Nella catena di ostacoli che hanno congelato il processo di pace tra israeliani e palestinesi, si inserisce l’archeologia, strumentalizzata dalla politica in modo più che palese. Il Ministero per gli Affari Religiosi dell’Autorità Palestinese ha esposto una formale protesta nei confronti di Israele in quanto le “forze di occupazione” di quest’ultima avrebbero impedito i lavori di restauro alla Moschea di Abramo, che fa parte del complesso architettonico-archeologico della Tomba dei Patriarchi a Hebron. La città si trova sotto il pieno controllo dell’Anp, tuttavia la Tomba dei Patriarchi è un luogo di preghiera fondamentale per l’Ebraismo, secondo solo al Muro del Pianto a Gerusalemme. Tant’è che a fianco della Moschea di Abramo si trova anche una sinagoga. Sulla base degli accordi di Oslo del 1995, il 20% dell’area spetta di diritto alle autorità israeliane, sia come controllo della sicurezza sia per quanto riguarda la relativa preservazione culturale. Un eventuale intervento in loco richiede quindi il nulla osta di entrambe le parti, palestinese e israeliana. Quest’ultima, nella fattispecie, ha posto il suo veto contro una qualsiasi operazione di restauro della Moschea di Abramo, sostenendo che si tratterebbe di un intervento che metterebbe a rischio la delicata struttura dell’intero complesso religioso. Da parte sua, l’Anp ha accusato Israele di “ingerenza nelle sue questioni interne”.
È evidente che entrambi i governi tentano di speculare sull’accaduto e di aprire una nuova polemica che impedisca appunto la ripresa dei negoziati. La Presidenza di Abu Mazen sta ricorrendo agli stessi strumenti di provocazione adottati dall’esecutivo israeliano. Il restauro della Moschea di Abramo, al di là delle necessità pratiche che possano sussistere, è la reazione alla politica espansionistica degli insediamenti ebraici nella Cisgiordania. È la risposta agli scavi effettuati dagli archeologi israeliani lungo il Muro del Pianto e che hanno “sconfinato” nella spianata delle Moschee. L’impossibilità di giungere a una partnership nella gestione del tesoro religioso che è proprio di tutta questa terra fa pensare a un grottesco litigio all’interno di un condominio. In questo modo però, le possibili ripercussioni politiche si rivelano drammatiche. Questi eventi sono infatti la conferma che si sta attraversando una fase di recrudescenza degli animi e di prevaricazione degli atteggiamenti estremistici da ambo le parti.
Lungo la Striscia di Gaza si sono riaperti gli scontri, per quanto sporadici, fra le truppe israeliane e le milizie palestinesi. Risale solo alla scorsa settimana il più recente sconfinamento della fanteria di Tzahal nella Striscia. Negli stessi giorni un commando di “Jihad palestinese” – una fazione che nemmeno Hamas riesce a tenere sotto controllo – è stata intercettata da una pattuglia israeliana mentre tentava di collocare una serie di ordigni oltre il confine. Lo scontro che ne è generato ha provocato la morte di due miliziani.
A Gaza intanto si sta assistendo a un regolamento di conti tra Hamas e quelli che sono stati considerati “collaborazionisti” di Israele durante la guerra alla fine del 2008. Questi palestinesi “traditori” sono stati passati per le armi. Il fatto suggerisce che all’interno del movimento islamico stia guadagnando potere la corrente più propensa a un nuovo confronto revanchista con l’Esercito israeliano. Un atteggiamento di uguale aggressività viene riscontrato in seno al Governo Netanyahu. Gli allarmismi diffusi per il rischio di possibili sequestri di soldati israeliani al confine con Gaza e la denuncia per cui Hamas sarebbe in possesso di un “arsenale di missili di media gittata” sono il sintomo di un ulteriore irrigidimento delle posizioni da parte di Israele. Va detto peraltro che le milizie palestinesi finora hanno utilizzato solo razzi e non missili.
Ad aggiungere benzina sul fuoco c’è infine l’accusa israeliana fatta alla Siria di aver fornito Hezbollah di nuovi equipaggiamenti bellici. Se così fosse, il governo di Bashar el-Assad sarebbe andato contro due risoluzioni dell’Onu: la 1559 del 2005, che le impose il ritiro delle sue truppe dal territorio libanese, e la 1701 del 2006, che prevede il disarmo di tutte le milizie attive nel “Paese dei Cedri”. Il caso ha suscitato anche nuove frizioni tra Damasco e Washington. Martedì infatti il Dipartimento di Stato ha convocato il rappresentante diplomatico siriano in Usa per avere delucidazioni sull’accaduto. Nel frattempo Assad è volato al Cairo per incontrarsi con il Presidente egiziano Hosni Mubarak. Sono segnali di guerra tutti questi? C’è davvero il rischio che Israele giunga a uno scontro armato con la Siria, oppure avvii una nuova operazione militare a Gaza?
Stiamo assistendo a un crescendo di provocazioni, che include anche la diatriba sulla Tomba dei Patriarchi. Unico intervento distonico e quindi positivo rispetto a questa congiuntura di tensioni è la dichiarazione del Ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, secondo il quale è necessario tornare ai negoziati, sia con l’Anp sia con la Siria e quindi fugare tutte le ombre di guerra che si stanno addensando sul Medio Oriente. Bastano queste parole per rassicurare gli animi?
Pubblicato su liberal del 22 aprile 2010