Baghdad riconta i voti

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di ANTONIO PICASSO

Dopo quasi un mese e mezzo dal voto, che si è tenuto lo scorso 7 marzo, la Commissione elettorale irachena ha disposto il conteggio manuale delle schede relative alle circoscrizioni di Baghdad, che prevedono la nomina di 68 membri del Parlamento, sui 325 totali. Si tratta praticamente del 20% dell’intera assemblea. La decisione è stata presa dopo le pressioni del governo al-Maliki, il quale ha sempre parlato di errori commessi durante il conteggio elettronico. La scelta però nasce anche dal fatto che in questo lasso di tempo non si sia giunti a un risultato chiaro del voto. Le due coalizioni che hanno ottenuto il maggior numero di preferenze sono arrivate a un testa a testa, con uno scarto di appena 2 seggi in Parlamento. Iraqiya, il movimento di tendenza secolare e guidato dall’ex Premier Iyad Allawi, sembrerebbe aver ottenuto 91 seggi, contro gli 89 della “Alleanza irachena” dell’attuale Primo ministro al-Maliki, la quale ha conservato un’identità prettamente sciita, pur separandosi dalla coalizione del Dawa e del Supremo Consiglio Islamico Iracheno (Scii). Finora si era ipotizzata l’eventualità di un governo di unità nazionale. La mancanza di un accordo però rafforza la tesi per cui l’Iraq sia ancora lontano dall’imboccare un processo di normalizzazione politica e di stabilità in seno alle istituzioni centrali.

Prima del 7 marzo, al-Maliki era praticamente sicuro della vittoria. Il Premier uscente si sentiva di presentare all’elettorato, come credenziali per la sua conferma in carica, cinque anni di governo stabile, con una parziale pacificazione del territorio nazionale e soprattutto con l’accordo per il ritiro delle loro truppe Usa entro il 2011. Attualmente gli Usa sono impegnati con 95 mila uomini in Iraq. Allawi, dal canto suo, era riuscito a far leva sulle stesse istanze del suo concorrente, mettendone però in evidenza i punti deboli. Il Governo al-Maliki, secondo il giudizio degli oppositori, avrebbe mantenuto la leadership del Paese solo grazie all’appoggio di Washington. Resta quindi l’incognita su cosa avverrà nel momento in cui il Pentagono avrà ritirato anche il suo ultimo Gi dal Paese.

Facendo una veloce radiografia dell’Iraq, ciò che preoccupa maggiormente è il rischio della nuova insorgenza da parte di “al-Qaeda in Mesopotamia”. Dall’inizio dell’anno il gruppo terroristico ha dimostrato di non essere stato sconfitto. Al contrario, il numero degli attentati contro gli sciiti è cresciuto in modo graduale con l’avvicinarsi del voto. È evidente che la scarsa attenzione internazionale riscossa attualmente dall’Iraq costituisca un’opportunità per i mujaheddin attivi sul suo territorio, i quali riescono a mantenere saldi i legami con le tribù sunnite che non accettano di sottomettersi a un governo centrale di fede sciita. All’interno di questa confessione, a sua volta, sta emergendo un’inattesa avversione nei confronti del confinante e troppo potente Iran. In questo senso, non è una novità l’accusa rivolta dallo Scii ad al-Maliki di essersi avvicinato in modo eccessivo a Teheran. Nel frattempo il Kurdistan sembra apparire un’isola felice, formalmente alle dipendenze di Baghdad, ma autonoma per quanto riguarda l’amministrazione del suo Governo regionale e la crescita della sua economia.

Domenica il Comandante statunitense in Iraq, il generale Raymond Odierno, ha confermato la “progressive exit strategy” del Pentagono. Entro la fine del 2011, Baghdad dovrebbe essere in grado di controllare autonomamente l’intero territorio nazionale e garantire la solidità del suo apparato istituzionale. Tuttavia, le ombre che aleggiano sul voto dello scorso marzo – confermate dal riconteggio delle schede – dovrebbero far riflettere Washington ed eventualmente rivedere la propria agenda irachena.

D’altra parte, è sempre di questi giorni la notizia dell’uccisione dei due più importanti leader qaedisti locali, Abu Omar al Baghdadi e Abu Ayub al Masri. Mostrando le immagini dei cadaveri in televisione, il Governo al-Maliki intende confermare la sua efficienza di fronte agli Usa e all’opposizione interna. Nel caso Baghdad dovesse tornare al voto, questo colpo inferto ad al-Qaeda potrebbe incidere positivamente sul consenso dell’attuale Premier.

Pubblicato su liberal del 20 aprile 2010

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