariana, rappresentano una minoranza pari al 9.3%, mentre i mulatti che derivano dalla loro mescolanza, costituiscono ben il 26.6% dei Cubani. Dei Nativi è rimasto solo qualche sopravvissuto dopo lo sfruttamento brutale della manodopera indigena giustificata – secondo la versione ufficiale della Storia – dalla loro natura selvaggia di esseri dediti alla antropofagia e all’incesto: quelli che non morirono di stenti e malattie, preferirono ricorrere al suicidio per sfuggire ai maltrattamenti dei colonizzatori. Le comunità bianche, nere e mulatte di Cuba, oggigiorno – finalmente dopo secoli di convivenza di questa mezcla – si sono integrate bene per formare una società coesa.

Il nome “Cuba” deriva dal temine Cubanacán (che significa “terra centrale”), o Cubao (“terreno fertile”), o ancora dalla contrazione di due parole: Coa (“terra”) e Bana (“grande”) con il significato quindi di “Grande terra”, la Isla Grande che tutti accoglie.

Laura Monferdini in “La santería cubana” (Xenia, tascabili, Pavia, 2016), descrive poeticamente Cuba: «Isola del flusso delle correnti del Mar dei Caraibi, adagiata su acque cristalline dove l’azzurro del cielo si fonde con le diverse tonalità dell’oceano in un insolito impatto di rara bellezza, la maggiore delle isole delle Antille vive la sua condizione di apparente privilegio, splendidamente isolata dal resto dei paesi dell’area circostante».

Nonostante le sue enormi bellezze, il paese è ancora soggetto a miseria e sofferenza a causa di “el bloqueo”, un embargo

commerciale, economico e finanziario imposto dagli Stati Uniti d’America contro Cuba all’indomani della rivoluzione castrista, avvenuta il 17 maggio 1959. Eppure l’estro creativo dei cubani nel campo artistico è sopravvissuto a ogni condizione avversa: nel campo musicale infatti raggiunge vertici esplosivi fondendo gli ancestrali ritmi africani con le melodie della vecchia Europa, attraverso cui ha dato vita a «son», «rumba», «trova» e «salsa».

Come afferma sempre l’Ortiz nell’opera pubblicata nel 1965 dalla Editoría Universitaria, La Habana, “La Africanía de la música folklórica de Cuba”: «La storia di Cuba è nel fumo del suo tabacco e nella dolcezza del suo zucchero, ma anche nel ‘sandungueo’ della sua musica. E nel tabacco, nello zucchero e nella musica, stanno insieme bianchi e neri, nello stesso turbine creativo, dal XVI secolo fino ad ora. Bianco, zucchero e chitarra; nero, tabacco e tamburo. Oggi sincresi mulatta, caffè con latte e ‘bongo’».

Per quanto concerne la Regla di Ocha o Santería, essa rappresenta quel complesso sistema di credenze magico-religiose che individuano negli Orichas delle divinità intermediarie tra gli uomini e la divinità suprema, che – al pari dell’Olimpo degli dei greci -, sono spesso capricciose e mutevoli esattamente come gli esseri umani. Nel culto degli antenati, un tempo, erano assimilate a un fiume o a una montagna, mentre una volta sradicate dai loro paesi di origine, hanno perduto ogni caratteristica legata al territorio per diventare una generica rappresentazione delle forze naturali. Sono figure con fattezze antropomorfe, che possiedono allo stesso tempo le qualità e i difetti umani. Ogni divinità è dotata di un Ashé, un potere spirituale, riconducibile alla forza selvaggia dei fenomeni naturali alla base delle credenze animistiche. In ogni Oricha, oltretutto, convive al contempo il principio del bene e del male. Esiste una categoria di sacerdoti che fungono da intermediari tra i credenti e queste divinità: i santeros. Essi governano i riti di possessione attraverso cui ottenere un consiglio o un aiuto dalla divinità o “santo” prescelto, che, durante la possessione, penetra nella loro testa, parla mediante la loro bocca e agisce attraverso il loro corpo raggiungendo la trance mistica.

Sono stati essi stessi iniziati attraverso cerimonie come quella dei “tambor”, i tamburi sacri. E anche i percussionisti addetti al rito sono sacerdoti prescelti mediante funzioni religiose scandite dai “tambores”. Le percussioni hanno una funzione così centrale che ad esse viene riconosciuto persino un ruolo divino. Senza questi strumenti, del resto, non si possono evocare le divinità: tamburi e danze sono presenti in ogni rituale.

Ogni tamburo è dedicato a un dato Oricha: a Yemayá, la madre, che danza ricordando il ritmo delle onde, è dedicato il tamburo più grande, detto Yeá; a Ochún, dea dell’erotismo, che danza in modo sensuale, è dedicato il mezzano, detto Itótele; a Changó, divinità del fuoco e del tuono, che danza in modo violento e lussurioso, come un guerriero, è dedicato il tamburo più piccolo, chiamato, Okónkolo.

I santeros aiutano, dunque, i fedeli ad entrare in comunicazione con i santi od Orichas, con delle pratiche propiziatorie durante le quali

attraversano momenti di trance e stati alterati di coscienza. Nel rituale della possessione appare evidente la corrispondenza con gli elementi naturali – ossia la perdita di coscienza, l’aumento dei battiti cardiaci, la sudorazione -, ed elementi propriamente culturali, ovvero una grande devozione al santo, perché in questi riti non si usano droghe, ma solo tabacco e rum. Lo stato di estasi può interessare sia il sacerdote, sia il fedele, nonché gli iniziati, che per divenire tali devono prima sottoporsi ad un rito di passaggio. «Dopo una morte rituale, segue un periodo di tempo in cui si diventa “nulla”. Tabula rasa. È in questa fase che si imparano le complesse ritualità, le cantiche, ma anche il modo di cadere in trance e offrire sacrifici alle divinità». Dopo il rito si torna “in vita”, ma spesso con differenti sembianze fisiche: a volte i credenti si rasano la testa.

Durante la possessione lo spirito della divinità invocata cavalca il sacerdote o anche il questuante: il posseduto si comporta come la divinità da cui è posseduto rivelando metodi o rimedi per superare una data malattia, a volte tendendo a riequilibrare le componenti psichiche maschili e femminili individuali.

Nel corso delle celebrazioni vengono fatte offerte agli Orichas per ingraziarseli, spesso sono erbe e frutta, elementi legati alla natura, qualche volta vengono sacrificati degli animali, polli e capretti, scelti con cura, che vengono consumati dai credenti durante bacchetti rituali. Ricordiamo che ad ogni Oricha sono associati determinati elementi: colori, oggetti, animali, frutti, spezie, ortaggi, erbe.

Come afferma Giuliana Muci «Tutta una farmacopea è così associata alla divinità, laddove il valore simbolico e magico dei rituali si accompagna il più delle volte a una effettiva efficacia terapeutica, denotando un’antica conoscenza. Non trascurando ovviamente un effetto placebo, qui inteso non come indole ingenua e credulona quanto come l’efficacia di un consolidato sistema di credenze».

Lo scopo principale di queste religioni resta comunque la ricerca della felicità, senza comandamenti da seguire: il paradiso da raggiungere è terreno.

I rituali sono molto complessi e articolati, scandiscono il ciclo di vita delle persone, rappresentano i diversi gradini che i credenti devono necessariamente salire per giungere a livelli di conoscenza via via superiori, a partire dalla iniziazione alle Collane (Elekes) – dove ricevono le prime cinque collane di protezione legate agli Orichas -; per proseguire con la cerimonia di iniziazione ai Guerrieri (Guerreros) – dove ricevono i simboli dei tre principali Orichas di potenza superiore -;  per arrivare alla complessa cerimonia dell’Asiento in cui l’iniziato riceve il proprio santo – ; passando attraverso l’Ebbó – ovvero le offerte alle divinità – ; alle Rogación – ossia una serie di preghiere recitate alla presenza di un padrino o madrina – ; imparando la pratica delle cerimonie sacrificali con olocausti animali – ; apprendendo come entrare in contatto con gli Eggun – gli spiriti degli antenati defunti e dei sacerdoti anziani – ; per giungere, infine, all’Itutu – il lungo iter cerimoniale che si deve svolgere quando muore un Santero.

Santeros e Babalawos non utilizzano la magia nera, usata solo dai brujos, gli stregoni, che operano secondo La regla de Paolo monte, un altro culto di possessione.

Come afferma sempre la Muci, «Per quanto all’interno della santería si distingua tra magia bianca (trabajos buenos) e magia nera (trabajos malos), tra piante impiegate para hacer bien e piante adoperate para hacer mal, e per quanto la magia nera sia comunemente rifiutata e socialmente stigmatizzata, spesso quest’ultima rappresenta un mondo parallelo e complementare a cui si ricorre in situazioni estreme; o come spesso affermano i santeros: “per poter combattere la magia nera bisogna conoscerla e talvolta utilizzare i suoi stessi sistemi”».

Dal sincretismo tra i trabajos (procedimenti rituali africani) e la stregoneria della vecchia Europa, nasce la magia della santería che è di pochi tipi, connotati in base all’obiettivo da raggiungere:

  • amarramientos, ossia ‘legature’, il cui scopo è di vincolare a sé o ad altri una persona o la sua anima, oppure di allontanarla;
  • ebbós, ossia ‘offerte’, sacrifici alla divinità allo scopo di placar la sua rabbia o chiederne l’intervento;
  • limpiezas, ossia ‘purificazioni’, per liberarsi da un’energia negativa;
  • malefícios, ossia ‘malefici’.

A volte si può fare un maleficio spontaneamente attraverso il mal de ojo, ovvero il malocchio.

Un cenno a parte meritano i sistemi di divinazione della santería, che sono di quattro tipologie.

Il sistema divinatorio obi si serve di pezzi di cocco, usati come offerta rituale donata agli Orichas e in onore degli antenati. Il santero lancia in aria quattro parti di cocco e il responso viene determinato a seconda della posizione, lato cavo o lato convesso, che assumono sul pavimento.

Il sistema di divinazione caracoles utilizza la conchiglia: il santero lancia 16 conchiglie e le interpreta in base al numero di conchiglie cadute con la parte concava in alto e mediante una successione di lanci.

Il sistema divinatorio ekuelé o collar de Ifá utilizza una collana fatta di bucce di semi o medaglie di cocco formata da otto parti: riservata al babalawo la carica più elevata de la Regla de ocha, figlio dell’Oricha Orula -, che la lancia in aria e interpreta il responso in base a come si posizionano i pezzi.

Il sistema divinatorio tablero de Ifá è basato sullo spargimento di una polvere magica bianca – ottenuta dalla zanna di elefante -: il babalawo la sparge su un tavolo particolare dove sono indicati quattro quadranti abbinati ad altrettante divinità. In funzione di quanti semi di kola (ikines) o palma rimangono nella sua mano sinistra, traccia dei segni sul ‘tablero’, ottenendo la stessa combinazione dell’ekuelé.

In questo modo si interpreta la volontà della divinità. Da tener presente che con il tablero si possono avere fino a 4096 combinazioni, mentre con il sistema obi solo 5, ecco perché è necessaria la conoscenza e la saggezza di un babalawo per interpretare il complicato linguaggio degli Orichas.

Vista la prevalenza degli elementi africani è senza dubbio interessante elencare gli elementi leggendari dei più importanti Orichas a partire da quella che nella religione Cattolica potrebbe essere riconosciuta come “La Trinità”: OlofiOloddumareOlorúm.

 

Il più importante tra queste divinità è Olofi, l’Essere Supremo, onnisciente e onnipotente, simbolo della volontà creatrice, «padre del cielo e della terra, la sostanza primigenia da cui derivano il mondo immateriale e materiale, gli uomini e gli Orichas. […] Quando creò l’Universo, Olofi incaricò ogni santo affinché svolgesse specifiche funzioni, sulla base del potere che avrebbe conferito loro su uomini, animali, piante, cose e forze naturali».

 

A lui è associato Oloddumare, che è la sua parte complementare, «la sua sposa, la sua parte femminile, l’universo con i suoi elementi, la madre del cielo e della terra. […] Con il suo sposo vive lontano, sulla cima di un’alta montagna».

 

E a loro due è associato Olorúm (detto anche Aggayú Sola), la manifestazione del frutto di Olofi e Oloddumare, che rappresenta il Sole. «In lui risiede l’energia vitale che alimenta tutti gli esseri viventi: uomini, animali e piante. Senza di lui la vita creata non potrebbe svilupparsi e fornire il raccolto di cui ci si nutre; non ci sarebbero né il giorno né la notte, non potrebbero avere luogo le stagioni e le manifestazioni atmosferiche».

 

La mitologia Oricha è molto complicata, per cui questa trilogia non è sufficiente per la creazione: infatti Obatalá fu incaricato da Olofi di creare le terre emerse senza toccare mai il cielo.

 

Esistono delle leggende che derivano dalle narrazioni orali africane legate ai vari Orichas, che si chiamano pattakies.

 

Riporto il mito yoruba della creazione:

 

«Dio onnipotente, Olofi, viveva in uno spazio infinito, fatto solo di fuoco, fiamme e vapore densissimi. Era così che Olofi voleva l’universo. Ma venne il giorno in cui si annoiò della solitudine e decise che era arrivato il momento di abbellire quel paesaggio tanto cupo e ostile. Liberò la sua potenza così da far scendere acqua a torrenti. Alcuni elementi solidi si opposero al suo attacco e così si formarono enormi voragini nella roccia: l’oceano vasto e misterioso dove risiede Olokun. Nei punti più accessibili prese dimora Yemayá, vibrante nei suoi colori, l’azzurro e l’argento. Yemayá fu dichiarata madre universale, madre degli Oricha. Dal suo ventre uscirono la luna e le stelle, il secondo passo della creazione. Oloddumare, Obatalá, Olofi e Yemayá decisero che il fuoco, spento in alcune zone, e ancora forte in altre, venisse completamente assorbito dalle viscere della terra, attraverso il temuto e venerato Aggayú Sola, rappresentato dal vulcano e dai misteri delle profondità. Mentre si spegneva il fuoco, le ceneri si sparsero ovunque, formando la terra, rappresentata da Orichaoko, che le diede forza al punto da permettere la nascita degli alberi, dei frutti e delle erbe. Nei boschi si aggirava Osaín, con la sua saggezza antica sulle facoltà mediche delle essenze e delle erbe. Nacquero così anche le paludi. Da quelle acque stagnanti si originarono le epidemie, personificate da Babalú-Ayé. Yemayá la saggia, la generosa, madre di tutto e di tutti, decise di dare delle vene alla terra e creò i fiumi di acqua dolce e potabile, perché Olofi potesse creare gli esseri umani. Fu così che nacque Ochún. Le due si unirono in un abbraccio di amicizia che diede al mondo un’inestimabile ricchezza. Olofi decise di ritirarsi e di vivere lontano, dietro il sole, Olorúm, e lasciò come suo rappresentante ed esecutore dei suoi ordini Obatalá, il quale creò gli esseri umani. Ma iniziò un vero disastro. Obatalá, tanto puro, bianco e pulito cominciò a soffrire per le intemperanze degli uomini. Stanco di tanta sporcizia, si innalzò per

vivere tra le nubi. Da lì iniziò a osservare il comportamento degli uomini e si rese conto che qualcosa non andava. Olofi si era dimenticato di creare la morte».


Esistono tante leggende e tante divinità nel mondo degli Orichas, ma sarebbe troppo lungo riportarle tutte, vale la pena, comunque, descrivere quelle divinità con più popolarità a Cuba non solo per motivi religiosi, ma perché godono di una grande simpatia. Sono noti come “los niños de la simpatía”: Yemayá, Changó e Ochún.

Yemayá, è una “grande madre”, della vita e di tutti gli Orichas che ama come figli sia che li abbia generati o meno. Secondo la tradizione è nata dalla spuma del mare, delle cui acque salate è regina, insieme a tutte le forme di vita che le popolano o le sfiorano, come i gabbiani. Custodisce i segreti degli abissi marini ed è simbolo di femminilità e bellezza. La sua danza sensuale inizia dolcemente poi esplode in un ritmo incalzante che ricorda il movimento delle onde. È indomabile e astuta e manifesta la sua collera soprattutto nella sua veste di mare in tempesta.

Changó, figlio di Yemayá, è il signore del fuoco e del tuono, divinità potente, guerriero instancabile. Dio della virilità e della mascolinità.
Signore dei tamburi batá, della danza e della musica. Simbolo di voluttà, ama tutte le donne che ammalia con il suo fallo enorme e con il succo del fiore flamboyán. La sua danza è violenta e lussuriosa, tende a mimare l’atto sessuale e l’onanismo, impugnando un’ascia a doppia faccia. Rappresenta tutte le virtù e tutte le imperfezioni umane; è lavoratore, coraggioso, buon amico, indovino e guaritore, ma è anche bugiardo, donnaiolo, rissoso e giocatore.

Ochún, sorella di Yemayá, con la quale divide il regno delle acque. Regina dei fiumi, delle acque dolci che portano inevitabilmente al mare. È bellissima, vanitosa e conturbante dea dell’amore sensuale e degli umori sessuali, simboleggia erotismo, libidine e trasporto. Ama molto gli uomini, in particolare quelli sposati. Nella sua danza voluttuosa, nuda senza veli, cosparsa di miele e cannella, attrae tutti i suoi amanti, contorcendo la zona pelvica e muovendo le mani sul suo corpo con pratiche di onanismo.

 

Un’altra importante triade di Orichas è quella dei ‘guerrieri’ costituita da Elegguá, Oggún e Ochosi.

 

Elegguá, ha il volto di un vecchio e il corpo di un bambino. È il signore dei destini umani, padrone dei crocevia, dei quattro punti cardinali e di ogni porta di casa. È l’Oricha più temuto perché possiede le chiavi del destino. Benevolo e generoso, infantile e giocoso, ma anche violento e pericoloso se adirato. È attratto dal ritmo dei tamburi e danza con un piede solo con un fare giocherellone.

 

Oggún, è il patrono dei guerrieri, lui stesso è un grande guerriero. È fratello di Changó con cui è nemico perché gli ha rubato la sua sposa Oyá. Vive nella selva, dove cammina come un pazzo senza tregua, perché è condannato da suo padre a non poter riposare né di giorno né di notte. Ama le due dee delle acque, Yemayá, divinità del mare, e Ochún, splendida signora delle acque dolci. Si ubriaca spesso per dimenticare i suoi tormenti.

 

Ochosi, figlio di Yemayá, è il dio della caccia, dell’arco e della freccia, ma anche delle carceri. Vive nella selva e conosce piante e alberi grazie alla sua amicizia con Osaín, signore della selva. La sua danza è quella di un cacciatore dietro alla sua preda, con arco e frecce, facendo salti e piroette.

 

Oltre a queste triadi appena citate, ci sono altri Orichas molto importanti.

 

Orula, il grande saggio, attraverso cui possiamo conoscere il passato, attuare nel presente, e predire il futuro. La sua parola non cade al pavimento, ossia le sue profezie sono sempre certe. Possessore dell’oracolo supremo degli yoruba, è anche conosciuto come Orunmila (“solo il cielo conosce quelli che si salveranno”). È il depositario dei segreti di Ifá, la regola destinata esclusivamente al Babalawo. Egli comunica solo attraverso il sacro tablero e l’ekuele. I credenti e i santeros gli rivolgono preghiere, rispetto e devozione, ma solo il balalawo può rendergli omaggio. Lo si invoca e si riceve nella cerimonia di Mano di Orula, nella quale viene a comunicare all’iniziato il suo cammino sulla terra.

 

Obatalá, è il più importante tra gli Orichas, Padre benevolo di essi e dell’Umanità. È il santo vestito di bianco che protegge tutte le menti. Olofi creò l’universo, ma diede a Obatalá il compito di organizzare il mondo e di creare l’umanità. La sua sposa è Yemayá. È l’unico Oricha ad avere sia cammini maschili che femminili. Secondo la sua manifestazione può essere uomo o donna, vecchio e saggio o giovane e guerriero. È il dio della saggezza, della purezza, della verità, della pace e della giustizia. È il dio del pensiero e dei sogni.

Babalú-Ayé, è il Santo a cui si ricorre nei momenti più gravi dell’esistenza che riguardano la malattia e il dolore. Mette in guardia da bellezza, ricchezza e salute, che spingono l’uomo verso false illusioni, distogliendolo da valori più importanti. È Dio guaritore di numerose malattie veneree, della pelle, della lebbra, del colera, delle malattie in genere. È uno degli Oricha più invocati dai fedeli nella santería, ma anche dai cattolici cubani. È la divinità che ha a che fare con le malattie del corpo, le epidemie, le menomazioni. Viene raffigurato come un mendicante storpio, coperto di piaghe, vestito solo di una poverissima veste.

È anche colui che aiuta chi soffre, il Santo a cui tutti chiedono la grazia della guarigione e l’aiuto negli stati di malessere fisico, di problemi di salute propria o di persone care. I suoi messaggeri sono mosche e zanzare, perché portano in giro le malattie. Nel ballo arriva annunciato sempre da un sonaglio trascinandosi come un malato, avvolto su se stesso.

 

Osún, è il messaggero di Olofi e il bastone del saggio Orula. Annuncia i limiti della vita terrena, ricordando la costante presenza della morte, Ikú. Rifiuta le cose lussuose, esteriori, false e superficiali, perché gli interessa solo la sostanza. Con i tre guerrieri condivide gli importanti momenti dell’iniziazione. Si riceve anch’esso nella cerimonia di “Mano di Orula” ed è consacrato dal Babalawo che è l’unico che ha la potestà di officiare questo rito.
Rappresenta lo Spirito ancestrale che si relaziona con l’individuo, che lo guida e lo avverte dei pericoli, essendo vigilante e guardiano.
Simbolizza inoltre la stabilità dell’essere umano sulla terra, per nessun motivo deve cadere in quanto se succede è presagio di qualche situazione negativa.

 

Osaín, è il signore della selva, conosce ogni segreto che vi è rinchiuso, i misteri delle piante e degli altri esseri che la popolano, rappresenta addirittura la selva stessa. Ha potere sulle manifestazioni metereologiche (pioggia, vento) che regolano la vita nella selva. Ha una immagine asimmetrica: gli mancano un occhio, un braccio e una gamba, perduti nella lotta contro il fratello che lo aveva tradito con la sua donna. Ha anche un orecchio grande che sente bene e uno piccolo che sente poco. Ha reso partecipe il suo amico Changó di alcuni segreti delle piante che in cambio gli ha donato poteri sui sacri tambores.

 

Oyá, moglie di Oggún e amante di Changó, signora del turbinio delle tempeste, del ciclone e del cattivo vento che porta scompiglio. È anche divinità del regno dei morti e delle porte del cimitero, con le sue lunghe vesti cancella le strade della vita. Violenta e impetuosa, ama la guerra e accompagna Changó nelle sue campagne, con il suo esercito di spiriti, combattendo con due spade. Vive alla porta del cimitero o nei suoi dintorni.

 

Agayú, è il padre di Changó, padrone delle forze terrene, del deserto e dei vulcani. Patrono dei camminanti, degli operai, degli automobilisti ed aviatori, è il barcaiolo che trasporta le divinità da una sponda all’altra del suo fiume. Santo bellicoso e collerico.

 

Ibeyes, sono i fratellini, figli di Changó e Ochún, cresciuti da Yemayá. Sono gemelli siamesi, uniti al livello dell’ombelico. Amano giocare, ridere e divertirsi tra le piante della selva. Riuscirono a scacciare il diavolo che tormentava uomini e donne con il suono di un piccolo tamburo. Sono protettori di tutti i bambini di cui rappresentano la fortuna, il gioco, l’intelligenza, l’innocenza, la saggezza.

 

Inle, è uno dei mariti della bella e vanitosa Ochún, patrono dei medici, medico egli stesso, signore di pesci e pescatori. È maschio e femmina allo stesso tempo, la sua è una bellezza quasi femminile, ma il maschile e il femminile in questa creatura diafana e perfetta si coniugano raggiungendo una armonia perfetta. Non fuma e non beve e non ha necessità dei ritmi stimolanti dei tamburi e del sesso. Danza a zigzag, mettendo così in luce la sua doppia natura.

 

Olokun, è androgino, un misto tra uomo e donna. Nella lingua yoruba, Olokun, significa “padrone del mare” e le sue caratteristiche sono visibili sul fondo dell’oceano, infatti governa ricchezze materiali, abilità psichiche, sogni, meditazione, salute mentale e personifica la pazienza, la meditazione, l’osservazione, le visioni future. Rappresenta il mistero degli oceani, nella sua immensità e profondità, un’entità talmente estesa e misteriosa che la mente umana non riesce a concepirla e a farne una rappresentazione. Proprio per questa immensità e impensabilità, è l’unico Oricha di cui non è possibile fare una rappresentazione materiale. Nessun essere umano può essere posseduto da Olokun perché la sua vastità non potrebbe mai essere racchiusa in un corpo tanto limitato. È il protettore degli schiavi africani trasferiti nelle Americhe. È collegato a Yemayá, essendo associato allo stesso elemento della natura, il mare, l’acqua. Nella sua versione femminile, Olokun è la moglie di Olorúm e la madre di Obatalá.

 

Okó, rappresenta l’archetipo/divinità dell’agricoltura. Il rapporto con la terra e l’alimentazione sono alla base delle priorità quotidiane.
Ha un doppio aspetto, un aspetto sommerso e un aspetto emerso.

L‘aspetto sommerso è quello che lavora con la profondità della terra, fino alla terra umida. L’aspetto emerso invece è quello che lavora con il cielo. Figlio di YemayáObatalá, due Orichas così assoluti, ha la missione da parte di Oloddumare, di trovare il segreto del seme e della semente.

 

Ikú, rappresenta la morte, di cui si parla poco e con una dose di mistero. Non c’è religione in cui il morto non abbia partorito il santo. Perché ci siano santi, devono esserci esseri umani vivi che muoiono. Dopo la morte, alcuni di loro acquistano una carica emotiva e diventano santi. Inizialmente l’Oricha, in quanto energia della natura, non ha un’espressione antropomorfica, la acquista non appena appare l’uomo. Appena il primo uomo muore, diventa Oricha. Succede che in questo tema del santo morto (la gallina o l’uovo), a volte si voglia tracciare una linea rigida e univoca che in realtà non esiste.

 

COLLEGAMENTI:

Olofi Oloddumare Olorúm Obatalá  Yemayá  Changó Ochún Elegguá  Oggún  Ochosi Oyá Osaín Orula Babalú-Ayé Osún  Ikú  Agayú

Ibeyes Inle Olokun  Okó

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