di Elisa Palmieri
Il nostro Paese non è certo perfetto, la nostra società risulta essere ancora drammaticamente lacerata da mali profondi. Distrutti i vecchi valori e le regole tradizionali, un nuovo ordine di principi e norme stenta ad affermarsi ad imporsi. La vita si fa più incerta per le masse di lavoratori, costretti a pagare con sacrifici e privazioni maggiori costi di una crisi generale e ormai cronica, che fa crescere, mese dopo mese, il costo dei beni indispensabili. Eppure, nonostante le difficoltà e le preoccupazioni, la condizione dei lavoratori occupati, cioè quelli che un lavoro ce l’hanno, appare come “fortunata” addirittura privilegiata. In tempi come questi un lavoro, un’occupazione qualunque, un “posto” qualsiasi è considerato ed è realmente un privilegio. Perché ci sono migliaia, centinaia di migliaia di disoccupati: laureati, diplomati, giovani, donne che un lavoro qualsiasi non ce l’hanno, non riescono a trovarlo, non hanno neppure la speranza di poterlo ottenere da qui a qualche tempo.E come si può vivere senza lavorare, senza risorse, senza soldi, in una società nella quale bisogna pagare anche l’acqua per bere? Come si fa quando non si possiede nulla?
Nel nostro Paese esistono due società diverse tra loro. Una è costituita da tutti coloro che, in un modo o nell’altro, sono inseriti nel sistema: operai, impiegati, professionisti e così via, avranno di certo i loro problemi, guadagneranno chi più chi meno, vivranno chi meglio chi peggio, ma hanno un’occupazine, un lavoro da svolgere, una retribuzione, una certa sicurezza, un modo di vita. Tutti interessati a migliorare la propria condizione e rendere più stabile la situazione generale dal cui sviluppo dipendono le possibilità di ogni categoria e di ogni singolo individuo di vivere meglio.
L’altra società è formata da coloro, sempre più numerosi, che nel sistema non ci sono entrati affatto, esclusi dal lavoro, tagliati fuori dal benessere, emarginati dal vivere sociale: sono i poveri, i disoccupati, i giovani senza prospettive né speranze, le donne senza niente e nessuno, la gente del sud abbandonata a se stessa, i diplomati, i laureati costretti a retarsene in un ozio forzato ed amaro, o a cercarsi qualcosa di cui vivere, che quasi sempre non ha niente in comune con il titolo di studio conseguito o le proprie aspirazioni. Quest’altra società accerchia la prima, la contesta, preme per entrare anch’essa nello spazio “dorato” di una fabbrica, di un ufficio, reclama con durezza i propri diritti, esplode di tanto in tanto in manifestazioni provocate dall’esasperazione, dalla disperazione. Un dramma. Una tragedia che è un pericolo per tutti e che deve, perciò, essere scongiurata. I problemi umani, economici, sociali di tanta gente costretta a languire, tenuta ai margini, estromessa di fatto dalla società civile devono essere risolti al più presto. Inutile proseguire con una promozione del bene politico quando nessuna miglioria è stata apportata al benessere sociale. L’8/o Rapporto sulla povertà della Caritas Italiana-Fondazione Zancan traccia un quadro non certo idilliaco della situazione italiana: il 21% della popolazione è a rischio povertà, seconda solo alla Grecia e ben al di sopra della media europea ferma al 16%. La cifra si aggira intorno ai 15 milioni di persone da ben distinguere dai 7,5 milioni di persone indigenti che vivono, o meglio sopravvivono, nel nostro Paese. Nel Rapporto sono presenti le linee guida per ridistribuire le risorse verso una politica giusta del welfare ed impedire il declino: “si puo’ dare risposta alla poverta’ senza aumentare la spesa pubblica complessiva per la protezione sociale (366.878 milioni di euro) e senza aumentare la spesa per l’assistenza sociale (circa 47 miliardi di euro nel 2007)”.
Non bisogna dimenticare che ogni anno nuovi giovani si affacciano al lavoro e ne vengono respinti; che la cronica crisi economica riduce i già esigui posti di lavoro; che il costo della vita aumenta senza soste; si corre il rischio di innescare una spirale di travolgenti proteste.
La società è regredita in modo pauroso in uno scenario medievale, la povertà delle periferie sembra non condizionare in alcun modo la politica dei grandi uomini, di quelli che scendono in campo perché chiamati alla missione per le trasformazioni positive.