Il liberale Zanone

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Molti fra i più importanti politici ed intellettuali italiani di cultura liberale nacquero in Piemonte ed ebbero affinità caratteriali riconducibili proprio al loro essere piemontesi. Basti ricordare i maggiori: Camillo Benso di Cavour ed alcuni protagonisti della Destra storica come Giovanni Lanza e Quintino Sella; poi studiosi che diedero lustro all’Università di Torino come Luigi Einaudi e Francesco Ruffini; infine, un uomo di governo della statura di Giovanni Giolitti. Piemontese fu anche il liberale eretico per antonomasia, Piero Gobetti, morto giovane, quindi caro agli dei. Si farebbe un torto, tuttavia, a non ricordare parlamentari e uomini di governo come Marcello Soleri e Manlio Brosio.

Valerio Zanone (1936-2016), torinese, fu anche lui un liberale della scuola del Piemonte: essenziale, antiretorico, riformatore per vocazione, ma pragmatico nell’approccio ai problemi e nel modo di affrontarli. Una delle qualità necessarie per svolgere in modo degno attività intellettuali consiste nell’essere veritieri: bisogna affermare quella che siamo convinti sia la verità, anche quando è scomoda, o impopolare. Zanone conservò questo costume di intellettuale anche quando ebbe rilevanti responsabilità politiche. Ad esempio, quando, nella qualità di Segretario nazionale del Partito liberale, commemorò Piero Gobetti nel Salone dei Dugento a Palazzo Vecchio a Firenze, in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Gobetti, Zanone disse, fra l’altro: «Nelle pagine di Gobetti la polemica antiriformista è costante; ma è la polemica contro il riformismo di un certo genere, contro gli effetti diseducatori e decadenti del riformismo come “diplomazia di iniziati”. … Per questo aspetto i liberali di oggi non possono non sottoporre a revisione il troppo duro rifiuto gobettiano del giolittismo, ridotto da Gobetti ad una sorta di praticismo in cui la politica è umiliata al grado di amministrazione; a beneficio degli interessi costituiti» (si veda il giornale La Tribuna, n. 7/8 del 16-27 febbraio 1976, p. 2). Laddove un qualsiasi politico mediocre non avrebbe risparmiato parole per esaltare il giovane martire antifascista, facendone un “santino” da venerare, Zanone non rinunciò all’esercizio della critica razionale; la quale non evita le contraddizioni, ma le affronta perché questo è l’unico modo per superarle.

Come tutti gli autentici liberali, Zanone era capace di anticonformismo. Ad esempio, aveva memoria storica di quanto la massoneria avesse significato sia durante il processo risorgimentale, sia nelle prime fasi della vita parlamentare dello Stato italiano unitario. Laddove i mass media puntavano su una criminalizzazione indiscriminata di ciò che oggi resta della massoneria, Zanone considerò quasi un punto d’onore continuare a partecipare ad ogni riunione pubblica ed ogni convegno promosso dalla massoneria ufficiale. Fino a pochissimo tempo fa. Pensava non fosse colpa sua se i giornalisti non conoscessero La religione dell’umanità dell’illuminista Gotthold Ephraim Lessing, e riconducessero ossessivamente ogni discorso in argomento alla P2 ed a presunti tentativi golpistici, o traffici con la mafia. Peggio per loro; lui tirava dritto per la sua strada. La verità, nota a chi ha una reale conoscenza di queste cose, è che oggi non c’è una grande differenza fra l’affiliazione massonica e l’adesione ad organizzazioni come il Rotary International, o i Lions Clubs International. Fuffa mondana tanto l’una, quanto e altre.

Come uomo politico non si può dire che Zanone abbia avuto successo. Segretario nazionale del PLI, accompagnò il declino del partito, rendendolo di fatto un alleato subordinato del Partito socialista di Craxi. Non riuscì a dare al PLI una fisionomia ideale precisa, che rappresentasse un’effettiva discontinuità rispetto a quella che era stata la linea incarnata da Giovanni Malagodi. Con l’aggravante che, al tempo di Malagodi, il PLI era riuscito a raccogliere un consenso elettorale che gli aveva consentito margini di vera autonomia nell’iniziativa politica.

Quando il Partito liberale si estinse nel 1993, Zanone, preso atto della divaricazione bipolare che aveva assunto la politica italiana, scelse di schierarsi nel campo del Centro-sinistra. Considerate le caratteristiche che aveva il campo alternativo (il partito azienda di Berusconi, alleato ai leghisti nemici dello Stato italiano unitario, ed ai postfascisti), quella scelta di Zanone fu apparentemente felice. Fu anche perfettamente coerente, se valutata dal punto di vista di un ideale seguace del riformismo giolittiano. Egli, tuttavia, fallì in quello che avrebbe dovuto essere il suo naturale compito: costruire un soggetto politico dichiaratamente liberaldemocratico, capace di margini di autonomia, pur nella fedeltà complessiva allo schieramento di Centro-sinistra. Fallito quel disegno, i liberali, uti singuli, ebbero un ruolo poco più che decorativo nelle vicende dell’Ulivo; non ebbero sorte migliore quanti si imbarcarono nell’esperimento della Margherita, affidato alla guida di Francesco Rutelli.

La verità è che Zanone non aveva capacità organizzative; né effettive capacità di guida. Tentava di convincere; ma non sapeva trascinare. L’interpretazione più benevola che possa darsi è che egli prendesse sul serio l’imperativo pratico, così formulato da Immanuel Kant: «agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre anche al tempo stesso come scopo, e mai come semplice mezzo» (si veda la Fondazione della metafisica dei costumi). Cosa dire di un leader politico che effettivamente rispetti gli altri e che non voglia utilizzare in modo strumentale i propri seguaci? L’unica risposta è che non è adatto alle dinamiche della politica reale. Speriamo che i costumi possano migliorare in futuro.

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