Per il maestro Popper il vero intollerante sarebbe l’allievo Soros: una società ben poco “open” quella che ha in mente il finanziere
Subito dopo l’elezione a sorpresa di Donald J. Trump alle presidenziali americane del 2016, Giovanna Botteri (allora corrispondente Rai negli Usa), si chiese: “Che cosa succederà a noi giornalisti? Non si è mai vista come in queste elezioni una stampa così compatta e unita contro un candidato… che cosa succederà ora che la stampa non ha più forza e peso nella società americana?”. La risposta a questa domanda, che in realtà contiene già una conferma della faziosità politica di tutti i media nella campagna elettorale di quell’elezione, l’hanno avuta negli anni successivi. I giornalisti hanno perso, compatti, la loro battaglia contro Trump perché esistono i social network. E i social network sono incontrollabili dalla politica. Sono come delle piazze, virtuali, in cui chiunque può esprimere il suo parere.
Trump, così come Obama prima di lui, è riuscito a conquistare la “piazza” dei social. Anche se il candidato tycoon repubblicano aveva tutti gli editori contro, è riuscito ugualmente a dominare la scena. Puoi anche comprare alla tua causa ogni singolo editore, riempire tutte le redazioni di tuoi fedelissimi, ma se su Reddit o Facebook la gente parla male di te e bene del tuo avversario, perdi comunque le elezioni. Vincere la piazza virtuale non è un compito semplice, presuppone un gran lavoro di marketing, per veicolare i messaggi giusti alle persone giuste. Di qui la necessità di raccogliere più dati possibili sugli utenti dei social network in modo da evitare, ad esempio, di mandare spot su vita e famiglia a chi è ateo e ha inclinazioni liberal, e veicolare invece messaggi religiosi a chi va a messa tutte le domeniche, riservando magari spot contro le tasse a chi è ateo ma anche conservatore fiscale. Obama ha effettuato questo tipo di campagna elettorale nel 2008 e ancor di più nel 2012 ed è passato per genio rivoluzionario del marketing politico, perché i media si sono sentiti, in un certo senso, arricchiti dai nuovi mezzi.
Il fatto che la stessa operazione sia riuscita a Trump ha invece gettato nella costernazione più nera i grandi media e la stragrande maggioranza degli osservatori. Dal 2016 si parla soprattutto di due grandi temi: fake news e hate speech (bufale e discorsi incendiari) che secondo gli osservatori sono i due principali metodi con cui Trump ha conquistato la piazza. Sul piano pratico, Cambridge Analytica, la compagnia di marketing che ha aiutato Trump a vincere, è finita sotto inchiesta, nel mirino è finito anche il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, accusato di non aver custodito con la dovuta cura i dati dei suoi utenti e, col pretesto di combattere contro fake news e hate speech, “minacce per la democrazia”, si sta spingendo l’industria dei social network all’autocensura.
In vista della prossima campagna elettorale del 2020, il finanziere miliardario George Soros, che non tollererebbe una seconda vittoria di fila dell’immobiliarista miliardario Donald Trump (la lotta di classe, almeno qui, non c’entra) sta pensando bene di far lobbying per sottrarre Facebook, il più diffuso social network del mondo, al suo proprietario e inventore Zuckerberg. Non è un dispetto ad personam. Soros, in più di un’occasione, in questi tre anni, ha espresso l’opinione secondo cui i social network siano troppo pericolosi per restare così liberi. Devono essere considerati alla stregua di editori, a suo avviso. Dunque, devono selezionare maggiormente quel che gli utenti pubblicano.
Chi usa abitualmente i social network può anche rimanere sorpreso da una richiesta simile, considerando che sono già fin troppo controllati. L’autocensura e la rimozione di contenuti sgraditi alla proprietà sono fatti quotidiani, spesso con risultati comici, come avviene in tutti i sistemi di controllo di massa. Chi cita Toni Negri o la poetessa Ada Negri può scoprirsi razzista ed essere bannato da Facebook, perché la “N-word” viola gli standard della comunità. Chi scrive ha appena subito la rimozione di una foto in cui guerriglieri di Hezbollah facevano il saluto a braccio teso (analogo a quello fascista) e assieme alla foto anche il relativo articolo che riguardava il Libano. La caccia al presunto razzista e al presunto neonazista provoca questi effetti ed è in corso da anni. Che cosa potrebbe succedere di peggio? Potrebbe succedere che, considerando il social network come un editore, un equivalente di direttore controlli ogni singolo contenuto che l’utente pubblica e decida se pubblicarlo o meno, pena la querela. Come avviene nei quotidiani. Sarebbe la fine dei social network e probabilmente il trionfo dei social alternativi, forniti da Russia (VK) e Cina (WeChat), apparentemente più liberi, ma in realtà controllati direttamente dai rispettivi regimi.
Perché alla fine, Soros sta chiedendo di fare, negli Usa, quel che Putin ha già fatto in Russia. Anche in Russia VK e Telegram sono nati come social network liberi da ogni censura, partoriti dalla mente del giovane genio Pavel Durov, un anarco-capitalista. Ma dal 2014 il governo ha fatto di tutto per estrometterlo, perché rifiutava di fornire ai servizi segreti i dati degli utenti ucraini, subito dopo la rivoluzione del Maidan e l’annessione russa della Crimea. In Cina non ci sono neppure mai state fasi intermedie: essere sui social network cinesi vuol dire esporsi alla censura di regime e allo spionaggio di Stato.
Perché, allora, proprio Soros, che viene additato dalla propaganda di estrema destra e di estrema sinistra come campione del “neoliberismo”, chiede una censura politica che ricorda molto da vicino la Russia post-comunista e la Cina comunista? La fondazione di Soros che si occupa di politica si chiama Open Society, un chiaro riferimento al filosofo Karl R. Popper e al suo classico del liberalismo “La società aperta e i suoi nemici”. Del filosofo austriaco si ricorda solo un motto: “Non si può essere tolleranti con gli intolleranti”. E la si applica per giustificare la censura a Trump e tutti coloro a cui è stata attribuita la patente politica di intolleranza. Soros è sicuramente mosso da questo nobile intento. Ma dimenticando quel che era il ragionamento completo di Popper: “Temendo di essere intolleranti – scriveva Popper in “Tolleranza e responsabilità intellettuale” – siamo inclini ad estendere il diritto di tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, a coloro che cercano di diffondere ideologie intolleranti: ideologie da cui discende il principio secondo il quale tutti coloro che dissentono devono essere soppressi con la forza; ideologie che si spingono all’estremo di considerare tutti i dissidenti come criminali”. Chiediamoci, dunque, Trump ha mai chiesto di incarcerare chi dissente? No. Non c’è alcun documento che lo dimostri. Al contrario, con le richieste di controllare i social network e censurare pareri non conformi, Soros e chi la pensa come lui stanno iniziando a dimostrare quella stessa intolleranza che, per il suo maestro Popper, non era tollerabile.
Di Stefano Magni in ATLANTICO QUOTIDIANO QUI