Covid: le bugie sul “modello italiano” vengono a galla, tra silenzi e tentativi di insabbiamento

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Nella documentazione sui provvedimenti intrapresi dal governo e pubblicata sul sito della Camera dei deputati si può leggere sin dalla prima pagina che l’Italia, con la delibera del Consiglio dei ministri dello scorso 31 gennaio, “ha immediatamente attivato significative misure di prevenzione” per far fronte a quella che allora era la minaccia, trasmessa dalle immagini provenienti da Whuan, del Covid-19. A distanza di mesi molti sono i dubbi su quanto sia stato fatto prima, durante e dopo l’ondata che ha colpito il Paese e alcuni di questi dubbi hanno trovato risposte paradossalmente nelle dichiarazioni di Agostino Miozzo, coordinatore del Comitato tecnico scientifico, rilasciate a Repubblica sabato scorso e rilanciate da StartMag.

Non c’era di fatto alcun “modello italiano” al quale il mondo guardava come ispirazione. Tant’è che, afferma Miozzo, non esisteva un piano pandemico quando il Cts si è riunito per la prima volta dopo la dichiarazione dello stato d’emergenza, il 7 febbraio. “Il Paese partiva da zero”, le parole dell’esperto, senza previsioni su mascherine e posti ospedalieri da liberare, senza reagenti per effettuare i tamponi. Limitarli, dunque, “era una scelta necessaria” e non una precisa strategia fondata su basi scientifiche come si tentava di far credere alla popolazione: la caccia agli asintomatici, cruciale per effettuare il tracciamento dei contagi, non poteva essere avviata semplicemente perché mancavano le armi, così come tra marzo e aprile i familiari di persone contagiate o decedute causa Covid-19 sono rimasti in attesa di un tampone mai avvenuto, lasciati nell’oblio del non sapere se fossero positivi o meno.

Quanto alle mascherine, oggi uno dei capisaldi delle misure di sicurezza da seguire assieme al distanziamento sociale, all’inizio ci veniva ripetuto che non servivano, semplicemente perché non ce n’erano a sufficienza, erano un miraggio, al punto che, svela Miozzo, “a metà marzo ho inventato le mascherina di comunità”: una fascia, una sciarpa o un foulard da mettere davanti a bocca e naso, mentre i dispositivi venivano messi da parte per assicurarli a medici e infermieri. Rivelazioni che confermano i sospetti che abbiamo sollevato più volte in questi mesi su Atlantico Quotidiano e che porterebbero a concludere che quella del lockdown non è stata la via migliore per limitare il contagio su basi scientifiche, quanto piuttosto l’unica percorribile sulla base del fatto che mancava tutto il resto, che il governo era impreparato a tutto.

Affermazioni che dovrebbero sollevare molte altre questioni che invece non vengono a galla nella narrazione ormai consolidata dai principali mezzi d’informazione, affannati più che altro nella rincorsa ad intervistare il virologo di giornata che fornisca la battuta giusta con cui confezionare un titolo che alimenti il clima di allarme costante. Considerazioni che dovrebbero spingere le forze politiche ad imbastire un serio dibattito, approfondito e scrupoloso, sulle soluzioni da trovare perché scenari simili non si ripetano, ma pare che in agenda ci sia sempre un argomento con precedenza maggiore a rubare la scena, lasciando l’agone allo scontro senza senso tra i cosiddetti “negazionisti” e gli ipocondriaci che si augurano una seconda serrata totale.

La pandemia di Covid-19, dal momento stesso che è un fenomeno su scala mondiale, porta con sé diverse responsabilità. Le politiche a breve scadenza condotte dalle classi governative degli ultimi decenni in termini di prevenzione (ripescare dal cassetto dei ricordi le parole profetiche, con il senno di poi, di personaggi come Barack Obama sono un vuoto esercizio di ricerca per scaricare la colpa su quelli al comando nel 2020, senza domandarsi cosa sia stato fatto in passato); la complicità di organizzazioni internazionali per un mero calcolo politico (come dimostra l’atteggiamento prono dell’Oms di fronte al silenzio di Pechino nel condividere i dati in possesso, sperando così di fare breccia nel muro di omertà cinese); l’ottusità mediatica nel dipingere buoni e cattivi e nel confondere le acque, riportando con sufficienza e pregiudizio notizie che riguardano protagonisti sentimentalmente non corrisposti; l’inadeguatezza dei vertici istituzionali nell’assumersi la responsabilità di informare la popolazione su ciò che sta avvenendo, preferendo adottare scorciatoie più immediate e univoche, appellandosi alla necessità di evitare di creare il panico (cosa che non è riuscita granché con i supermercati presi d’assalto e la psicosi dell’untore di turno) e mettendo in quarantena per decreto alcune libertà individuali.

Dagli errori s’impara, a patto che si ammettano. Stupisce davvero che nel 2020, con la trasmissione di informazioni e notizie che viaggiano ad elevata velocità e che possono essere confutate o meno grazie alla mole di materiale raccolta in anni di studi e ricerche, si sottovalutino alcune minacce “a portata di mano”, con il flusso di persone che si muove costantemente per il globo, correndo ai ripari con uno stop forzato della vita quotidiana da mattina a sera. Un modus operandi che può aggravare ulteriormente la situazione: da una parte l’entità statale che aspetta solo di allargare i propri confini, dall’altra l’inerzia di un’opinione pubblica sotto morfina che accetta senza obiettare.

Le bugie hanno le gambe corte, ma viaggiano velocemente.

Di Dario Mazzocchi in ATLANTICO QUOTIDIANO QUI

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