L’immobilismo merita una risposta liberale

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di Giuseppe Lamedica

Sergio Romano, rispondendo ad una lettera di Enzo Bianco, Antonio Meccanico e Valerio Zanone (che sostenevano la necessità di superare l’immobilismo politico attuale attraverso il consolidamento del progetto del Pd) nota che a differenza di altri liberali quelli italiani “sono condannati a essere lievito di torte fabbricate da altri cuochi”.

La risposta di Sergio Romano sul Corriere della Sera del 18 luglio mi offre un’altra occasione per ribadire il punto di vista del sottoscritto e dei suoi (pochi) amici.

Sergio Romano non dice che è una condanna all’ergastolo, quindi potrebbe anche cessare. Anzi se all’estero i liberali sono stati capaci di incidere un po’ (“in Germania potrebbero andare al governo, nella prossima legislatura, con la signora Merkel. In Francia hanno avuto una considerevole influenza durante la presidenza Giscard e i governi di Raymond Barre e Edouard Balladur. In Gran Bretagna sono sfavoriti dalla legge elettorale, ma hanno conquistato 62 seggi nelle elezioni del 2005, con un aumento di 10 seggi rispetto alle elezioni precedenti. E a Strasburgo, infine, il gruppo parlamentare dei liberali e dei democratici conta 84 deputati”) perché mai in Italia i liberali debbano essere sempre il lievito di altri partiti piuttosto che il lievito della democrazia?

Ammetto che in Italia i liberali hanno fragili radici. Dopo l’avventura risorgimentale e i rivoluzionari governi della Destra storica, la pratica governativa e la paura dei socialisti hanno indotto comportamenti ultramoderati e conservatori lasciando, così, spazio a quello che appariva nuovo ossia ai populismi ed ai socialismi.

Oggi di fronte a quello che appare nuovo (prima Forza Italia e Alleanza Nazionale ed ora Popolo della Libertà, da una parte, Democratici di Sinistra e Margherita ora nel Partito Democratico, tralasciando la Lega, il soggetto di Di Pietro e gli eredi della vecchia DC) i liberali non sanno che far di meglio che confondersi con questi soggetti “nuovi” ma privi e refrattari alla cultura liberale.

Non è solo la responsabilità di Bianco, di Maccanico e di Zanone, ma anche quella di Martino, Urbani e Della Vedova e degli altri liberali che perseguono strategie di ospitalità per mera sopravvivenza personale, o che si limitano ad essere “guardoni” della lotta politica. Per carità nessuno di questi avrebbe le carte in regola per mettersi alla testa di una riscossa liberale: troppi errori hanno commesso. Le loro scelte attuali li individua come coloro che condannano oggi i liberali “a essere lievito di torte fabbricate da altri cuochi.”

E se al vetusto confronto “destra-sinistra” si sostituisse quello tra “partiti del nord e partiti del sud”, innescando una sindrome “belga” (valloni versus fiamminghi), non si realizzerebbero le premesse per una grave crisi dell’unità nazionale che ci allontanerebbe sempre più dall’Europa avvicinandoci a regimi mediorientali?

Non è una lettura particolarmente originale, anche Luca Ricolfi paventa i pericoli di un confronto nord-sud (La Stampa del 19/07/09), ossia di un confronto tra la questione settentrionale e quella meridionale.

I liberali avrebbero, perciò, il ruolo dei riformatori portatori di una cultura politica che punta più sul come “controllare chi comanda” piuttosto che su chi debba comandare, e quindi più favorevole al clima di coesione sociale, presupposto essenziale per affrontare serenamente i problemi del nuovo millennio.

I novemilioni di cittadini che sono stati rivelati dal recente referendum elettorale è un target che sarebbe attento a questa nuova offerta politica. Ma anche i predetti liberali, prima indicati, potrebbero essere indotti a cambiare atteggiamento. Anche solo per interesse personale.

L’’immobilismo merita una risposta liberale.

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