La Beat Generation fu la generazione apripista della controcultura, sia statunitense che mondiale moderna.
Un movimento di rottura con il passato, fondato non già sul senso di ribellione, in sé e per sé, dalle convenzioni, quanto sulla poesia, sulla dolcezza, sul senso di comunità.
Un movimento antimaterialista, spirituale, che – in particolare con Kerouac – seppe coniugare la fede cristiana a quella buddista.
L’Occidente che incontra l’Oriente, in un caledoscopio di suggestioni eretiche, erotiche, ancestrali, spirituali, talvolta dettate dallo stato alterato della coscienza (o dall’espansione della coscienza stessa, attraverso sostanze psicotrope).
Jack Kerouac (ma anche Allen Ginsberg e William Burroughs) ne fu il capostipite assoluto, dimostrando che il “beatnik” non aveva nulla a che fare con la politica in senso stretto o con le mode che sarebbero emerse successivamente, al punto che il suo romanzo “Big Sur” fu molto critico nei confronti del capelloni e degli yippie, che sarebbero subentrati ai Beat e che a loro credevano di ispirarsi.
Lawrence Felinghetti era uno di loro.
L’ultimo dei Poeti, con la “P” maiuscola, estinti.
Di padre italiano di Brescia, la madre di origine francese, portoghese e ebraica, nato nel 1919, nel 1953 fondò a San Francisco la libreria e casa editrice City Lights Bookstore, che diverrà celebre proprio in quanto pibblicò i primi testi letterari della Beat Generation, fra cui, quelli di Jack Kerouac e di Allen Ginsberg. Tanto che, nel 1956, sarà arrestato con l’accusa di diffusione di oscenità, per aver pubblicato il celebre poema “Urlo” (“Howl”) di Ginsberg, messo lungamente al bando dalle autorità.
Amante della natura e della spiritualità orientale, al pari degli amici beat Kerouac e Gary Snyder (poeta dell’”ecologia profonda” e, con Kerouac, studioso di Buddismo zen), si ritirò spesso nella località di Big Sur, in California, all’epoca piuttosto selvaggia.
Fu un libertario senza altri aggettivi, impegnato, negli Anni ’60 e ’70, nel movimento per i diritti civili e contro le guerre imperialiste statunitensi, ad iniziare da quella del Vietnam.
Ci ha lasciati a 101, il 22 febbraio 2021. Curiosamente il giorno del compleanno di Eduard Limonov, che conobbe peraltro Ferlinghetti nei suoi anni in America e quest’ultimo gli consigliò un finale diverso per il suo romanzo “Sono io, Edika”, tipo l’omicidio di una persona famosa, anziché la frase “Affanculo tutti !”.
C’è da chiedersi che cosa rimanga, oggi, dello spirito beatnik, in un’epoca nella quale il politicamente corretto è diventato un politicamente corrotto, nel senso che ha corrotto – consapevolmente o meno – la libertà di pensiero di tutti.
Forse poco o nulla.
Forse perché è scomparsa quella spontanea ricerca della poesia, della dolcezza, del piacere di scrivere per il semplice piacere di essere sé stessi e di vivere il momento. Senza per forza immortarlarlo e rinchiuderlo in un “social” network. In un’immagine riproducibile da chiunque, che diviene moda e quindi conformismo.
La Beat Generation è forse scomparsa con l’avvento delle mode e della società dei consumi. Con l’avvento, quindi, di quel conformismo che ci ha omologati tutti. Persino nel linguaggio, oltre che nella gestualità.
Luca Bagatin