La politica italiana è distratta di fronte alla condizione asimmetrica evidente che emerge nel rapporto uomo/donna e che soggiace al diverso comportamento in ambito lavorativo e anche sociale, soluzioni?

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Le esperienze a cui si dirige la nostra attenzione sono discriminate in modo più completo e percepite in modo più dettagliato rispetto alle altre esperienze di cui siamo pure consapevoli.

Friedrich Von Hayek – L’ordine sensoriale

 

Asimmetrico. Questo potrebbe essere il termine che descrive meglio il rapporto donna-lavoro/uomo-lavoro in Italia, ma non è un problema solamente legato al genere, se di questo si vuol parlare. Protezione sociale e garanzie di salvaguardia del mercato del lavoro per la donna sono due delle prime urgenze – conseguenza anche della pandemia -che bussano alla porta dello Stato sociale odierno, in Europa e particolarmente in Italia e in Spagna, territori che escono particolarmente male da questo periodo e che hanno dato due risposte politiche profondamente diverse. Come si sta muovendo l’Italia?

La discriminante che favorisce innanzitutto la presa di coscienza del problema in sé e per sé, come direbbe Friedrich Hegel – ovvero al netto della concertazione – resta la cultura, da una parte, visti i dati esposti e presentati anche su base sindacale (CISL, CGIL) che vedono ancora una forte tendenza della donna del Sud, rispetto a quella del Nord, a sacrificare il lavoro per un “altro” non meglio definito, che si frammenta tra disoccupazione, inattività, altre attività, e insieme alla cultura vi è una novità: il grande cambiamento in atto rispetto alla specializzazione del lavoro per genere che, dall’altra, vede ancora la donna primeggiare nei servizi di cura e l’uomo primeggiare nelle attività tecniche.

Se nel parlare di Gender Gap nel mondo del lavoro, dunque, si vuole arrivare a un risultato, il primo passo – dopo il fatto di aver presenti i dati espressi dagli istituti nazionali ed internazionali, come ad esempio l’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere, European Institute for Gender Equality EIGE, che lavora in questo settore dal 2010 – è insistere sulla formazione trasversale, non solo dei giovani, che in questo senso sono già predisposti e recettivi ai cambiamenti, ma anche della fascia di popolazione che va dai 25/45 anni che si trova a metà tra il vecchio e il nuovo.

In questo senso la tecnologia, che consente di limitare fortemente il tempo da spendere al lavoro (sviluppo delle Intelligenze Artificiali) e la robotica (sviluppo di tecnologie di supporto che alleviano il carico fisico del lavoro nelle attività pesanti), consentono di limitare fortemente la differenza in termini di prestazione: questo problema, in passato, poteva emergere in modo prepotente. Lavorare un campo, per fare un esempio, poteva essere fortemente limitante per una donna o per un giovane, se era senza un trattore, lo diventa molto meno adesso con la tecnologia a supporto della coltivazione industriale, dove uomini e donne di in età lavorativa hanno un carico di lavoro molto meno differenziato. In questo senso va non solo l’Agenda digitale, che per certi versi capovolge l’idea di Jeremy Rifkin del 1995, che viene confutata dai dati OCSE del 2021. Lo sviluppo tecnologico è fondamentale come illustra lo studioso Massimo Chiriatti nel volume “Incoscienza Artificiale” edito dalla Luiss Press nel 2021.

Un secondo punto in favore della riduzione della asimmetria nel lavoro è dato dall’integrazione nella scuola di attività ormai indispensabili come base formativa predisponente alla professione di qualsiasi settore, ovvero lo studio delle lingue e dell’informatica: è proprio di questi giorni la prima ricerca che esplica come – grazie all’ingegneria informatica – siano più i posti di lavoro creati dalla ricerca e dalla creazione di macchine di supporto nel lavoro, industriale ma anche artigianale, che non i posti che si vanno a perdere. Basti pensare all’enorme risultato che, in pandemia, si è ottenuto grazie allo sviluppo delle piattaforme informatiche le quali, in pressoché assenza di aggregazione sociale e di possibilità di spostamento, hanno consentito di procedere comunque nei principali servizi di base: scuola, salute, welfare, settori primari e secondari indispensabili. Basti pensare ai vantaggi delle seppur limitate App come IO, che consentono di effettuare parecchie attività burocratiche da casa, oppure Entratel, e così via.

Se per la parte sindacale inerente il lavoro e il carico uomo/donna nella famiglia contano ancora i modelli della tradizione: famigliari, religiosi e del contesto sociale, è pur vero che – con il supporto di professionisti ad hoc-  problematiche quali maternità, sostegni sociali, accesso alle prestazioni agevolate, casa, supporto fiscale e legale, difesa delle tutele del lavoro, possono trovare risposta concreta uniforme sul territorio nazionale, motivo per cui le differenze fattuali non possono che essere deputate a due fattori che esulano dalla volontà della società, del lavoratore o delle aziende che sono: la situazione economica delle diverse regioni italiane, la situazione politica. Spetta quindi alla politica, in questo frangente, prendersi carico di risolvere le cause alla base della differenza di impiego nei sessi, ammesso che questa volontà sia espressione dei lavoratori. In altre parole, se vi è la volontà, la risposta non può che essere politica.

Nella dinamica della domanda e dell’offerta, dunque, la flessibilità e la disponibilità a lavorare anche in turni poco favorevoli o su allineamenti che possono essere irregolari (si prendano come esempio il lavoro a chiamata, le prestazioni occasionali, i part time con orario mobile, per citare alcuni esempi che si differenziano dai contratti base classici del secolo scorso, spezzati o interi sulle ore canoniche) richiedono delle competenze, ovvero delle soft skills, come la capacità di delegare, la capacità di lavorare in gruppo, la gestione dell’ansia, del sovraccarico, che vanno oltre quelle strettamente tecniche: è evidente che – per semplificare molto – la situazione incancrenita italiana offre pochissime possibilità.

La mancanza di uno spirito di intrapresa del privato che non è mai stato attivato per rispondere con dei servizi riconosciuti e valorizzati nel giusto modo alle necessità del lavoratore e della lavoratrice (è bene ragionare in questo senso) che hanno una famiglia, sta alla base della rinuncia al lavoro da parte di molti. Per chiarire: la famiglia storica italiana prevedeva la presenza dei nonni in stile patriarcale, erano nonni che si potevano prendere cura della prole nelle ore lavorative (parliamo della situazione fino alla prima metà del novecento) ma il grande cambiamento in termini di mobilità sociale legata al lavoro nelle fabbriche degli anni ’60, che ha comportato uno sviluppo dei servizi al nord e della dimensione abitativa moderna, gentrificata (dinamica che attualmente si sta riversando all’estero) ha minato alla base questo modello. Non si può più infatti considerare la famiglia come un blocco monolitico che racchiude tre generazioni; essa attualmente ne racchiude solo una, spesso con spin off, ovvero, dobbiamo considerare tra i fattori che creano precarietà economica e realtà non stanziali anche separazioni, divorzi, affidamenti parziali, nubilato o celibato con prole, vedovanze e altre situazioni di diverso genere, sistemi famigliari per i quali, attualmente, non sono previsti progetti concreti. Questo è un punto debole.

Se per quanto riguarda la ricerca del lavoro molto si è fatto, non solo grazie alle Agenzie del Lavoro che offrono i servizi in termini di Navigator, ovvero di proposte in sostituzione agli assegni di disoccupazione ex Naspi o il reddito di cittadinanza, resta comunque pressoché impossibile – per le donne – un eventuale radicale cambiamento della propria posizione lavorativa dopo un primo eventuale fermo di carriera, molto difficile è, ad esempio, ripartire. Manca la mobilità qualitativa, non manca quella quantitativa: in altri termini possiamo dire che ci sono molti lavoretti, ma poche opportunità. O questo, almeno, è il sentore. Magari sbagliato, dovuto a mancanza di informazione, di collante sociale!

In questo però ci aiuta la cultura. Può essere utile per un approccio filosofico prendere visione di quanto scriveva in un saggio intitolato “A Vindication of the rights of woman” del 1792 Mary Wollstonecraft, che a tutti gli effetti può essere considerato un ottimo spunto per il femminismo moderno, quello che non vuole le classi riservate al processo di “invalidità donna”. Oppure, per rimanere in un ambito meno impattante, ma molto simile dal punto di vista del contenuto, è utile leggere “The subjection of women” del 1869 di John Stuart Mill che si schiera a favore del diritto delle donne all’educazione con un occhio di riguardo a quella che vogliamo sia una ferrea predominanza della libertà e non l’ennesima soluzione spiccia che trasla i valori del passato allargandoli alla donna.

Dunque: la libertà rimane il punto focale della questione; libertà di scelta degli ambiti di studio, specialmente a livello secondario e universitario, sostegno economico per la formazione dei giovani, sia tradizionale che non, integrazione delle attività formative legate al mondo del lavoro, per avvicinare alla professione i giovani trasversalmente e non “dopo” la selezione “del sesso” effettuata, magari, da improbabili Agenzie per il collocamento, che in quanto imprese devono rispondere del risultato interno e non solo tener presente il risultato globale, che rimane compito, ancora una volta, della politica. Essere artefici del proprio destino in una società impattante e invasiva, che come prende però sa dare.

Secondo i valori espressi da ISTAT ci sarebbero da unire diversi parametri per dare una lettura coerente del sistema lavoro in Italia, sempre in riferimento alla differenza di genere; tuttavia, per dare uno sguardo sociale comprensivo e generico ai fini di un breve articolo, le questioni inerenti la violenza di genere, la discriminazione di genere e la prevaricazione di genere sono un problema che condiziona la donna, esso si presenta in determinate e ben precise sacche di popolazione. Dunque sarebbe in gran parte prevedibile, in un certo senso, motivo per cui non vi è motivo per non intervenire con una risposta educativa puntuale, anche in questo senso.

A questi dati di fatto piuttosto gravi si devono sommare anche le questioni inerenti il disagio, l’integrazione etnica e le differenze geografiche. Sullo sfondo nazionale infatti permangono ancora forti disparità nei servizi siano essi prescolastici, scolastici, sanitari. Ma anche emergono disparità nei collegamenti, rispetto a distretti serviti poco o male da strade o da mezzi pubblici, carenti collegamenti internet, pochi luoghi di scambio economico. Si tratta di scelte che devono essere oggetto di legge, come ci ha insegnato a fare in “De L’Esprit Des Lois” Charles L. de Montesquieu, era il 1748.

Recentemente il legislatore nazionale ha introdotto delle novità normative assai rilevanti per contrastare il cosiddetto Salary gap che sembra ancora persistere in molte professioni, ovvero il divario salariale che c’è tra uomo e donna.

L’impegno politico attuale è profuso per favorire la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e lo si sta facendo incentivando le imprese ad adottare delle policy adeguate per ridurre il divario di genere. In taluni casi si parla di buone prassi. Questi sono dei percorsi che tendenzialmente portano buon frutto, perché la libertà economica è la base per tutte le altre libertà. E la libertà è anche alla base del benessere sociale, il quale condiziona la crescita umana, sociale e politica e via dicendo. Non è dunque solamente la possibilità di votare che determina la parità tra uomo e donna. Per fare dell’ironia.

Secondo il rapporto di Heritage Foundation che pubblica l’Index of economic freedom misurando le libertà economiche e di intrapresa in moltissimi paesi in tutto il mondo, noi italiani siamo piuttosto in basso.

Di Martina Cecco

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