Nessun dramma per il voto britannico

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I risultati sono ufficiali: 17 milioni 410 mila cittadini britannici (51,9 %) hanno votato per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Sono risultati in minoranza i sostenitori del Remain: 16 milioni 140 mila voti (48,1 %).
Il risultato appare tanto più clamoroso perché tutto l’establishment del Regno Unito si era pronunciato a favore della permanenza nell’Unione Europea. Si erano espressi in tal senso tutti i più importanti partiti britannici: i Conservatori, i Laburisti, il Partito nazionale scozzese (SNP), i Liberal Democratici. L’unica forza politica strutturata che ha fatto campagna per l’uscita è stato l’UKIP di Nigel Farage. Partito che, nelle ultime elezioni delle Camera dei Comuni del 7 maggio 2015, aveva ottenuto 3 milioni 880 mila voti, ma che non ha peso rappresentativo nella medesima Camera dei Comuni (soltanto 1 seggio) per gli effetti della legge elettorale maggioritaria.
Si sapeva che i Conservatori erano spaccati, ma, evidentemente, i “ribelli” dell’ex Sindaco di Londra Boris Johnson hanno interpretato il sentimento popolare più di quanto abbia fatto il Primo Ministro Cameron.

Il dato su cui riflettere è, quindi, chiaro: ben 17 milioni e 410 mila elettori hanno votato in modo difforme da quanto il Governo e tutti i maggiori partiti politici consigliavano di fare. Ciò significa che c’è uno scollamento clamoroso tra il sentimento del Paese e le Istituzioni rappresentative che lo dovrebbero interpretare e guidare.
Si pensava che il gravissimo fatto dell’uccisione della deputata laburista Joanne Leadbeater Cox avesse suscitato una reazione emotiva tale da poter portare ulteriore consenso ai sostenitori del Remain. Invece, lo sdegno e la condanna unanimi del gesto efferato non hanno influito più di tanto sulla scelta del Corpo elettorale.

Il Regno Unito aveva aderito alle Comunità Europee l’1 gennaio 1973. Il 5 giugno 1975, quando Primo Ministro era Harold Wilson (laburista), si tenne un Referendum popolare per verificare che i cittadini britannici fossero d’accordo: il risultato allora fu che il 67,2 % dei votanti si espresse a favore della permanenza nella CEE, così come consigliava il Primo Ministro Wilson e conformemente al voto espresso dalla Camera dei Comuni.
Nel lasso di quarant’anni, la situazione si è ribaltata ed oggi il sentimento popolare maggioritario è ostile.
Quali valutazioni trarre? La prima è che un voto democratico va rispettato. Gli elettori britannici hanno votato liberamente, in piena consapevolezza, ed hanno adottato quella che, dal loro punto di vista, era la scelta migliore. A noi questa scelta può non piacere, ma è la loro scelta e non possiamo fare altro che prenderne atto.

Non penso che da questa decisione deriveranno effetti pesantemente negativi per il Regno Unito, né — per quanto più ci interessa — per i Paesi Membri dell’Unione Europea. Certo ci saranno turbolenze, ma l’importante in questi casi è mantenere i nervi ben saldi. La finanza speculativa cercherà di cogliere l’occasione per fare i suoi sporchi affari: ma, dopo un paio di mesi di fluttuazioni delle borse, si troveranno nuovi equilibri. Tanto alla Banca Centrale Europea, quanto alla Banca d’Inghilterra, non ci sono degli sprovveduti: sapranno adottare contromisure efficaci contro gli speculatori.
La vera questione è che l’Unione Europea, così come si è andata costruendo nel tempo, non funziona bene e non entusiasma alcuno.
Serve una vera Riforma dell’Unione, in cui si delinei un gruppo di Stati sempre più integrato secondo un ordinamento federale con istituzioni realmente democratiche, ed una vasta area di libero scambio in cui possano associarsi altri Stati che non intendono procedere sulla via dell’integrazione.
Per quanto mi riguarda, sono un fautore di una Federazione degli Stati Uniti d’Europa, che salvaguardi le peculiarità culturali e storiche di tutti gli Stati Membri (le lingue, le culture, le letterature, le tradizioni nazionali costituiscono un arricchimento dell’insieme).
Poiché gli Stati, singolarmente considerati, faticano a rispondere alle sfide che vengono dalla globalizzazione, occorre individuare quei settori d’intervento e quelle politiche in cui ciascun Stato si senta potenziato per il fatto di far parte di una vasta Federazione. Bisogna smettere, invece, di insistere nell’errore di perseguire una ottusa uniformità burocratica, che vorrebbe livellare ed omologare tutti.
L’obiettivo è chiaro: fare bene un limitato numero di cose insieme; lasciare molta autonomia alle realtà statali e regionali all’interno della Federazione. In altre parole: servono unità e pluralismo.

Un’Europa all’altezza delle sue migliori tradizioni ideali potrà riprendere ad avere una forza attrattiva, in primo luogo per i popoli che ne fanno parte e che devono essere fieri di essere europei. Con gli amici del Regno Unito ci saranno certamente nuove opportunità di incontro, di collaborazione, di reciproco arricchimento. Ciò che ci unisce è ben più forte di quanto, al momento, ci separa.

1 COMMENTO

  1. Anch’io sono perfettamente d’accordo con queste osservazioni. I pianificatori hanno voluto intromettersi in tutto e per tutto per uniformare le diversità alle quali nessuno o pochi sono disposti a rinunciare.
    C’è da augurarsi che gli “euroburocrati” imparino la lezione che gli Inglesi nella loro legittima aspirazione di recuperare la propria autonomia hanno impartito. È giunto il momento di riflettere e soprattutto di smettere di dettare norme, limitazioni, imposizioni, regole con le quali le diverse comunità non si identificano. Bisogna tornare all’ideale iniziale di una Federqzione delle Nazioni Europee e non un agglomerato di nazionalità alle quali si chiede di rinunciare alle proprie tradizionali identità con i loro costumi e culture. Un’Europa come l’avevano concepita i liberali Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi e descritta nel loro celebre MENIFESTO DI VENTOTENE.

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