Forse è l’inizio dello smottamento. Un tribunale cinese, leggo su El Pais, la settimana scorsa ha concesso a un testo creato da un’intelligenza artificiale gli stessi diritti d’autore che se lo avesse scritto un umano.Così ha multato un’impresa che lo aveva usato senza autorizzazione. Secondo la sentenza la struttura logica e lo stile originale dell’articolo lo rendeva protetto ai sensi del copyright.
Piccolo scarto alla maniera di 2001 Odissea nello spazio, in direzione inversa: dall’IA alla scimmia, però una scimmia dei tempi nostri. Nel 2011 il fotografo David J. Slater stava visitando un parco in Indonesia quando un gruppo di macachi si è impadronito del suo apparecchio e ha cominciato a scattare selfie a manetta (l’episodio indurrebbe a porsi qualche domanda sull’analogia che si divertano allo stesso modo tre quarti degli umani, ma non voglio divagare…). Fatto sta che Slater ha pubblicato uno scatto da “sorriso per la stampa, grazie” che è stata un successone. Quando Wikimedia l’ha messa sul suo sito senza autorizzazione, Slater ne ha chiesto la rimozione, ritenendosene titolare, e sentendosi ribattere che “il file in quanto opera di animale e non di essere umano è di libero utilizzo”.
In effetti Wikimedia non ha sostenuto che il diritto d’autore spettasse alla scimmia; ma a sostegno del macaco è intervenuta un’associazione animalista, Peta, e la vicenda si è trascinata in giudizio, costringendo Slater a soluzioni difensive giuridicamente ardite (tipo: la scimmia era un mio assistente). E se non ne ha ricavato tornaconto Naruto (una scimmia che si batte per il copyright mica potevano lasciarla anonima), la Peta e gli animali che assiste si sono giovati del 25% dei proventi, come transazione per prevenire ricorsi contro la decisione del tribunale che dava ragione al fotografo.
Ora, nonostante di certo non fosse abbonata al magazine Zoom e fosse digiuna di una chiara cognizione dell’obiettivo (inteso in senso diaframmatico), è probabile che nell’azione di Naruto ci sia stato un grado di intenzionalità maggiore di quello – ad esempio – dell’algoritmo che ha imitato alla perfezione lo stile di Rembrandt esponendo un’opera-clone nei Paesi Passi, o di quello propostosi come narratore in Giappone con il racconto (evidentemente autobiografico) Il giorno in cui un computer scrisse una novella. Benché nella nozione di ingegno il fulcro sia il concetto di originalità, credo che (anche se trascurato nei testi specialistici) il valore promosso nella tutela delle opere d’ingegno sia l’intenzione creativa, quale espressione di personalità.
E l’algoritmo? Va bene che agli albori del capitalismo (e per certi versi nemmeno una cinquantina di anni fa) nessuno avrebbe mai immaginato che una persona giuridica sarebbe arrivata ad assommare gli stessi diritti – e sotto il profilo sostanziale anzi qualcuno in più – di una persona fisica (ma non quello di essere considerata inventore). Nella società commerciale, tuttavia, è ben visibile un’entità economica autonoma, che nel software rimane impalpabile. I primi tentativi in questa direzione (l’Arabia Saudita ha concesso la cittadinanza al robot Sophie e Tokyo la residenza al robot Shibuya Mirai) sono fiacchi, pubblicitari e non tanto invoglianti all’imitazione. Per il momento negli Stati Uniti l’ufficio brevetti registra un’opera solo se creata da un essere umano, e quindi se è ascrivibile a un’intelligenza artificiale non riceve nessun tipo di tutela.
Diciamo che se il contenuto del software è diretta espressione del programmatore, non c’è alcun dubbio che costui si debba considerare il soggetto tutelato dal copyright. L’unico paese che regola espressamente il caso è la Gran Bretagna, con il Copyright and Designs Patent Act del 1988 affermando che la titolarità dei diritti di un’opera creata dalla macchina è del soggetto che ha effettuato la configurazione e organizzato le funzioni.
Tuttavia, il destino degli algoritmi pare quello di sganciare il loro sviluppo dall’ideatore. Gli algoritmi più sofisticati sono già ora in grado di comporre musiche che il programmatore non aveva concepito neppure lontanamente, e che potrebbero persino un giorno dipendere più dalla relazione dell’algoritmo con il fruitore che dal programmatore. Quando chiederemo a un algoritmo che ci seleziona una playlist di tagliuzzare alcune parti di brani e di acconciarli escludendo certe progressioni di accordi, se l’algoritmo proponesse poi l’esito di questa coverizzazione come “consigliato” a tutti gli utenti profilati in modo simile al nostro, non solo sarebbe evidente la sua autonomia contenutistica rispetto al creatore ma persino la sua separata compromissione negoziale.
Il concetto di intenzionalità (più dell’intelletto o della personalità), però, può essere usato a favore del programmatore. Infatti quel che conta è l’intenzione creativa, in quanto tale: non sempre l’intenzione centra il suo bersaglio mentale, non sempre lo conosce in partenza. Molte opere d’arte nascono per serendipità; e alcune, in particolare nell’ambito delle arti plastiche, sono dichiaratamente nulla più che un’intenzione in attesa di completamento del pubblico. Così, nel caso dell’algoritmo-artista, sicuramente spostiamo (e dilatiamo) l’intenzione creativa al momento originale. Come accade per il programmatore-artista: l’opera Portrait of Edmond Balemy del collettivo francese Obvious, battuta all’asta da Christie’s per 423.500 dollari, ha utilizzato un software che ha prodotto l’opera in modo autonomo, partendo da un database di 15.000 precedenti. La tutela dell’opera sarebbe derivata dalla tutela della prima creazione.
Come si fa però a scindere gli onori dagli oneri? Giriamo adesso la questione dal punto di vista della responsabilità. Facciamo finta – omettendo la circostanza che i protagonisti della vicenda abbiano nel frattempo uno perso la vita e l’altro la voce – che non sia stato Michael Jackson in “Will You Be There” a plagiare “I cigni di Balaka” di Al Bano (in realtà la Corte d’Appello di Milano decise che erano originali manco per niente sia l’una che l’altra). Mettiamo che sia stato un algoritmo, e che venga richiesto per ciò un indennizzo di qualche milione. Come si difenderà il disgraziato programmatore, che nel frattempo aveva preteso qualche spicciolo di emolumento per il copyright?
Dove prende a intricarsi, il diritto diviene più affascinante. Non dico che non esistano raffinate sottigliezze giuridiche per venire a capo di questo e altri dilemmi: però non sarebbe interessante svilupparli in questa sede. Mi stuzzica qui molto di più la suggestione de jure condendo che chi di non-copyright perisce di non-copyright perisce. Non è partita dal mondo dei software la teorizzazione, oltre che la pratica, della musica gratuita e la china pericolante per la remunerazione del lavoro culturale e dell’opera intellettuale? E adesso dovremmo angosciarci perché tocca ai programmatori? Rendiamo poveri gli artisti e dovremmo commuoverci per la nudità brevettuale dell’ingegnere o della società che lo stipendia? Rispettiamo l’ordine di priorità: prima la tutela della cultura. E poi, se rimane spazio, della sua simulazione.
Di Remo Bassetti in WROG QUI