Ecco come l’Oms si è resa complice del cover-up cinese: “in pubblico” lodava la Cina per la risposta al virus, “in privato” si lamentava per la sua scarsa trasparenza. Che Pechino stava nascondendo dati non era anch’essa una informazione critica che era preciso obbligo dell’Oms condividere con tutti gli stati membri, che avrebbero potuto adeguare di conseguenza il loro livello di allarme?
Su Atlantico Quotidiano abbiamo posto all’attenzione dei nostri lettori gli elementi che indicavano l’insabbiamento di Pechino e le responsabilità dell’Oms a partire da febbraio, quando ancora tutti (o quasi) pensavano che il virus non sarebbe arrivato da noi, che bastava stare attenti a qualche turista, e che si poteva tranquillamente continuare ad abbracciare cinesi, mangiare involtini e fare aperitivi…
Ieri, grazie ad uno scoop dell’Associated Press, abbiamo avuto ulteriore conferma che avevamo visto giusto, che gli elementi che avevamo messo insieme (nulla di top secret, tutto pubblico, bastava cercare e unire i puntini) portavano nella direzione corretta.
Cosa c’è di nuovo, dunque? A metà aprile il presidente americano Trump aveva bloccato i fondi Usa all’Oms, per il tempo necessario ad accertare il suo ruolo nel cover-up e nella propaganda di Pechino sul coronavirus; poi, la scorsa settimana, ha annunciato la fine delle relazioni tra gli Stati Uniti e l’Oms, il che significa per l’organizzazione una perdita secca di circa 450 milioni di dollari. Ora, guarda caso, arrivano all’AP audio e documenti interni da cui emerge che “per tutto il mese di gennaio” i funzionari dell’Oms si sono più volte lamentati dei ritardi delle autorità cinesi nella condivisione di dati essenziali sul virus e sull’epidemia. Solo che si lamentavano “in privato”, nelle loro comunicazioni interne, mentre pubblicamente i vertici dell’organizzazione lodavano la risposta e la trasparenza di Pechino. Al contrario, il “ferreo controllo del regime sull’informazione” stava ostacolando il lavoro dei funzionari dell’Oms nella prima, cruciale fase dell’epidemia.
E stiamo parlando di dati decisivi per valutare la gravità della situazione, le caratteristiche del nuovo virus, e per preparare una risposta adeguata. Il ritardo nella condivisione del genoma ha rallentato il riconoscimento della sua diffusione negli altri Paesi, lo sviluppo di test, farmaci e vaccini. La mancanza di dati dettagliati sui pazienti ha reso più difficile determinare la rapidità con cui il virus si stava diffondendo, una questione cruciale per poterlo fermare e contenere.
Da chi avrà avuto questi documenti l’AP? Si tratta presumibilmente di un goffo tentativo dell’Oms stessa di difendersi dalle accuse formulate esplicitamente dall’amministrazione Trump ma condivise ormai da diversi governi e opinioni pubbliche. Peccato che le rivelazioni la inchiodino ancor di più, invece, alle sue responsabilità. E dai suoi documenti interni trovano conferma anche tutti gli elementi già noti circa gli sforzi di Pechino per nascondere quello che stava succedendo a Wuhan.
A cominciare dalla notizia dei primi casi di polmonite causati da un nuovo virus, che l’Oms apprende solo il 31 dicembre 2019, e non da Pechino, come avrebbe dovuto secondo il diritto internazionale, ma da una piattaforma open-source per la ricerca di informazioni sulle epidemie, ha riferito il capo emergenze dell’organizzazione, Michael Ryan.
Ma il primo caso trattato risale almeno all’8 dicembre (secondo altre fonti a metà novembre), mentre già da fine mese, da quanto viene ricostruito sulla base dei documenti dell’Oms ottenuti dall’AP, era partita la corsa dei laboratori cinesi a sequenziare il nuovo virus. Confermato quindi che non fu la Cina ad informare per prima l’Oms. Fu l’Oms, il primo di gennaio, a chiedere maggiori informazioni a Pechino, ricevendo una risposta ufficiale solo due giorni dopo (44 casi e nessun morto).
Passano ben dieci giorni da quando il virus viene decodificato dal primo laboratorio governativo, il 2 gennaio (altri tre ci riusciranno entro il 5 gennaio), a quando il genoma viene condiviso, il 12 gennaio. E solo perché il giorno precedente, l’11, uno scienziato di Shanghai, il dottor Zhang, aveva già provveduto a condividerlo – una iniziativa autonoma che gli costò la chiusura temporanea del suo laboratorio. In realtà, già il 27 dicembre un’azienda, la Vision Medicals, aveva messo insieme gran parte delle sequenze del genoma di un virus molto simile alla SARS.
L’8 gennaio, il Wall Street Journal riportava che gli scienziati avevano identificato un nuovo coronavirus in campioni presi da pazienti malati di polmonite a Wuhan, precedendo e imbarazzando i funzionari sia cinesi che dell’Oms. L’agenzia ha fatto una figura “doppiamente, incredibilmente stupida”, osservava Tom Grein, uno dei funzionari di vertice. “Il fatto è che siamo da due a tre settimane in un evento e non abbiamo diagnosi di laboratorio, non abbiamo una distribuzione per età, sesso o geografica dei casi, non abbiamo una curva epidemica”, lamentava il capo emergenze dell’Oms Ryan.
Dopo l’articolo, i media di stato cinesi annunciano ufficialmente la scoperta del nuovo coronavirus. Ma anche dopo questo annuncio, le autorità sanitarie cinesi non divulgano genoma, test diagnostici o dati. Ci vorranno altre due settimane prima che si degnino di fornire all’Oms dati dettagliati sui pazienti e sui casi, sempre secondo i documenti interni dell’Oms ottenuti dall’AP.
Nel frattempo, il virus arriva in Thailandia: il 9 gennaio un laboratorio thailandese lo isola ma non può confrontarlo con quello decodificato in Cina, tenuto ancora segreto. L’Oms, in meeting interni, lamenta l’assenza di comunicazioni. Solo dall’11 gennaio i ricercatori thailandesi possono confrontare il genoma del loro campione con quello sequenziato dal dottor Zhang e confermare che il virus è al 100 per cento lo stesso di Wuhan. Il 13 gennaio l’Oms annuncia il primo caso confermato di nuovo coronavirus al di fuori della Cina, in Thailandia. Ma da quel momento è implicitamente confermata anche la trasmissione da uomo a uomo.
Eppure, ancora il 14 gennaio l’Oms sul suo profilo Twitter negava che ci fossero “prove certe” della trasmissione uomo-uomo del virus. In realtà, come risulta da documenti governativi, le autorità cinesi lo avevano già accertato. E già almeno da fine dicembre era altamente probabile, dall’evidenza dei contagi all’interno degli stessi nuclei famigliari. Solo il 20 gennaio, con almeno una settimana di ritardo, le autorità cinesi lo ammetteranno pubblicamente.
“Stiamo procedendo con informazioni minime, chiaramente non sono sufficienti per una pianificazione appropriata”, dichiarava Maria van Kerkhove, a capo del gruppo tecnico sul Covid-19 dell’Oms, durante un incontro interno citato dall’AP.
“Siamo attualmente al punto in cui, sì, ci danno le informazioni un quarto d’ora prima che appaiano su CCTV (la tv di stato cinese, ndr), lamentava in un incontro il dottor Gauden Galea, rappresentante dell’Oms in Cina. Ma Galea ha già raccontato pubblicamente come stavano le cose, parlando a Sky News: “Sapevamo solo ciò che la Cina ci riportava”. E dal 3 al 16 gennaio, ricorda, i funzionari di Wuhan non hanno riportato alcun nuovo caso di coronavirus rispetto a quelli già noti: “Possibile che c’erano solo 41 casi in quel periodo di tempo? Penserei di no”.
Passano altri dieci giorni dall’ammissione pubblica della trasmissibilità da uomo a uomo (ma forti indizi c’erano almeno dalla fine di dicembre), e una settimana dal primo lockdown in Cina (40 milioni di persone circa), al momento in cui l’Oms si decide a dichiarare, il 30 gennaio, l’emergenza sanitaria internazionale. Dichiarazione che sarebbe potuta arrivare almeno una settimana prima, dal meeting del 22-23 gennaio del Comitato emergenze, se non fosse stato per le pressioni cinesi, come riportato dal Wall Street Journal. Solo la visita del direttore generale Tedros dal presidente Xi Jinping, il 28 gennaio, sembra sbloccare la situazione. Il giorno successivo, il 29, la conferenza stampa in cui viene lodata la risposta cinese e il 30 la dichiarazione dell’emergenza. E ricordiamo che solo a metà febbraio si svolgerà una missione dell’Oms nel Paese, di una settimana, con un rapido passaggio di soli due giorni a Wuhan.
L’AP osserva che le nuove informazioni non supportano né la narrazione dell’amministrazione Usa, di una Oms collusa con la Cina, né quella di Pechino. In realtà, confermano proprio la collusione e/o sudditanza dell’Oms nei confronti del regime cinese di cui la accusa Trump. Dai documenti emerge infatti che i funzionari dell’Oms erano ben consapevoli della scarsa trasparenza e dei ritardi cinesi, ma hanno deliberatamente deciso di gestire il problema “in privato” e di mettere la Cina nella migliore luce possibile in pubblico.
Nella seconda metà di gennaio, il capo emergenze Ryan diceva ai colleghi che era arrivato il momento di “cambiare marcia” ed esercitare più pressioni: “Dobbiamo vedere i dati… È assolutamente importante a questo punto”. Ma la strategia della “carota” con Pechino proseguiva, culminando alla fine di gennaio con le note dichiarazioni del direttore Tedros.
C’è da chiedersi cosa abbia impedito ai vertici dell’Oms di denunciare la scarsa trasparenza e i ritardi di Pechino invece di lodarne la risposta. La stessa AP giustifica questa scelta, sulla base dei documenti citati, con l’intenzione di persuadere “con le buone” le autorità cinesi a fornire più informazioni.
È vero che l’Oms non ha poteri di enforcement e di indagine nei confronti dei Paesi membri, ma chi e perché ha deciso di lodare la risposta di Pechino anziché denunciarne la condotta in violazione del diritto internazionale?
L’argomento che prevalse, secondo quanto fatto filtrare all’AP, fu che un approccio più conflittuale avrebbe potuto peggiorare la situazione, nel senso di non ottenere più alcuna informazione. Ma che Pechino stava nascondendo dati e ostacolando il lavoro dell’Oms, non era anch’essa una informazione critica che era preciso obbligo dell’organizzazione condividere con tutti gli stati membri, che ovviamente avrebbero potuto adeguare di conseguenza il loro livello di allarme? Elogiando addirittura come un “nuovo standard” la risposta cinese, l’Oms ha dato al mondo la falsa impressione che la situazione fosse sotto controllo e si è resa di fatto complice di un insabbiamento.
Più che una strategia diplomatica estremamente raffinata, quella scelta sembra terribilmente contorta e stupida, senza senso. Se un regime come quello cinese vuole nascondere informazioni rilevanti per la salute pubblica globale, violando il diritto internazionale, e viene addirittura premiato, lodando pubblicamente la sua condotta come un “nuovo standard”, che incentivo ha a collaborare? Perché Pechino avrebbe dovuto abbandonare una condotta che gli garantiva allo stesso tempo un controllo totale dell’informazione sul virus e gli elogi pubblici dell’Oms?
Chissà, forse anche la raccomandazione dell’Oms di non bloccare i voli provenienti dalla Cina rispondeva a una simile strategia, per convincere in realtà Pechino a sospenderli…
Se l’Oms avesse spinto troppo, avrebbe potuto addirittura essere cacciata dalla Cina, ha spiegato all’AP Adam Kamradt-Scott, professore di salute globale all’Università di Sydney. Aggiungendo però che un ritardo di pochi giorni nel rilascio di sequenze genetiche può essere critico e che diventando sempre più evidente la mancanza di trasparenza di Pechino, la continua difesa da parte del direttore generale dell’Oms appare “problematica”: “Ha certamente danneggiato la credibilità dell’Oms”.
Di Federico Punzi in ATLANTICO QUOTIDIANO QUI