Nella nostra vecchia e cara Europa si reagisce in molti modi alla sfida che ci viene portata dai fanatici terroristi affiliati al sedicente Stato islamico della Siria e dell’Iraq. Il primo errore che si può commettere è quello di confondere due piani che vanno distinti. Una cosa è la guerra per annientare l’ISIS in quella porzione del territorio del Medio Oriente che attualmente controlla. Cosa molto diversa è organizzare ragionevoli misure per potenziare la sicurezza all’interno delle nostre stesse città, in modo da prevenire per quanto è possibile eventuali azioni terroristiche e, comunque, per mettere subito in condizione di non più nuocere i terroristi che fossero riusciti ad intraprendere qualche azione.
Per quanto riguarda il Medio Oriente, siamo di fronte ad una realtà organizzata, l’ISIS, che viola ogni regola della comunità internazionale. Nessuno Stato costituito, nemmeno quelli che sotto banco lo hanno finanziato e gli hanno venduto armi, dichiara di riconoscere il sedicente Stato islamico: proprio perché utilizza metodi e persegue finalità inaccettabili. La persecuzione dei cristiani e delle altre minoranze religiose, ad esempio, è contro lo spirito e la lettera del Corano. La distruzione di monumenti e oggetti d’arte propri di antiche civiltà, in quanto preislamiche, è ìndice di barbara stupidità. La pretesa di far rivivere il Califfato comporta, logicamente, che tutti gli Stati costituiti con popolazione di fede islamica, sunniti o sciiti che siano, dovrebbero essere azzerati in quanto realtà istituzionali indipendenti, per sottomettersi all’unica autorità, insieme politica e religiosa, del califfo, valida per l’intero Islam. Una simile prospettiva va contro gli interessi di tutti: della Turchia come dell’Arabia Saudita, dell’Iran come del Marocco. Di conseguenza, è del tutto evidente come il tempo non giochi a favore dell’ISIS. Questo si regge, non per forza propria, ma in quanto la comunità internazionale non ha ancora trovato una soluzione largamente condivisa sul futuro della Siria e dell’Iraq.
In questo contesto, è apprezzabile l’atteggiamento prudente del governo italiano, che, senza inutili smanie di protagonismo, cerca di dare il proprio contributo affinché maturi un accordo, quanto più ampio possibile, fra le potenze interessate, tanto quelle mondiali, quanto quelle regionali. A Vienna il negoziato ha fatto passi in avanti. La soluzione che verrà individuata funzionerà e sarà duratura soltanto a condizione che sia rispettosa della cultura e delle tradizioni islamiche e non appaia, invece, funzionale agli interessi di protagonisti esterni. Da questo punto di vista, anche l’attendismo del Presidente Obama è preferibile all’interventismo scriteriato che caratterizzò la Presidenza di George W. Bush (figlio). L’attuale destabilizzazione del Medio Oriente trova una delle sue principali cause scatenanti nell’invasione dell’Iraq che Stati Uniti e Regno Unito attuarono nel marzo del 2003.
Per quanto riguarda il pericolo del terrorismo all’interno dell’Europa, non bisogna perdere di vista il fatto che gli aggressori sono sparute minoranze: gli autori materiali degli atti stragistici compiuti a Parigi il 13 novembre scorso erano una decina; ed anche la rete logistica che li ha protetti non sembra coinvolga un numero più ampio di persone. Se con operazioni di intelligence e di polizia si riuscisse intanto a stringere le maglie per quanto riguarda la circolazione di armi da guerra, già questo solo fatto depotenzierebbe molto le possibilità di atti terroristici. Anche gli esplosivi più temibili non si comprano al supermercato.
La paura è un sentimento umano, ma chi non vuole sottomettersi deve essere capace di dominarla. Del resto, la condizione degli umani è di essere mortali. Posto che, prima o poi, tutti dobbiamo morire, meglio “morire in piedi”; espressione che fu felicemente utilizzata da Indro Montanelli come titolo di un suo libro del 1949 che raccontava il tentativo di un gruppo di alti ufficiali tedeschi, tra i quali il colonnello Claus von Stauffenberg, di uccidere Hitler il 20 luglio del 1944. Non si può pretendere che tutti coloro che intervengono nel dibattito pubblico abbiano la tempra dimostrata da Winston Churchill quando guidò e animò la resistenza degli inglesi contro i nazisti. Limitarsi a ripetere di avere paura, magari piagnucolando, è, comunque, un comportamento del tutto sterile; condannabile da ogni punto di vista: etico, politico, estetico. Un comportamento da donnette, si sarebbe scritto un tempo. Ora non lo scriviamo più perché abbiamo imparato a conoscere tante donne che quanto a intelligenza e carattere valgono assai più di tanti uomini.
Non abbiamo il piacere di conoscere membri del Movimento di cittadini romani che si è presentato con lo slogan “No Giubileo”. È probabile che i promotori siano anticlericali militanti, i quali hanno soltanto trovato l’ennesimo pretesto per protestare contro la Chiesa Cattolica, la cui presenza nella società li disturba a prescindere. Il tentativo di ragionamento che questi signori fanno è il seguente. Quello che a noi importa è che i terroristi non colpiscano in Italia, anzi non colpiscano a Roma, soprattutto non colpiscano nel nostro quartiere. Si sa che questi terroristi sono fondamentalisti islamici e che, conseguentemente, odiano i cristiani. Pertanto, per non essere colpiti dal terrorismo, è sufficiente non provocarli: vanno quindi impedite manifestazioni esteriori del culto cristiano che potrebbero irritarli.
Il che equivale a dire: posto che noi siamo delle banderuole e non abbiamo alcuna fede, né senso dell’onore, siamo pronti a dimostrare al mondo che noi italiani, noi romani, non abbiamo più alcun legame con la religione e la civiltà cristiana. Siamo felicemente “secolarizzati”; ben più maturi ed evoluti rispetto a quei retrogradi che ancora si baloccano con l’idea ed il timore di Dio.
A me questo ragionamento sembra rozzo, ingeneroso e sbagliato, come cercherò di dimostrare. Anche se si prova quasi fastidio a dover ricordare cose che dovrebbero essere scontate.
La Chiesa Cattolica, ossia universale, da più di duemila anni considera Roma il proprio centro spirituale. Perché proprio Roma? Perché, al tempo in cui visse Gesù di Nazaret, Roma era la sede dell’impero, quindi la città politicamente più importante. Il Cristianesimo doveva insediarsi a Roma per potersi poi meglio propagare in tutto l’impero. A questo scopo furono destinati due fra gli Apostoli più autorevoli: San Pietro e San Paolo. Entrambi proprio a Roma conobbero il martirio; ma il loro sacrificio evidentemente a qualcosa è valso, posto che loro sono morti nel primo secolo ed ancora, nel ventunesimo secolo, a Roma c’è un successore di Pietro che svolge, egregiamente, la propria missione.
Il Giubileo non è un evento mondano, ma un evento spirituale. Ci si riunisce per pregare insieme. Questo, come ha deciso Papa Francesco, sarà il giubileo della misericordia. Misericordia non è sinonimo di carità; si invoca misericordia non soltanto per i deboli, i poveri, i malati, ma anche per quanti ritengono di essere forti e sani ed invece sono normalmente confusi, normalmente disorientati, normalmente infelici. Confusione, disorientamento, infelicità sono appunto parte integrante della condizione umana. Anche nelle società cosiddette “secolarizzate”, che ritengono di non avere più bisogno di Dio. Anche chi gode di un alto tenore di vita può non sentirsi soddisfatto: possedere e consumare non basta. Bisognerebbe riconoscere che la vita, la nostra come quella altrui, ha un senso, uno scopo, quindi un valore.
Misericordia non è sinonimo di carità, perché il comandamento della carità riguarda gli esseri umani, nei loro rapporti reciproci. Il parlare di misericordia, presuppone, invece, un intervento non soltanto umano: è Qualcuno, Qualcosa, che dovrebbe penetrare in noi, ispirarci, darci forza, aiutarci a dare alla nostra vita il giusto orientamento. Chi può volerci aiutare, nonostante i nostri infiniti limiti e difetti, chi può avere pietà per la nostra condizione miserevole? La misericordia è una prerogativa divina; anche i credenti nell’Islam, i quali chiamano con un altro nome il nostro stesso Dio, lo definiscono, in primo luogo, “il misericordioso”.
Se gli aderenti al Movimento “No Giubileo” avessero un minimo di cultura religiosa, si renderebbero conto che pubbliche preghiere per sollecitare la misericordia divina non dividono cristiani e musulmani, ma possono soltanto affratellarli. Così come i risultati più proficui del dialogo interreligioso finora si sono raggiunti su temi come la salvaguardia del creato, ossia su come proteggere un pianeta divenuto troppo piccolo, laddove gli equilibri naturali dell’ambiente sono sempre più compromessi da uno sviluppo industriale, da un consumo energetico e da un consumismo di risorse del territorio, oltre che di oggetti prodotti dall’industria, per troppo tempo ritenuti illimitati dalle autorità laiche. Ecco riemergere, dunque, la dimensione religiosa del rispetto del creato.
In uno Stato davvero liberale e laico, la spiritualità e la religiosità, lungi da essere avvertite come un fastidio, vanno interpretate come un fattore di arricchimento della società.