Voci da Agadez, la multiservizi della migrazione clandestina

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[riportiamo il reportage fatto dal nostro amico Lorenzo Di Pietro così come pubblicato su TERRA del 04.02.2010]

di LORENZO DI PIETRO da Agadez

AFRICA. È una tappa fondamentale per coloro che vogliono raggiungere l’Europa o la parte nord del continente. Un viaggio nella città del Niger, tra gli ingranaggi di una macchina organizzativa che sfrutta il dramma di chi fugge dal proprio Paese.

«La mia famiglia mi ha rifiutato. È difficile da dire». Trattiene a stento le lacrime I.K., mentre tenta di spiegare le ragioni che lo hanno spinto a emigrare. Proviene dal Ghana, lo incontriamo ad Agadez dov’è di passaggio come migliaia di altri ragazzi. Per tutti coloro che da questa parte dell’Africa intendono raggiungere l’Europa, o comunque il nord del continente africano, questa città rappresenta un punto di passaggio ineludibile: è infatti il luogo di convergenza della rete viaria che parte dai Paesi dell’area all’origine dei flussi. È qui che si sono sviluppati la macchina organizzativa e quel sistema di connivenze indispensabili per raggiungere e attraversare il confine con la Libia e l’Algeria.

Agadez è una vera “multiservizi” della migrazione. Una marea umana di viaggiatori “abita” la città, alimentando un insospettabile mercato. I clandestini sono un affare molto redditizio da queste parti. Oltre a costituire fonte di reddito per la moltitudine di figure che si occupa a vario titolo di favorire il loro esodo, sono anche clienti delle locali attività economiche; sono però anche braccia per la manodopera locale e, se di sesso femminile, corpi da inserire nel circuito della prostituzione. Clandestina, ovviamente, poiché, di fronte all’espansione del fenomeno, da alcuni anni le autorità hanno deciso di vietarla.

Nel corso del tempo sono andati definendosi ruoli specifici per rispondere alle necessità dei migranti. Tra le diverse figure spiccano il passeur e il cockser, o connection man, colui che “assiste” il migrante durante la permanenza in città: è il cockser che prende in consegna queste persone dalle mani della polizia al momento dell’ingresso nel centro abitato, procura loro l’alloggio e, in seguito, il mezzo su cui lasceranno il posto alla volta della frontiera. In sostanza è lui a decidere quanto ciascun migrante resterà in città, a alimentandone l’economia e qualche volta il sottobosco criminale. Abbiamo conosciuto uno di questi “addetti ai migranti” che, al termine di una lunga trattativa, ci ha consentito di entrare in uno dei luoghi dove un centinaio di clandestini alloggiano lontano da sguardi indiscreti, nell’attesa di proseguire il viaggio.

Una Rosarno nel deserto
Fuori, sulla strada, intorno a una panca alcune persone bivaccano, facendo nel contempo da vedette: a nessun estraneo è consentito l’ingresso; e noi siamo i primi occidentali, qui ad Agadez, che possono vedere questi luoghi. Appena entrati ci troviamo di fronte una vecchia casa colonica circondata da un ampio cortile, dove molti ragazzi sono seduti o vagano, discutono, assembrati in piccoli gruppi. Tutti ci guardano con espressione più sorpresa che di diffidenza. L’aia si presenta subito nella sua cruda essenzialità: una parabola, un cumulo di rifiuti, un capanno, rifugio dei migranti provenienti dalla Repubblica di Guinea, lì sotto al freddo vivono, cucinano e dormono. Qualche parete di fango, senza tetto, a delimitare un paio di spazi nei quali due vecchie pentole sporche, poggiate su ceppi già arsi, fungono da cucine per ivoriani e ganesi. Semi, tuberi: si cuoce ciò che si riesce a trovare, perché il vitto non è compreso nel pacchetto.

La casa è invece un tugurio. Uno stretto e buio corridoio offre la vista di tante stanzette dove su tappeti dormono, mangiano o restano semplicemente stesi nella penombra a guardare il soffitto uomini con gli abiti consunti e gli sguardi smarriti che spesso indossano t-shirt delle squadre di calcio italiane o inglesi. Non ci sono tavoli né sedie, non ci sono luci, tanto meno prese di corrente, solo e zaini ammucchiati e tappeti come pavimento, per limitare il contatto con la polvere, poiché è la nuda terra a costituire la pavimentazione di queste case. Le scarpe vengono lasciate all’ingresso. L’atmosfera è tetra, gli ambienti malsani e maleodoranti. Ciascuna stanza ospita una specifica comunità: nigeriani, ganesi, burkinabè, camerunensi, parlano dialetti diversi, alcuni provengono da Paesi ex colonie inglesi, i restanti sono francofoni. All’interno di ciascuna comunità c’è interazione, solidarietà e sostegno, ma tra i diversi gruppi quasi non c’è rapporto, a ciascuno la sua stanza, il suo cibo, la sua cucina. Il suo cockser. Gli unici spazi comuni sono rappresentati dal cortile e da una sala più grande di altre, l’unica illuminata dove campeggia sempre accesa la tv, un focolare che riunisce attorno a programmi delle più note televisioni europee tutte le comunità senza distinzione. Fissi, di fronte allo schermo, in religioso silenzio.

Sono stupiti della nostra presenza ma dopo qualche minuto iniziano ad avvicinarsi, chiedono chi siamo con fare pacifico, con il desiderio di rompere il silenzio con questi ospiti inattesi. Sono tutti malati, chiedono aiuto. Alcuni sono giunti qui sui cassoni dei camion viaggiando per più di 1.500 chilometri, in buona parte su piste di sabbia e sassi, che spesso gli autisti preferiscono alle strade asfaltate per evitare i controlli. Lamentano problemi ossei, respiratori, molti hanno la malaria e problemi agli occhi. Un ragazzo ha un arto infetto, una mano gonfia come un melone.

Ciascuno porta con se le malattie contratte prima e durante il viaggio, impossibile non contagiarsi reciprocamente in un luogo del genere. Alcuni hanno la febbre, dicono di avere freddo e chiedono vestiti. Non inganni il fatto di trovarsi in Africa, qui di notte la temperatura scende sotto i 15 gradi, pochi per chi possiede solo una maglietta. Fuggono da storie di stenti, di emarginazione e spesso di rifiuto da parte delle loro famiglie, alcuni perché diventati orfani troppo presto, con la responsabilità dei fratelli minori, cui devono inviare i soldi che ancora non sanno come guadagnare. Alcuni si accontenterebbero di lavorare in Libia, che però non può assorbirne ancora molti. Per tutti l’Europa è un sogno, l’unica vera speranza, dicono, per sopravvivere.

Il rimpatrio:
quasi una condanna a morte
Chiediamo se sappiano cosa stia accadendo in Libia: «Certo – è la risposta – è da li che vengo, sono stato rispedito indietro, ma devo ritentare. Non ho alternative, nel mio Paese morirei di fame». Parla un refoulé, uno cioè che è già stato respinto dal confine libico dai militari di Gheddafi, come previsto a seguito dell’accordo tra il leader libico e Berlusconi. Ha finito i soldi, come molti altri, che esprimono senza vergogna la loro frustrazione. Si dicono “intrappolati”: senza una famiglia cui chiedere aiuto e senza denaro sono bloccati lì, non possono proseguire né tornare indietro. “Imprigionati”, appunto. Di giorno vagano per la città alla ricerca di qualsiasi lavoro, e qualcuno purtroppo finisce anche in cattive mani.

Tecnicamente non possiamo chiamarli rimpatri: dalla Libia queste persone non vengono rimandate in patria, cioè nel Paese da cui provengono; più semplicemente, con le armi delle guardie libiche puntate contro, sono obbligate a varcare a ritroso il confine con il Niger. Non importa da dove provengano, dovranno affrontare 80 chilometri di Sahara a piedi, fino a Madama, un avamposto militare in pieno deserto. Non c’è modo per proseguire da lì, se non pagando un viaggio di ritorno agli stessi trafficanti di uomini che li hanno aiutati ad attraversare illegalmente il confine. Secondo un testimone, sarebbe proprio uno di questi “professionisti della migrazione clandestina”, nipote del sultano di Dirkou, il macellaio che nel marzo scorso abbandonò 363 persone in mezzo al deserto dopo averne incassato i soldi del “biglietto di ritorno”. Morirono tutti. Una parte dei cadaveri di questa povera gente è stata ritrovata e ritratta nel video che circola su YouTube, “Dead in the Sahara desert”, realizzato con un cellulare e inserito in rete il 13 dicembre 2009 da un utente americano. Il video è passato per molte mani nei mesi scorsi, ma a parlarci della sua realizzazione è l’autore stesso, I.D. detto Simbo, che abbiamo incontrato ad Agadez. L’uomo che era con lui durante la ripresa, un ex poliziotto libico, è morto qualche mese dopo in circostanze non chiare.

Molte storie si affollano in questo luogo e trasudano dalle mura della città di fango, la cui economia è stata messa in ginocchio dal lungo isolamento causato dalla guerriglia e da politiche sbagliate, che vede oggi nei migranti la sua ultima fonte di sostentamento. In questa parte del mondo si vive di migrazione. E sempre di più, di migrazione si muore.

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