Abbandono di Stato a Villa Paganini

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di Salvatore Italia

Siamo a Roma a pochi passi da dove i bersaglieri fecero la famosa breccia per dare l’Italia agli italiani e dirimpetto alla ben più nota Villa Torlonia, residenza un tempo di quel duce che voleva donare agli italiani addirittura un impero.

La villa del nostro racconto non ha fulgidi trascorsi. È un piccolo parco settecentesco restituito alla città di Roma agli inizi degli anni duemila.

Passando per via Nomentana la si nota subito, è un fazzoletto di verde ricamato intorno ad un ponticello di legno che unisce le sponde di un laghetto.

Da lontano, un vero gioiellino.

Ma anche la nostra villa porta nomi illustri: quelli degli eroi di Stato.

Li custodisce gelosamente dentro di sé, scolpiti sulle targhe dei suoi viali alberati.

Quei uomini che fecero gli italiani e di cui andiamo fieri di essere concittadini: Pio La Torre, Giorgio Ambrosoli, Massimo D’Antona, Antonino Caponnetto, per citarne alcuni.

L’idea di camminare tra il verde e leggere il nome di chi si è battuto per noi, infonde un misto di orgoglio nazionale e tenera commozione per quella conquistata pace.

Confortante la sensazione che si avverte in un abbraccio di quiete. La loro quiete, finalmente lontani dalla violenza e dall’odio. La nostra, quella di una giornata che ci siamo regalati per disintossicarci dal quotidiano.

Il sorriso però si spegne non appena si varca l’ingresso della villa.

Il laghetto che vedevamo da lontano è una pozza d’acqua torbida, dove a stento sopravvivono alcune anatre che nuotano tra ostacoli di ogni tipo, mentre ai bordi si accumulano bottiglie, lattine e infinito altro pattume.

Il ponticello ha l’ingresso sbarrato, vagabondi dormono sulle panchine in pieno giorno, il prato è disseminato di carte e cicche. Il verosimile e l’assurdo si confondono.

Villa Paganini è il luogo dell’apparenza.

Del resto anche il suo nome è un equivoco.

Con essa poco a che fare il Senatore Paganini al quale è stranamente intitolata. Un tempo vigna degli Odescalchi fu resa villa dal super ministro di Filippo V, il cardinale Alberoni che ne fece la sua dimora. Poi, di mano in mano, passò a quella del Comune che oggi ne ha fatto sede di una scuola, destinando ad essa il palazzo cardinalizio.

Ma anche qui le buone intenzioni degli inizi d’opera, cedono dinnanzi alla cattiva pratica.

Così la scolaresca viene sloggiata in altra sede, trasferendo le aule in un adiacente agglomerato di bungalow di colore verde menta che sembra voglia mimetizzarsi con l’ambiente.

Questo non è solo l’ennesimo parco sfigurato dall’incuria, ma il sintomo di una patologia più generale, diffusa e sotterranea della nostra società: quella del progressivo sgretolamento dello Stato come Nazione dei cittadini.

Testimonianza di uno Stato sempre meno comunità, diminuito a mero apparato burocratico privo di anima e di spirito patrio.

Dove anche quel barlume di senso della nazione, racchiuso in quello spunto di riconoscenza e onere verso i propri eroi, si scioglie nell’arrogante indolenza della sua amministrazione.

Non vogliamo sapere di chi sia la colpa oggettiva e specifica, se del municipio, o del decimo dipartimento del comune di Roma per le politiche ambientali e del verde urbano, oppure del servizio parchi, o ancora del reparto manutenzione fiori e pigne secche.

Qualunque sia l’ente territoriale o funzionale, esso è articolazione dello Stato e lo rappresenta nella sua unità, ne costituisce – nell’immaginario collettivo – il simbolo, come il giudice lo è dell’intera magistratura e della giustizia.

In questa vicenda si scorge tutta la contraddizione di un sistema di governo sospeso tra nobili aspirazioni e pessime attuazioni.

Dove il tradimento dei principi fondanti è molto spesso solo il risultato di un’endemica incapacità a comprendere il proprio ruolo istituzionale, la propria profonda funzione sociale e di tutela delle aspettative di felicità e benessere di un intero popolo.

È per queste ragioni che il mero abbandono operato sul territorio assume una dimensione più intensa, assorbente, che travolge la divisione in articolazioni dello Stato, rovesciandosi sulla sua stessa essenza, sul modo in cui è collettivamente percepito.

In questo atto di noncuranza si avverte uno svilimento di valori ed ideali più alti che non la semplice cura delle aiuole.

Lo Stato diserta il suo fine di “ente di servizi”, infirmando la funzione sociale del parco, come ambiente dedicato al tempo libero, all’attivazione della vita di gruppo, al benessere psicofisico. Qui abbandona, per una seconda volta, quei concittadini coraggiosi, perché l’incuria che avvolge i loro nomi evoca il momento in cui furono lasciati irrimediabilmente soli innanzi al male estremo della minaccia alla vita.

Uscendo dalla villa ci sentiamo anche noi un po’ più soli, ma guardando “oltre il giardino”, in alto, il cielo è sempre azzurro.

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