Tra diritto e dovere: il Federalismo Fiscale non è una riforma

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Tutti siamo responsabili delle nostre risorse

di Martina Cecco

Decentramento, federalismo fiscale, devolution e in mille modi lo chiamano: c’è chi lo descrive come la soluzione ai problemi fiscali delle regioni meno ricche e chi invece lo intende come ingiusto particolarismo locale in una Repubblica. Ogni definizione rimane un fatto temporaneo, finché non si verifica l’effettività della proposta; ma il federalismo fiscale è sempre stato un diritto non goduto o è un ingiusto privilegio riservato a chi ha più risorse?

Il Ministro delle norme federali si occupa di federalismo fiscale in questi giorni, garantendo che entro il mese di aprile saranno approvate le modifiche alla legge delega sull’autonomia fiscale degli enti locali. Lo ha dichiarato il Ministro Roberto Calderoli, intervenuto il 13 dicembre scorso nel corso di un convegno promosso dalla Lega Nord sul tema, appunto, del federalismo fiscale.

In Senato entro il 20 gennaio e poi alla Camera, per concludere in aprile, il tempo utile per riuscire ad approvare una modifica che sia condivisa e accettata da tutto il paese e specialmente da tutte le forze al Governo. In fatto di fisco non si possono alternare le leggi di pari passo alle legislature, sa molto di Italia, questa prassi, ma oltre che costare alle casse dello Stato, costa in fatto di garanzie alle tasche del cittadino, come
si dice “cornuto e mazziato”.

Il meccanismo fiscale di una nazione non può prescindere dalla sua generica Costituzione: di conseguenza, in uno stato in cui si vuole ottenere una propria autonomia locale delle regioni e delle provincie, nonché dei comuni e delle aree metropolitane, va da sè che si sente automaticamente la necessità di riforma del sistema fiscale. L’autonomia dei singoli parte da un presupposto semplice da concepire: di fatto, la responsabilità sulle risorse, che si traduce di conseguenza in capacità di gestire le risorse e di investire su quelle che comunemente sono definite erario o tasse, determinano insieme la capacità economica di auto-gestione delle singole Regioni.

Si tratta di un percorso obbligato, che con il tempo consente di allentare sempre di più la dipendenza da una gestione centrale, permettendo investimenti più adatti al “passo” economico di ogni singola regione. Semplificando ulteriormente: se quella che viene definita come “capacità fiscale” misurata sui soggetti fiscali, corrisponde all’effettivo gettito erariale, in altre parole dove non c’è un fenomeno significativo di evasione fiscale, le singole realtà sono incentivate a fare in modo che il fisco segua delle logiche che consentono a sua volta al governo decentrato, cioè regionale, provinciale o comunale di gestire i servizi pubblici garantiti.

La differenza tra le risorse delle regioni più ricche e quelle più povere non incide sulla “capacità fiscale”, per abitante in media, poiché viene superata inizialmente con il fondo di compensazione, che consiste in quel fondo per cui le diverse realtà sono messe in condizione di partire paritariamente senza differenze territoriali. Le regioni più povere che sono aiutate con il fondo perequativo sono incentivate a misurare il proprio gettito fiscale, per intervenire proporzionalmente al bisogno.

La differenza, a questo punto, si avrà solo nella possibilità di gestire in modo buono il fondo, come le risorse erariali delle singole regioni. Il fondo deriva da una parte di Irpef, Irap e Iva versata alle Regioni verrà girata in un fondo destinato “ai territori con minore capacità fiscale per abitante”: rispetto alla situazione attuale si crea una situazione per cui questo fondo, che non obbligatoriamente sarà fisso nel tempo, sarà utilizzato per monitorare e di conseguenza gestire, le situazioni di crisi.

La logica entro cui il federalismo si muove è quella del virtuosismo: in una ipotetica buona gestione delle risorse, dove tutti i cittadini pagano le tasse, come le attività e le imprese, il gettito fiscale sarà buono, tale da poter essere investito in servizi e in ulteriori risorse, che ricadono sui cittadini, i quali, facendone buon uso e parsimonioso ricorso, possono decidere riducendo lo spreco, di abbassare il tetto delle spese e quindi di ridurre il prelievo fiscale. Più virtuoso è il circolo, meno sono le spese, meno il prelievo fiscale, maggiore l’investimento in strutture.

Il percorso attuativo è semplice: allo stesso modo le realtà comunali che sono più difficili da gestire rispetto alle altre saranno collocate in una logica che prevede le “città metropolitane”. Si tratterebbe cioè di 9 grandi città, Milano, Roma, Torino, Bologna, Firenze, Venezia, Genova, Napoli e Bari che avranno possibilità di gestire le
risorse in autonomia.

Dunque: se non c’è la capacità di gestire il federalismo, se non c’è lavoro e quindi reddito e di conseguenza erario, allora si ricorre al fondo, fino a che le risorse sono investite in modo da consentire l’autonomia. Un problema, questo, che di fatto, riguarda attualmente solo alcune delle regioni del sud Italia. La Commissione paritetica, dunque, si occuperà di valutare i casi di inefficienza, monitorando la finanza pubblica.

Le regioni sono incaricate di seguire l’istituzione tributaria ai livelli inferiori, privinciali e comunali, che hanno invece l’autonomia per definire le aliquote. Per le tariffe, invece, grazie al decreto Bersani, servizi e prestazioni saranno regolate dal libero mercato, anche se per il pubblico l’autonomia è dell’ente preposto.

Il federalismo fiscale ha lo scopo di sgravare dallo Stato, per snellire e perfettibilizzare il movimento tributario. Inoltre l’obiettivo per le singole realtà è quello di diminuire, non aumentare, la pressione fiscale, riducendo le spese che non portano danaro. Infine non dovranno esserci tra regioni di uno stesso Stato delle differenze in fatto si servizi minimi garantiti e prestazioni senza utile, come l’assistenza, la sanità, l’istruzione e la difesa. Su quest’ultimo punto si misura l’efficienza di una gestione in chiave di competenze.

Una parentesi a sè la fanno le Regioni a statuto speciale e le Provicnie Autonome di Trento e di Bolzano, che secondo quanto previsto dai rispettivi statuti sono chiamate a concorrere al fondo di perequazione, ferma restando l’autonomia nel trattenere le accise di competenza, nonché il trasferimento delle competenze da definire.

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