Immigranti – Perché abbiamo bisogno di loro

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IMMIGRANTS – YOUR COUNTRY NEEDS THEM (Immigranti – Perché abbiamo bisogno di loro) di Philippe Legrain.  

Per Superare Preconcetti Equivoci. 

Avevo scelto questa encomiabile lettura proprio perché intendevo trovare alcune conferme alle mie ormai incarnate convinzioni ed infatti non sono rimasto affatto deluso, anzi. L’autore franco-americano Philippe Legrain aveva già proposto un altro saggio – OPEN WORLD (Mondo Aperto) – ugualmente in difesa della globalizzazione e dell’integrazione fra i diversi. Ora, la sua ultima pubblicazione, è disponibile anche nella traduzione italiana, ma la versione originale pur avendo già cinque anni, si dimostra per noi ancora attualissima.

Il tema delle migrazioni dovrebbe essere molto importante per noi Italiani; infatti, la tutta nostra storia è  totalmente ed intimamente imperniata di movimenti di gente che veniva e che partiva; gente che portava e che prendeva conoscenze ed esperienze, fin dalle origini del popolamento del nostro caro vecchio Paese, tanto è vero che nelle nostre vene scorre sangue di una miriade di etnie: siamo stati visitati dai Fenici, dai Greci, dalle diverse Popolazioni barbariche del Nord, inclusi Vichinghi – mai romanizzati – e gli asiatici Unni, dagli Arabi, agli Spagnoli, dai Francesi agli Austroungarici. Non per niente abbiamo ancora oggi minoranze di lingua greca, albanese, catalana, tedesca, francese e slave, senza considerare che nelle diverse regioni si parlano lingue e dialetti più incomprensibili di lingue straniere come lo spagnolo, per esempio, caratterizzando la forte diversità delle origini culturali che compongono il nostro meraviglioso mosaico nazionale; fatto che per chi ci vorrebbe tutti uguali, deve costituire una vera umiliazione, mentre noi queste diversità le consideriamo elementi preziosi del nostro patrimonio storico, culturale e genetico.  Ebbene, siamo una Nazione – per nostra immensa fortuna – di natura e culturalmente eclettica e, pertanto, storicamente multietnica. Eppure, c’è chi, in modo equivoco, sostiene e difende la nostra presunta purezza razziale, ragione per cui, costoro, se potessero, costruirebbero attorno alle nostre coste una grande muraglia per isolarci dal resto del mondo e dai cosiddetti allogeni che, in maniera del tutto grottesca, considerano non degni di condividere lo spazio con noi, presunti nobili autoctoni. Già una muraglia; e servirebbe a qualcosa? Vano tentativo: l’esperimento era già fallito nel Paese più chiuso al mondo – la Cina – dove, costruendo una muraglia di oltre cinque mila chilometri, si sono illusi che sarebbe bastato per tenersi al sicuro dalle invasioni mongoliche per godersi la propria superiore civiltà, ma che, nonostante tutto, in diverse occasioni il pacifico Impero di Mezzo è stata invaso e perfino conquistato dalle indesiderate order barbariche. Quindi, così come noi, anche i Cinesi, malgrado le apparenze, non sono un Popolo omogeneo. Chiediamoci perciò, cosa sarebbe dell’Italia se non fossimo geneticamente così eterogenei? Ebbene, i nostri nobili che non si mescolavano, si sono praticamente estinti, consumati dalle tare che si trasmettevano, privi dell’utile apporto genetico rinnovatore che li avrebbe salvati.

Purtroppo, però, nel nostro caro e povero Paese, in molti – anzi, in troppi -, soffrono di amnesia contagiosa e non passa un unico giorno che i media se la prendono con gli immigrati che invadono le nostre coste; ma per giocare un po’ attorno ad una famosa parafrasi del grande libertario Frédéric Bastiat, così come fanno i difensori del collettivismo che puntano il dito solo su ciò che si vede e nascondono subito la mano su ciò che non si vede, i nostri, oggi piuttosto ambiguamente, si accaniscono contro gli immigrati, specialmente quelli clandestini che arrivano illegalmente nel nostro Paese, anche se sovente l’Italia è un semplice passaggio di transito, essendo per molti, i loro destini quei Paesi più ricchi ed in particolare quelli disposti ad accoglierli magari come rifugiati politici; ma gli avversari dell’immigrazione, non fanno sconti nemmeno agli immigrati legali che vengono per rimanere e che, poi, accettano di svolgere proprio quei lavori per i quali, i nostri connazionali, da parecchio, storcono il naso mentre, in questa maniera. i cosiddetti indesiderati contribuiscono molto anche al nostro benessere.

Allora, sono già molti anni che dedico particolare attenzione a questo assunto e confesso che l’attuale atteggiamento di molti miei connazionali mi mette semplicemente in imbarazzo e mi fa sentire in forte disagio; infatti, fanno finta di ignorare che i nostri stessi emigranti, a loro volta, hanno invaso altri Paesi in milioni, dove, la maggioranza di loro sono stati generosamente accolti anche se, in non poche occasioni, non sono mancate discriminazioni pure di puro conio razzista; e, questo, per il comportamento di alcuni dei nostri che non sapevano adeguarsi alle circostanze locali. Infatti, non si può tacere il fatto che un certo numero dei nostri entravano illegalmente nei diversi Paesi, dove, per esempio, negli Stati Uniti, gli Italiani, in genere venivano definiti W.O.P. che sta per Without Passport, ossia “senza passaporto”… Poi, se si vuole, si può andare pure a scovare e disquisire sulle rispettive cause della mancata assimilazione che hanno fomentato lo sviluppo di organizzazioni delittuose che si erano formate negli ambienti delle nostre comunità.

Ma non intendo gettare fango sui nostri emigranti; anche perché io stesso, sono uno di loro: ed anche se torno in Patria con una certa frequenza, sono felice di vivere all’estero ormai da oltre quarant’anni e so benissimo che la grande maggioranza dei nostri ha, di fatto, contribuito al progresso di Paesi come gli Stati Uniti, il Brasile, l’Argentina, la Francia, il Belgio, la Germania, il Canada, l’Australia ecc. ecc., essendo ricambiati con la partecipazione al benessere dei distinti Paesi che li ha accolti. Ragione per cui, oggi, nella maggior parte di queste Nazioni, l’immagine dei nostri connazionali e dei loro figli e nipoti è di individui, dediti al lavoro e con il merito di avere introdotto anche tradizioni – come la nostra cucina, il buon gusto, la creatività -, aggiungendo non poco al cosiddetto già esistente capitale umano delle stesse.

Ma torniamo alla disamina di Philippe Legrain che nelle 350 pagine dell’opera, fra l’altro, spiega l’importanza delle migrazioni e dell’utilità che questo antichissimo fenomeno porta, e cita, per esempio, come lo sviluppo del polo della Silicon Valley ha usufruito di enormi benefici con l’arrivo di Indiani, Cinesi, Russi e così via; infatti, Sergey Brin, un rifugiato che nel 1979 era fuggito dalle persecuzioni antisemitiche russe, aveva fondato insieme all’americano Larry Page quella che diverrà una delle società più famose al mondo: GOOGLE; ma anche YAHOO è stata fondata insieme ad un cinese nato a Taiwan – Jerry Yang –, mentre INTEL è stata fondata insieme ad un cittadino di origine ungherese: Andy Grove; EBAY da un Francese Pierre Omidyar figlio di un Iraniano; HOTMAIL, invece, insieme ad un Indiano: Sabeer Bhatia, come altrettanti immigranti stranieri  co-fondatori di Ditte come ORACLE, SELECTRON, CIRRUS LOGIC, SUN MICROSYSTEMS, e non possiamo certo tralasciare un’altra importante partecipazione italiana: LOGITECH fondata nel 1981 da Pierluigi Zappacosta Giacomo Marini insieme allo svizzero Daniel Borel, mentre l’autore si dimentica del fondatore di PAYPAL il tedesco Peter Thiel.

E gli Americani, sempre molto aperti – nonostante le folcloristiche figure del genere di Donald Trump – offrono opportunità a chi sa fare; io stesso, nel mio piccolo, ho usufruito per diversi anni della loro generosità. Pertanto, i vantaggi che derivano dall’arrivo idee nuove ed ancor di più di sangue nuovo di individui provenienti da altre zone geografiche non possono essere contestati; infatti, ogni singolo individuo ha origini, sensibilità, interpretazioni della realtà ed esperienze proprie ed uniche; dunque, è naturale che abbiano modo di osservare e di applicare idee del tutto specifiche, potendo proporre soluzioni pratiche originali che vengono ad aggiungersi al patrimonio della conoscenza accumulata in Paesi, dove a certe particolarità, magari, non si era pensato prima, generando evidenti profitti economici, culturali e sociali, tanto per chi è accolto come di chi ospita questi nuovi arrivi.

Anni fa, avendo rivelato la mia origine italiana durante un incontro di affari con imprenditori australiani, mi avevano risposto con uno spontaneo sorriso che anche da loro c’erano molti Italiani e che il loro merito era di aver introdotto in Australia quel “Flair” ovvero quel talento che è, senza dubbio, una  delle nostre caratteristiche più ragguardevoli, insieme al brio, qualità che derivano appunto dalla nostra singolare indole individualista.  In fondo, ogni Popolo si distingue per le proprie peculiari inclinazioni; noi Italiani abbiamo le nostre e possiamo non essere i campioni dell’organizzazione, ma siamo certamente fra quelli che più eccellano per creatività e ciò deriva proprio dalla nostra atavica indole anarchica, ossia, la scarsa inclinazione ad organizzare. Tant’è vero che la creatività, la necessità di improvvisare, è figlia dell’anarchia. In fondo, essere creativi, significa saper cambiare, innovare, adattare, inventare e non siamo bravi in questo anche perché molto spesso, non ci schiviamo di trasgredire le regole; infatti,  noi siamo sempre stati un po’ – per non dire abbastanza – anarchici ed indisciplinati, sempre disposti a cercare scappatoie e scorciatoie, eludendo indicazioni, contrariando raccomandazioni e addirittura, infrangendo leggi; e, se da una parte, ciò costituisce la violazione di regole, dall’altra possiamo anche esserne fieri, perché è cambiando percorso che si rompono paradigmi per inventarne di nuovi. Ma nessun Popolo è dotato di tutto e se noi abbiamo non poche – diciamo – antropologiche virtù, non ci mancano nemmeno nemmeno i vizi; quali? La commiserazione, per esempio, ma anche la vanità che produce uno dei nostri lati meno gradevoli: la nostra predisposizione alla discriminazione che inizia dal campanilismo nostrano, prosegue con il razzismo fra polentoni e terroni e finisce nei confronti di chi pratica altre religioni e si veste o si alimenta esoticamente. Eppure, prima di integrare determinate etnie, noi  tutti siamo principalmente individui; ed al tema del biasimevole razzismo italiano ho già dedicato diverse particolareggiate pagine, attirandomi pure non poche critiche che non intaccano le mie empiriche convinzioni.

Insomma, Legrain qui fornisce una miriade di argomenti sulla base di tendenze  libertarie che io decisamente condivido,  secondo le quali – anche se utopisticamente -, crediamo che potremmo vivere benissimo anche senza frontiere nazionali ed a tale conferma, l’autore cita studi di Bob Hamilton e John Whalley pubblicati dal Journal of Development Economics del 1984; secondo le loro tesi, senza le limitazioni alle migrazioni – un’idea che potrebbe togliere il sonno alla maggioranza dei nostri connazionali -, l’economia in generale ne trarrebbe enormi vantaggi, potendo raddoppiare la propria dimensione. Altri due analisti, Jonathan Moses e Bjorn Letnes, nel 2004 sostenevano inoltre che con la libera migrazione i risultati potrebbero essere ancora superiori di quelli che erano stati stimati vent’anni prima; infatti, l’offerta di lavoro potrebbe ridistribuire il lavoro attraverso la libera offerta e la libera richiesta: ed il mondo potrebbe essere molto più ricco senza confini, proprio perché ci sono molti Paesi con enorme necessità di sviluppo ed altri che hanno il capitale umano per soddisfare tale ambizione. E niente come la globalizzazione che in parte ha già ampiamente dimostrato di poter meglio contribuire al benessere generale attraverso la libera circolazione – delle idee, dei beni e degli individui – ed anche una minima maggiore flessibilità, con la riduzione, dei dazi e dei controlli, potrebbe accelerarne tale processo.

Legrain dedica, inoltre, moltissime pagine anche agli argomenti dei detrattori di queste posizioni ed in particolare riserva tutto un capitolo – sotto il titolo Huntington and Hispanics – al famoso accademico razzista Samuel Huntington uno dei maggiori avversari della libera circolazione degli individui ed autore del famoso controverso saggio SCONTRO DELLE CIVILTA’, e secondo il quale, se potesse, caccerebbe tutti i Latinoamericani dagli Stati Uniti per tornare alla torre d’avorio popolata da cittadini biondi, fulvi dagli occhi cerulei e di preferenza di fede protestante. Ed allora sarebbe più che lecito chiedergli chi al posto degli indesiderati cattolici farebbe quei lavori che gli Americani di radice britannica o nord europea,  ormai, da molti anni non intendono fare? Naturalmente, Legrain non è tanto impreparato da non capire che, i nuovi arrivati possono subire e generare concrete difficoltà iniziali di ambientamento e di integrazione, soprattutto per chi arriva da Paesi con tradizioni e costumi oltremodo distinti. Ma, forse, in questo contesto, è altrettanto opportuno ricordare pure come, proprio molti dei nostri stessi connazionali che arrivavano in America, spesso, non molto familiarizzati con le più elementari norme dell’igiene, né con il dovuto il rispetto delle leggi ivi vigenti e, sovente, nemmeno alfabetizzati, hanno vissuto questi drammi;  e per documentarsene basterebbe leggere L’ORDA di Gian Antonio Rizzo con pagine capaci di strappare lacrime ai cuori sensibili. Eppure, già dalla seconda generazione, i loro successori, erano perfettamente integrati ed in alcuni casi – già da allora – i figli o nipoti, alla faccia di Huntington, si sono dimostrati in grado di coprire con onore incarichi di notevole responsabilità, anche  fra i più importanti del Paese, vedi Fiorello La Guardia, governatori come Mario Cuomo Rudy Giuliani, la prima donna ad assumere la presidenza della Camera de Rappresentanti americana, Nancy Pelosi ed ora Bill De Blasio.

Ad ogni modo, a prescindere dai problemi che possono sorgere con l’arrivo di “allogeni” – problemi vissuti in prima persona dai nostri stessi connazionali che, a loro volta, in milioni e milioni, hanno “invaso” i presunti paradisi altrui, principalmente in occasione dell’Epidemia che alla fine della metà del 1800 aveva colpito le colture dei bachi da seta, riducendo una buona parte dell’Italia alla miseria; per cui, i nostri disperati, vendevano il poco che avevano per avventurarsi, su bastimenti stracarichi, in America a cercare fortuna, senza nemmeno sapere esattamente dove arrivavano. Molti dei nostri, credendo di arrivare negli Stati Uniti per cercare oro, quelli che non morivano durante la navigazione e venivano buttati in mare, arrivavano magari, in Brasile del tutto impreparati; eppure, oggi, ormai alla quarta e quinta generazione, gli oriundi italiani in Brasile costituiscono circa il 50% della Popolazione dei due stati – i più sviluppati e ricchi del Paese – al Sud; e si vantano di godere di un’eccellente reputazione come hanno pure significativa partecipazione non solo nella politica, ma soprattutto nell’industrializzazione dal ricco Paese sudamericano. Ed in Italia pochi sanno che in Brasile circa 15% della Popolazione è di origine italiana; la più grande comunità – quasi trenta milioni – di oriundi italiani e, nonostante abbiano subito la repressione durante la Seconda Guerra Mondiale, avendo dovuto rinunciare alle proprie scuole e la propria lingua, sono molto fieri delle loro radici. Ma questo generoso gigante continentale ha accolto immigranti provenienti da ogni dove; oggi, accoglie ancora ogni giorno un grande numero di Haitiani, Boliviani, Argentini, Cileni, Coreani, Cinesi ed Africani che entrano anche illegalmente e che vengono, appunto, a fare lavori che altri non sanno o non amano fare. Ed allora, è un bene od un male?

Io non dubito che la lettura di questo interessante libro di Legrainisa oltremodo utile, proprio perché se ne possono trarre lezioni importanti capaci di far capire come le migrazioni sono un fenomeno del tutto naturale e parte intrinseca delle leggi della natura e che non bisogna temere chi è diverso, anzi, così come tutti abbiamo qualcosa da insegnare agli altri, tutti abbiamo anche molto da imparare da loro. Nessuno è abbastanza perfetto da poter rinunciare al contributo od esentare le potenzialità del capitale umano altrui. Il collettivismo ha sempre cercato di convincerci che la ricchezza sarebbe costituita dalle risorse naturali e dalle forze di lavoro; eppure, oggi siamo in grado di capire che il valore più importante è quello del capitale umano che ci propizia la possibilità di aggiungere valore a ciò che spesso è quasi privo di valore perché abbonda. La ricchezza non è una torta finita, dove chi ha fette più grandi le possiede in detrimento di chi ha fette più piccole o addirittura nessuna fetta; la ricchezza è infinita proprio perché – come insegna Popper – la conoscenza non ha fine e noi possiamo progredire nella misura in cui facciamo nuove scoperte e sviluppiamo nuove soluzione; per questo è importante poter contare sul massimo di individui che sanno rompere vecchi paradigmi per crearne di nuovi. 

Tuttavia, se qualcuno si ostina ancora a rifiutare l’idea della libera circolazione dei beni, dei servizi, delle idee e degli individui, per comprendere quanto sia fondamentale lo scambio anche genetico, è consigliabile leggere cosa ne pensano scienziati come Cavalli SforzaEduardo BoncinelliGuido Barbujani, per nominare solo alcuni autorevoli scienziati nostrani. Chi ancora non si dovesse rassegnare al naturale fenomeno delle “invasioni”, invece, dovrebbe chiedersi per quale motivo i governi Europei e – nel caso della coltura del cotone –, anche gli stessi Stati Uniti, continuano a mantenere barriere doganali od impongono limiti all’importazione di prodotti agricoli, distribuendo allo stesso tempo, scandalose sovvenzioni ai nostri agricoltori in assoluta sleale concorrenza nei confronti di Paesi a maggiore vocazione per determinate colture ed allevamenti, mentre, così facendo inducono migliaia di individui ad abbandonare le proprie campagne, per cercare fortuna nei Paesi più ricchi. Eppure, gli individui che accettano di correre il rischio di annegare e che si dispongono a farsi estorcere gli ultimi risparmi dagli sfruttatori che li traghettano, nella speranza di poter arrivare alle loro terre promesse, non sono da condannare; anzi, sono da compatire e addirittura da ammirare per il loro coraggio e la loro determinazione di non solo non rassegnarsi alla miseria, ma di ambire a migliorare le proprie condizioni di vita, lasciandosi alle spalle ciò che più amano, così come, a sua tempo, hanno fatto i nostri.

Noi, più fortunati, vivendo in Paesi ricchi, potremmo meditare meglio a questi problemi ed i nostri politici e dirigenti non dovrebbero opporsi a dare loro le opportunità che di fatto esistono; questo, per il loro bene ma anche per nostra stessa convenienza. Tuttavia, se i nostri concittadini dalla mente meno aperta, chiusi nell’inflessibilità dei propri preconcetti, proprio temono di creare squilibri fra posti vacanti e disoccupazione, si può sempre pensare di elaborare modelli di controllo a premi, concedendo visti a termine, come già fanno altri Paesi, per esempio, per le stagioni dei raccolti. Legrain non si stanca di indicare il caso del Canadà che accoglie immigranti di tutto il mondo in maniera esemplare; il visto a scadenza, prevede, infatti, una riserva della rendita da liberare al rientro nel proprio Paese, un meccanismo che funziona perché contribuisce a sviluppare l’accettazione di tale criterio limitativo da parte del migrante e crea allo stesso tempo una specie di “fidelizzazione” al metodo.

D’altro canto, i nostri politici, ogni anno, destinano ingenti stanziamenti a titolo di aiuti umanitari, ma i responsabili di tali iniziative farebbero bene a leggere l’ottimo pedagogico saggio LA CARITA’ CHE UCCIDE dell’economista africana Dambisa Moyo che dettaglia quanto dannosi possono risultare questi sussidi – spesso a fondo perduto – che più che aiutare i Popoli bisognosi, alimentano la corruzione e servono solo a foraggiare i conti esteri segreti di politicanti in carica e nutrire le loro consorti che vanno a spasso nei più lussuosi alberghi a fare spese nei negozi di lusso di tutta l’Europa. L’Africa e tutti i Paesi in via di sviluppo non hanno bisogno di umiliante elemosina, bensì di liberalizzazione economica; di libertà di movimento e di investimenti diretti per soddisfare i loro mercati latenti e per esportare parte delle loro eccedenze per compensare i disavanzi valutari. Infatti, nella misura in cui i Paesi liberalizzano, generano benessere sia per i propri cittadini che per quelli che possono beneficiarsi di tali misure. E’ ora, quindi, di cambiare modo di guardare ai migranti perché, così come l’acqua segue il percorso più facile da percorrere, anche le migrazioni – fin dai tempi più remoti – seguono le vie e le correnti più adeguate alle aspettative dei diversi individui più intraprendenti, ed un modo per convincersene, è più che opportuno leggere questa lodevole didattica lettura.

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