Sul solco del ben noto detto che tutte le strade conducono a Roma, si potrebbe sostenere che tutte le esternazioni fatte al talk show della Gruber conducono a Salvini, da ultimo in via indiretta, come intimo del sovranista per eccellenza, Orban. Che cosa ha fatto ancora il bieco presidente ungherese che sia evocativo nei riguardi del segretario leghista? Ha assunto quei “pieni poteri” rivendicati da Salvini in costume da bagno dalla spiaggia del Papeete, fra nani e ballerine si sarebbe detto a suo tempo.
Essendo in questo passaggio tempestoso consigliabile tornare a sfogliare i Vangeli, mi ritorna in mente un passo famoso di Luca, là dove fa dire a Cristo “Perché guardi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio”. Il fatto è che Orban si è limitato a richiedere al Parlamento, dove non per caso ha una maggioranza di due terzi, di votare lo stato di emergenza, previsto e disciplinato dalla Costituzione ungherese del 2012, che quanto a questo non mi pare sia stata messa in discussione dal Parlamento europeo. La pandemia del coronavirus è solo al suo inizio; d’accordo, ma non siamo noi che diciamo e ribadiamo non senza qualche compiacimento, che il caso Italia è del tutto emblematico, per cui da centinaia i positivi diventeranno prima migliaia, poi decine di migliaia, con la coda impressionante di decessi; e sempre noi a sollecitare gli altri Paesi a precedere piuttosto che a ricorrere il virus?
Solo che noi abbiamo fatto di peggio, perché la nostra gloriosa Costituzione, per quel suo eccesso di parlamentarismo, dovuto al non prevedibile risultato delle future elezioni politiche, non ha previsto nulla di simile, che avrebbe implicato una concentrazione di potere nell’Esecutivo. Come si sa il vuoto viene inevitabilmente riempito, sicché si è fatto ricorso all’unico strumento disponibile, cioè il decreto legge, snaturandolo rispetto alla sua naturale funzione, di strumento rispondente ad un singolo e specifico stato di urgenza, da rimettere subito alle Camere e convertire in tempo breve. Di qui una sequenza di decreti legge, con il primo contenente addirittura una delega, sì da legittimare, si fa per dire, il presidente del Consiglio in persona, neppure il Consiglio dei ministri, a emanare decreti gravemente limitativi delle garanzie costituzionali. Qualche costituzionalista fuori dal giro ha fatto notare (come anche noi qui su Atlantico) come si sia ormai del tutto fuori dal testo costituzionale, mentre il gregge continua a divertirsi coll’ossessivo richiamo ai “pieni poteri” solo evocati da Salvini, peraltro col chiaro riferimento alla conquista di una maggioranza parlamentare omogenea; ma, invece, apertamente praticati da Conte. Il bello o il brutto è che così un premier convocato d’urgenza in un albergo da Salvini e di Maio, per passare dal suo studio di avvocato a Palazzo Chigi, dove ha resistito al cambio di maggioranza, sì da inanellare dopo un Conte 1 giallo-verde un Conte 2, giallo-rosso, a capo di un governo debole per composizione e per rispondenza nell’elettorato, è divenuto l’”uomo forte”, capace di accumulare consenso proprio in virtù del ricorso ad un potere anti-costituzionale.
Che cosa si sarebbe dovuto fare, secondo lo spirito di una Costituzione del tutto silente al riguardo? Se si fosse recuperato lo slogan d’altro tempo, la “Cina è vicina”, aggiornando quella che allora suonava come vicinanza ideologica, in vicinanza geografica, allora si sarebbe dovuto giocare d’anticipo, anzitutto con un coinvolgimento reale dell’opposizione, cioè apprestando una sede di decisione comune di matrice parlamentare. Certo, con un presidente della Repubblica meno attardato da un codice di comportamento ritualistico, si sarebbe potuto pensare ad un governo di unità nazionale, con pochi ministri, quelli solo politicamente e operativamente essenziali; ma a prescinderne con la scusa del tempo necessario a metterlo in piedi, certo la contropartita di una condivisione di responsabilità da parte dell’opposizione non poteva ieri e non potrebbe oggi essere richiesta in base ad una sorta di obbligazione morale, bensì con la previsione di andare ad elezioni politiche, dopo la chiusura della fase emergenziale, per dare al Paese una guida confortata da una maggioranza di consensi. Non credo che così come ora si potrà gestire anche la fase della ricostruzione, allorché la paralisi cui è attualmente è condannata l’Italia lascerà spazio ad una realtà di desertificazione produttiva ed occupazionale, bisognosa assai più che di assistenza di promozione. Ci sarà allora un orecchio aperto, lassù, nel Palazzo del Quirinale?
Di Franco Carinci in ATLANTICO QUOTIDIANO QUI