Mario Monti scrive al Corriere della Sera per parlare del suo NO al Referendum

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LaPresse22-11-2011 Bruxelles,

Nella giornata del 30 ottobre scorso il Corriere della Sera pubblicava una lettera dell’ex Ministro Mario Monti, inerente il Referendum Costituzionale. In tale lettera si riassumono le ragioni di un NO di fronte a una Riforma pensata per un grande cambiamento, che non considera gli effetti stessi, dal punto di vista normativo e legislativo, nonché amministrativo, di una eventuale vittoria del SI’, legittimata da una qualsivoglia partecipazione alle urne, poiché per i Referendum Costituzionali, confermativi, non è previsto il quorum. Vi riproponiamo di seguito il testo di questa lettera, che ha stupito molti italiani, anche se è passata in sordina rispetto al riverbero che diversi altri attori politici hanno sulla scena attuale, rispetto al Referendum. Mario Monti è stato scelto in passato (non senza polemiche) per “salvare” l’Italia dal default, opinabile o meno la fiducia in lui riposta dallo stesso Presidente Napolitano ci fa presumere che il suo parere tecnico possa essere fondato.

“Caro direttore – scrive Mario Monti al Corriere della Sera il 30.10.2016 – in una recente intervista a Federico Fubini (Corriere del 18 ottobre) ho preannunciato il mio No al referendum sulla riforma costituzionale. Il beneficio che la nuova Costituzione arrecherebbe, in termini di qualità della governance, è a mio giudizio nullo o negativo, in quanto le modifiche peggiorative prevalgono su quelle migliorative. Elevato è peraltro il costo che il Paese sta già pagando da qualche tempo, a carico del bilancio dello Stato, per la creazione di un clima di consenso inteso a favorire il Sì al referendum. Mi è stato chiesto di chiarire meglio la mia posizione nel merito della riforma. Lo faccio ricorrendo di nuovo alla Sua ospitalità. Bicameralismo temerario. Per superare il bicameralismo paritario, non si è optato per una seconda Camera di riflessione e orientamento, come la House of Lords; o di raccordo strutturato con i governi dei territori, come il Bundesrat; o più semplicemente per l’abolizione del Senato. Si è optato per un bicameralismo alquanto «temerario» («di persona che affronta i pericoli senza calcolo, sconsiderato o ardimentoso», secondo il dizionario Sabatini Coletti). Si è scelto di accrescere di molto, nell’architettura della Repubblica Italiana, il ruolo degli esponenti politici dei Comuni e soprattutto delle Regioni, proprio di quel segmento della classe politica che negli anni scorsi, con le dovute eccezioni, non ha offerto l’esempio migliore di gestione corretta e avveduta della cosa pubblica.
Poiché il nuovo Senato avrà pur sempre funzioni importanti (ancorché difficili da prefigurare concretamente oggi) in campo legislativo e di controllo, temo due conseguenze : da un lato, un’accresciuta e forse caotica capacità di pressione del personale politico territoriale sulle decisioni nazionali, con la possibilità di esigere «contropartite» a fronte del proprio consenso; dall’altro, un contributo di riflessione — ad esempio sulla dimensione europea e internazionale, così come sugli effetti di lungo periodo dei provvedimenti — che non si preannuncia necessariamente distaccato e autorevole. In un disegno di legge costituzionale che avevo presentato in Senato come contributo alla riforma, si prevedeva che anche figure rappresentative della società civile e della cultura operanti nelle regioni potessero essere elette dai Consigli regionali a far parte del nuovo Senato. Quel disegno di legge, lo dico en passant, prevedeva che ai senatori a vita (a parte gli ex presidenti della Repubblica) non spettassero né indennità né immunità.
Costituzione dagli effetti imprevedibili. Nel momento in cui saremo chiamati a scegliere tra la nuova Costituzione e quella vigente, non sapremo come avverrà l’elezione dei senatori. Sapremo che avverrà «in conformità alle scelte espresse dagli elettori», ma in un modo che sarà determinato da una legge ordinaria, che verrà presentata e adottata dopo il referendum. Inoltre, non sapremo con quale legge elettorale andremo a votare in futuro per eleggere i membri della Camera dei Deputati. È vero che al referendum non saremo chiamati ad esprimerci sulla legge elettorale, ma è ovvio che gli effetti concreti della nuova Costituzione, su cui ci dovremo esprimere, dipenderanno in buona parte dalla legge elettorale. Una scelta storica, ma al buio. Invidio quei cittadini che, di fronte a questi limiti e a queste incognite, si sentono sicuri nel dire che la nuova Costituzione, destinata a reggere la vita italiana per decenni, è migliore di quella attuale. Anche a me farebbe piacere votare Sì. È più facile. E poi, diciamolo, sentirsi dalla parte del «nuovo» gratifica, anche se più d’una volta in Italia il «nuovo» è stata la scorciatoia per tornare al «vecchio» però con la coscienza a posto. Ma trovo poco serio che si chiamino i cittadini ad una scelta, di portata storica, su un oggetto che per molti aspetti è ancora misterioso. Io non sono affatto sicuro che la Costituzione che ci viene proposta sia migliore di quella attuale.
Costituzione, ricerca del consenso, governabilità. Non sono mai stato tra coloro che hanno esaltato la Costituzione attuale come «la più bella del mondo». Ne vedo i limiti. Ma so anche che essa non ha mai impedito la governabilità dell’Italia, quando i governi sono stati sufficientemente risoluti. Con le molte decisioni che ha preso, diverse delle quali ho condiviso e sostenuto, il governo Renzi lo ha dimostrato chiaramente. E il governo Ciampi, il primo governo Amato, il primo governo Prodi che ha portato l’Italia nell’euro, per citarne alcuni, hanno o no governato? Sono stati governi che hanno governato con efficacia, pur con la Costituzione attuale, anche perché — soprattutto questi ultimi — non hanno esitato, quando necessario, a prendere decisioni impopolari e non hanno cercato il consenso a carico del bilancio dello Stato.
Costi della politica. Trovo impeccabile la parte del quesito referendario che parla di «contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni», che certo si verificherà con la riduzione, opportuna, del numero dei parlamentari. Non si parli però, come fa uno degli slogan, di riduzione dei «costi della politica». Il costo per il bilancio dello Stato delle molte misure prese per favorire il consenso alla nascita della Costituzione è un multiplo di quanto si potrà risparmiare sul funzionamento delle istituzioni. E ha ritardato un più solido ancoraggio dell’Italia nel porto della stabilità finanziaria, nel caso arrivi una nuova tempesta. Pur affidata alle cure solide e sagge del ministro Padoan, la politica del bilancio pubblico non è certo stata insensibile — nei grandi saldi e nella minuta composizione delle misure — alle esigenze di creare consenso a destra e a manca, con effetti limitati sulla domanda aggregata e sul prodotto interno lordo, ma forse maggiori sulla gratitudine complessiva e sulla propensione a esprimerla nell’urna.
Detto questo, a differenza di molti sostenitori del No non ho mai sostenuto che, ove vinca il Sì, la nuova Costituzione metterebbe a rischio la democrazia. E ho sempre detto che, anche in caso di vittoria del No, non riterrei né doveroso né auspicabile che il premier Renzi si dimettesse. Mantengo questa opinione, pur trovando fuori luogo i toni sprezzanti che, sul tema del referendum, il presidente del Consiglio sta usando nei confronti non solo dei suoi avversari politici ma anche di chi, al di fuori della battaglia politica, si sforza di ragionare con la propria testa. Mario Monti”

Fonte: Corriere della Sera 30 ottobre 2016 (modifica il 30 ottobre 2016 | 21:21)

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