Alla fine .. la Riforma del Senato – Lo Zibaldone n. 418

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(Emanuele Felice, La Stampa) Alla fine la riforma del Senato non è quel gran pasticcio che si temeva. Poteva andare molto, ma molto peggio. Nei giorni, nelle settimane precedenti tutto il dibattito si è concentrato sulla modalità di elezione dei senatori: questione largamente autoreferenziale, irrilevante, pressoché aliena alla stragrande parte dei cittadini; anche perché le due opzioni si muovevano all’interno di uno stesso modulo condiviso, l’elezione del Consiglio regionale, cui poi legare in qualche modo la scelta dei senatori. Che la minoranza Pd si fosse incaponita su questo aspetto minore, spalleggiata dal consueto carosello mediatico, non era sorprendente. Serviva semplicemente a riaffermare la propria esistenza. Così che rimaneva in ombra, relegato a rari commenti in calce di pochi specialisti, il punto di gran lunga più importante: che cosa farà il nuovo Senato? Era questo il nodo decisivo. A seconda di come lo si scioglieva, la riforma del Senato sarebbe potuta apparire una occasione persa, oppure rivelarsi davvero l’occasione, colta, per dotare l’Italia di istituzioni più moderne ed efficienti.

Com’è noto la nostra politica ha un problema di lentezza e inefficienza dell’azione esecutiva, la cui origine si deve al timore da parte dei padri costituenti che tornasse a ripetersi l’esperienza della dittatura. Da qui un ampio sistema di vincoli e contrappesi atti a privilegiare la funzione di controllo su quella esecutiva, fra i quali il più notevole era appunto il bicameralismo paritario. Già nei decenni della Prima Repubblica questo sistema si è andato palesando sempre più inadeguato (e vale la pena rammentare che a quel tempo il Partito comunista – dalla cui storia proviene larga parte della minoranza Pd – proponeva l’abolizione). Messa così, la riforma proposta originariamente da Renzi aveva almeno il merito di soddisfare una condizione minima: superare il bicameralismo perfetto e snellire considerevolmente l’attività legislativa.

E tuttavia non basta, perché la nostra politica si caratterizza per almeno un’altra peculiarità negativa: i diversi livelli di efficienza delle amministrazioni locali, specie fra Nord e Sud (ma non solo). Spetta alla Corte dei Conti vigilare sulle pubbliche amministrazioni, com’è noto, ma limitatamente agli aspetti giuridico-contabili. Manca invece la valutazione di performance. Una valutazione che sia sostanziale, di merito, e non solo formale, e che magari risponda a due semplici domande: in che misura vengono raggiunti gli obiettivi dichiarati? Secondo quali modalità, ovvero con quali priorità? Ad esempio nella gestione dei fondi europei, oppure nelle procedure di ammodernamento telematico, nella raccolta differenziata, nei tempi di realizzazione delle infrastrutture o nella messa a punto dei piani regolatori. La Corte dei Conti, che è organo tecnico, non può entrare nel merito di attività di organi democraticamente eletti come le Regioni e i Comuni, una volta che ne abbia accertato la loro conformità alle regole e la correttezza contabile. Il Senato, espressione del voto popolare (in via diretta o indiretta, è lo stesso!) potrebbe.

Ebbene, la nuova formulazione dell’articolo 1 sembra effettivamente aperta a un’interpretazione di questo tipo. Certo la cautela è d’obbligo, perché il testo non è ancora del tutto chiaro. Ma là dove si vuole ora che il Senato valuti <le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni», cos’altro si può intendere? Nella precedente formulazione, il Senato “concorreva” a valutare; concorreva insieme alla Corti dei Conti, e non si capiva bene in che modo. Ma adesso il Se nato non concorre, valuta. Dato che la Corte dei Conti continua a fare il suo mestiere, allora il Senato non può che valutare su di un piano diverso, cioè quello del merito delle scelte. Se è così – lo si può sperare – il compromesso raggiunto è migliorativo. Ed appare migliorativa anche l’altra modifica apportata all’articolo 1, ovvero li funzione attribuita al Senato di <verificare l’impatto delle politiche dell’Unione Europea su territori>: enunciazione che potrebbe avere senso compiuto se con essa si intendesse che il Senato vigila sulle capacità e modalità di spesa dei fondi europei. Il paradosso è che ci si è arrivati per il merito di una minoranza Pd impegnata in tutt’altra battaglia.

Nominati per sempre

(Luca De Carolis, eddiburg.it) Si scrive riforma, si legge pasticcio. Ufficialmente e renzianamente, la riforma del Senato è la via per arrivare a una democrazia efficiente, nella quale <il procedimento legislativo sarà più snello ed efficace> (Maria Elena Boschi). Fuor di propaganda, è un ginepraio contraddittorio, da cui potrebbe scaturire una seconda Camera che conterà poco o nulla. Soprattutto, composta di nominati. <Questa riforma è un capolavoro di dilettantismo>, scandisce l’amministrativista Gianluigi Pellegrino. Il cuore della riforma è l’articolo 2 del disegno di legge costituzionale, e in particolare il secondo comma, approvato in doppia lettura conforme (senza modifiche) nelle due Camere: <I Consigli regionali e i Consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano eleggono, con metodo proporzionale, i senatori tra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, tra i sindaci dei Comuni dei rispettivi territori>. Renzi ha blindato il comma in base al regolamento di Palazzo Madama, secondo cui non si possono cambiare le norme già approvate in entrambi i rami del Parlamento. La possibile mediazione tra il premier e la minoranza del Pd, che invoca un Senato elettivo, verrebbe affidata a un nuovo comma 5. Ossia una norma in base a cui i cittadini sceglieranno i consiglieri regionali da inviare a Palazzo Madama tramite un listino. I Consigli di ogni singola Regione dovrebbero poi ratificare le nomine.

Ma Pellegrino stronca questa soluzione: <Il comma 2 prevede che i Consigli regionali eleggano i senatori con metodo proporzionale, ossia dando maggiore spazio ai gruppi politici più folti in Regione. Bene, secondo il nuovo comma 5, i cittadini dovrebbero votare i senatori con un listino. Ma come faranno a sapere quale sarà la composizione dei futuri gruppi in Consiglio, che dipende dall’esito del voto? È evidente che sulla volontà popolare prevarrà il criterio proporzionale, e quindi molti voti di preferenza saranno inutili>. Come se ne esce? <Renzi non vuole toccare il comma 2, per non far ripartire da capo l’iter del testo. Ma se si punta a un sistema coerente, la norma va modificata. Se il testo verrà approvato così, i senatori saranno dei nominati. E il comma 5 sarà superfluo>.

Le contraddizioni proseguono: <Se si vuole davvero dare la parola ai cittadini va cambiato anche l’articolo 38 del ddl, già approvato in doppia lettura conforme, che è una norma transitoria (ossia colma il vuoto nel passaggio da una normativa all’altra) e che stabilisce la composizione del nuovo Senato. Prevede che, finché non verranno eletti i nuovi Consigli regionali, ogni consigliere potrà scegliere i senatori votando per una sola lista di candidati, formata da consiglieri e sindaci dei rispettivi territori. Ma come combacia questa norma con la volontà popolare? Tanto più che c’è un rischio: perché entrino in vigore le nuove norme sull’elezione del Senato, bisognerà attendere una legge di attuazione. Poniamo che non si accordino sul testo: rischiamo di ritrovarci per anni con Palazzo Madama eletto solo dai consiglieri regionali>.

Obiezione: il regolamento del Senato esclude cambiamenti per norme approvate in doppia lettura. Ma il Pellegrino replica: <Il regolamento afferma che si può intervenire sulle norme cambiate e su quelle a esse connesse. E allora, dato che Montecitorio ha notevolmente ridotto le funzioni del Senato, è ovvio che debbano cambiare anche gli articoli sulla composizione. Competenze e composizione vanno assieme>. Non solo: <C’è il precedente del 1993, quando l’allora presidente della Camera Giorgio Napolitano ammise gli emendamenti sul nuovo articolo 68 della Carta. Come spiegò la Giunta per il regolamento, ciò era giustificato dall’atipicità della revisione costituzionale>. Quindi, il presidente del Senato Grasso dovrebbe ammettere tutti gli emendamenti all’articolo 2? <Certamente. Sarebbe inaudito se ne impedisse la discussione>. Infine: <Se si prevede che siano comunque i Consigli regionali a designare i senatori, sia pure su indicazione dei cittadini, si lascia spazio a un potenziale sovvertimento del voto>.

Sulle origini del capitalismo

(Giovanni Orsina, La Stampa) Spiegare per quale ragione, a un certo punto della storia, l’Occidente sia decollato – ossia, perché in una vicenda umana fatta di società immobili sia nato un piccolo nucleo di società progressive – resta per storici, sociologi ed economisti una delle sfide intellettuali più affascinanti. Ci si chiede se sia inevitabile, possibile, desiderabile, che il modello occidentale sia esportato in tutto il mondo; e, in quale modo, se ne possano ammortizzare i costi enormi. E se il passaggio dalle società immobili alle progressive sia irreversibile, o non ci sia invece il rischio che il progresso divori alla fine se stesso, creando un’instabilità tale da richiedere che si torni alla stasi. E ancora, ci si interroga quanto il progresso e la stasi vengano dalla politica e quanto dall’economia, e dove sia quel magico punto d’equilibrio fra la politica e l’economia nel quale il progresso avanzerà al giusto ritmo e nel giusto ordine.

Proprio perché l’interrogativo è così importante, e la risposta che gli si dà tanto gravida di conseguenze, a scioglierlo ci hanno provato in molti. Quando è uscito in francese nel 1971 il volumetto di Jean Baechler su Le origini del capitalismo (ora ripubblicato in italiano) l’autore scendeva in un campo intellettuale già ampiamente dissodato, sul quale s’erano mosse per un secolo e mezzo le menti migliori delle scienze sociali. E tuttavia, in un campo così difficile, quel volumetto ci scendeva bene. Innanzitutto perché rispettava la forma del saggio: breve, agile, affilato, tutto costruito intorno a una tesi chiara, dimostrata in maniera precisa ma non logorroica. Ma ancor di più perché prendeva una posizione che era originale – perfino provocatoria. E che però riletta oggi – anche alla luce della storiografia di quest’ultimo quarantennio, che l’ha largamente confermata – appare convincente: le origini del capitalismo devono essere ricercate non sul terreno economico, ma su quello politico e istituzionale. Più precisamente: il capitalismo è nato nell’Europa del secondo millennio dopo Cristo perché vi ha trovato uno spazio unificato culturalmente ma frazionato politicamente, ossia incapace di tenere sotto controllo i processi economici.

Non ho qui il modo per illustrare compiutamente in quale modo Baechler dimostri la sua tesi e la sviluppi: ragionando su Karl Marx e Max Weber, cercando prove e controprove in Europa e fuori di essa, tentando di individuare il nucleo concettuale del capitalismo, descrivendo l’emergere dei suoi diversi protagonisti – l’imprenditore, il tecnologo, il lavoratore, il consumatore. Mi limiterò quindi a sviluppare una breve riflessione su un solo punto, che mi pare tuttavia di straordinaria attualità: il problema del controllo. Affermando che il capitalismo si sviluppa, date certe condizioni, dalla debolezza della politica, Baechler ci dice in sostanza che vi è una relazione inversa fra la capacità degli esseri umani di controllare il proprio ambiente (ossia, lo sviluppo economico e tecnologico) e quella di controllare gli altri esseri umani (ossia, il potere politico): più aumenta l’una più diminuisce l’altra, e viceversa.

Questa tesi – se la si accoglie – porta a uno dei nodi problematici più profondi e ingarbugliati dell’epoca moderna: perché da un lato lo sviluppo economico e tecnologico generatosi grazie alla debolezza del potere politico ha enormemente contribuito negli ultimi tre secoli ad “aprire” la storia – avviando processi di mutamento sociale sempre più tumultuosi; dall’altro ¡’”apertura” della storia ha generato angosce tali da spingere gli esseri umani a reclamare protezione da parte di un potere politico più forte ed efficace. La storia degli ultimi due secoli può insomma essere interpretata come un continuo movimento a fisarmonica fra le due forme di controllo, quella economica e quella politica. E molte delle vicende dei nostri giorni possono esser lette come un tentativo di ridare forza alla politica in un’epoca di predominio dell’economia. Quell’epoca che si è aperta negli Anni Settanta e che Baechler, con le sue tesi storiche, ha in qualche modo saputo anticipare.

Fax, l’eterno ritorno

(Riccardo Luna, Repubblica) <Mi mandi un fax!>. Ritorna sempre questa frase, francamente odiosetta, con cui l’impiegato alza un muro facendo finta di rispondere alla tua legittima richiesta. Perché ai giorni nostri è pure difficile trovarlo un fax: c’è ancora qualcuno che davvero vende l’apparecchio inventato ormai 72 anni fa? 0 magari un tabaccaio che offre il servizio un tanto a pagina? Certo che c’è, sennò certe cose non si capirebbero. Quando qualche giorno fa è venuto fuori che il comune di Milano pretende che i cittadini nel 2015 inviino – solo ed esclusivamente – un fax con i moduli della tassa sui rifiuti c’è stata una piccola sollevazione popolare. Che scandalo. Se fosse una canzone sarebbe <sapessi com’è strano mandare ancora un fax a Milano>. Eppure l’Italia è fatta così.

Ancora oggi, nonostante i proclami sul digitale che avanza e ci migliora la vita, serve un fax quasi sempre per comunicare con le scuole (non più per fare le iscrizioni, vivaddio); per richiedere la cartella sanitaria in ospedale; e persino per accreditare un giornalista o un fotoreporter a palazzo Chigi. Ebbene sì: <Per poter completare la procedura, l’utente DEVE inviare una comunicazione indirizzata all’Ufficio Stampa (fax: 06-67795441), su carta intestata e firmata, contenente informazioni che certifichino la propria identità>. Ma la cosa non si ferma nel perimetro dell’analogica pubblica amministrazione: in Italia serve un fax per dimostrare di aver pagato una bolletta in ritardo ed evitare l’interruzione della corrente; serve un fax per comunicare con le compagnie telefoniche o con Sky; serve un fax per informare Alitalia di aver cambia to i dati personali della tessera Mille Miglia; serve un fax per aprire un conto corrente online (oppure puoi presentarti di persona, così il fax lo manda l’impiegato).

E’ un fenomeno è davvero cosmico, visto che parliamo di banche che nascono digitali; ed è al tempo stesso la fotografia del nostro rapporto, in fondo perverso con il digitale. Infatti quasi sempre ormai i moduli si compilano online; ma poi vanno scaricati, stampati e inviati per fax. Un po’ come il registro scolastico elettronico che molti presidi fanno stampare <perché così sono più sicuri>; o la monumentale <copia di cortesia> degli atti di un processo che i giudici pretendono di ricevere in forma cartacea; o persino la carta di imbarco per un volo aereo, che ottieni magari inserendo i dati su una App; ma poi devi stamparla e mostrarla al gate, sebbene in quasi tutti gli aeroporti del mondo basti una macchinetta a leggere i codici direttamente dal telefonino.

Ci sono eccezioni naturalmente ma dimostrano due cose: che un altro mondo, senza fax, è possibile; ma non è il nostro. E del resto se non fosse così non si spiegherebbe il richiamo che prima di Ferragosto ha fatto la Corte dei Conti: le spese di carta stanno crescendo, hanno detto. Possibile? Come? Con tutto quello che investiamo sul digitale? Certo che è possibile, se accanto al digitale, poi vogliamo stampare tutto. Per faxarlo meglio. Vista da questo punto di vista, la storiella del comune di Milano che dice che <i cittadini preferiscono il fax> non è uno scandalo, ma un classico dell’estate italiana: come lo squalo avvistato che in realtà era una verdesca o il caldo che è sempre da record. Era l’estate di due anni fa e in Parlamento si svolse un duello accesissimo: il giovane deputato Pd Paolo Coppola aveva cercato di far inserire una norma per abolire il fax nella pubblica amministrazione, e il governo si era opposto. In particolare si era opposto l’allora sottosegretario allo Sviluppo Economico, il professor Claudio De Vincenti (oggi a Palazzo Chigi sottosegretario alla presidenza del Consiglio) che spiegò che lui non era a favore del fax, ma insomma come si faceva se per caso la linea Internet non funzionava? Finì che l’abolizione passò, ma venne rinviata al 2015.

Poco male, se non fosse che nel frattempo è stato per colpa di un fax (che nessuno ha protocollato per due giorni), che l’alluvione a Parma fece tanti danni nell’ottobre del 2014. Accadde che il sindaco era a Roma, e così quel foglio con l’allarme della Protezione civile è rimasto lì, ignorato e svolazzante sotto la macchinetta che lo aveva stampato, e nessuno ha fatto nulla. Nel frattempo la scadenza del 2015 è arrivata e alcune cose sono cambiate. Anche se solo sulla carta, e non è una battuta. Il governo sta per far partire Spid, Un sistema di identità digitale grazie al quale per moltissimi servizi pubblici ma anche privati (banche e compagnie telefoniche) ciascun cittadino avrà un’unica credenziale di accesso: e quindi, per dime una, non sarà più necessario mandare un fax per identificarsi. Si parte a dicembre 2015 per andare a regime in 24 mesi. Speriamo che non finisca come l’annuncio del maggio del 2008 dell’allora ministro dell’Innovazione Renato Brunetta: <Aboliremo la carta> disse. E lo fece distribuendo un fascicolo cartaceo di una quarantina di pagine. In fondo, la storia lo dimostra, i fax sono come i diamanti: per sempre.

Una intervista immaginaria
A Italo Calvino

A trent’anni dalla scomparsa (1985), una intervista immaginaria a Calvino ci può stare, soprattutto se è prodotta dalla penna brillante di Ernesto Ferrero.

(Ernesto Ferrero, La Stampa) La ringrazio di avermi concesso questa intervista, un genere che lei non ama. <Quando tutti parlano troppo, la scelta del silenzio è quasi obbligata. La parola parlata è sempre un’approssimazione. Esiste un’arte del silenzio che è più difficile dell’arte del dire. Nella mia laconicità c’è una componente genetica (la mia schiatta ligure sdegnosa d’effusioni) ma anche una scelta stilistica. La laconicità è un buon modo di comunicare, meglio di ogni espansione incontrollata e ingannevole. Chi cerca uno scrittore che parla con il cuore in mano non deve rivolgersi a me>. Attraversiamo anni di mutazioni profonde. Come è cambiato il rapporto tra le generazioni? <In altre epoche, il contrasto tra vecchi e giovani era marcato, l’immagine del vecchio aveva caratteristiche molto forti, positive o negative: depositario della saggezza, oppure brontolone, avaro. Oggi il vecchio non è da rimuovere, è già rimosso. Nessuno pensa che abbia saggezza da trasmettere, e nemmeno un’esperienza. Viviamo in un mondo in cui non s’accumula più esperienza. Quello che un anziano può testimoniare è la serie di errori che ha compiuto, se è abbastanza lucido da riconoscerli. Ma nessuno ha voglia di stare a sentirlo. Ogni generazione ha bisogno di fare i suoi errori di persona>.

Lei come affronta l’età matura e poi la vecchiaia uno “scoiattolo della penna”, come la chiamava Pavese? <Per vent’anni ho fatto “il giovane scrittore”. A un certo punto mi sono reso conto che non potevo più tirarla in lungo, e allora ho deciso di saltare le fasi intermedie e cominciare la vecchiaia. Cominciando presto, ci sono più possibilità di avere una vecchiaia lunga. Così uno può permettersi il lusso di non capire più quello che succede, le follie della propria epoca. Non si sente più obbligato a essere à la page, può mettere una distanza salutare tra il proprio modo di pensare e lo spirito dei tempi. Non ho mai avuto il senso dell’attualità>. Negli ultimi tempi si è parlato molto di rottamazione…<Molti anni fa avevo scritto un apologo intitolato La decapita-zione dei capi, in cui si prevedeva che alla fine del loro mandato i capi venissero ghigliottinati in una solenne cerimonia pubblica, senza odio né disprezzo, per obbedienza a regole condivise. L’autorità sugli altri dovrebbe coincidere con il diritto che gli altri hanno di farti salire sul palco, un giorno non lontano. Poi mi sono venuti dei dubbi, perché è vero che gli interventi paradossali e provocatori sono sempre apprezzati, ma c’è il pericolo che il paradosso venga preso sul serio. Con Internet il pericolo è triplicato>.

A proposito, lei appartiene alla categoria dei “sempre connessi”? <Le potenzialità del calcolo combinatorio che i computer offrono mi affascinano. Rendono teoricamente possibili certe ipotesi che avevo avanzato, cioè che potendo sperimentare un numero pressoché infinito di combinazioni anche un operatore illetterato potrebbe arrivare a produrre la Divina Commedia. Poter disporre di un computer negli Anni 80/90 mi avrebbe facilitato il lavoro. Ai tempi in cui ho frequentato l’Oulipo, il Laboratorio di letteratura potenziale, a Parigi, con Queneau e Perec, avevo escogitato una combinazione di quattro personaggi e dodici azioni criminose, che produce tre miliardi di soluzioni. Per il resto no, possiedo soltanto un vecchio cellulare a pulsanti che mi hanno regalato anni fa, ma lo tengo sempre spento. La dipendenza da schermo è una perdita di tempo che non mi posso permettere. La Rete è il regno stesso dell’imprecisione, quando non dell’inganno o della frode. Notizie e immagini sono manipolabili con una facilità mai vista prima. Con il digitale, non ci sono più limiti agli effetti speciali>.

Ma non usa nemmeno la posta elettronica? <Per le questioni urgenti, ricorro a mia moglie Chichita. Lei è bravissima con la Rete, sa sempre tutto senza muoversi di casa. Scrive anche mail di uno humour sopraffino che fa la gioia dei suoi (pochi) corrispondenti>. Quindi niente social network. <Il mio problema semmai è nascondermi, sparire, cancellare le mie tracce. Anche quando scrivo. Che meraviglia una mano che scrive libera dagli impacci dell’io. I social producono aggregati di solitudini di massa che non comunicano davvero tra di loro. Sono il luogo di un’affermazione dell’io che non prevede una reale disposizione all’ascolto. Ho sempre sognato un’opera concepita al di fuori del self, che uscisse dalla prospettiva di un io individuale per entrare in altri io, per far parlare ciò che non ha parola, l’albero, la pietra, il cemento, la plastica. Ci aveva provato anche Leonardo, in certi brevi testi cerca di raccontare l’avvampare del fuoco o il grattare di una lima>. E nienteTwitter… <Per concentrare qualcosa di sensato in 140 caratteri bisognerebbe lavorare alcune ore. Pensi alla maestria che sottende il meraviglioso micro- racconto del guatemalteco Monterroso: “Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì”. L’espressione precisa non viene mai di getto. Come diceva Mark Twain: oggi ti scrivo dieci pagine perché non ho tempo. Io lavoro molto, ogni cosa che scrivo è molto lavorata. Ci faccio una gran fatica. Scrivo e correggo, scrivo e correggo, inserisco tante correzioni scritte sempre più piccole, alla fine de-vo prendere una lente per capirci qualcosa>.

L’etica nazionale è scesa ai minimi storici. L’Italia è un Paese fondato sull’illegalità diffusa. Che cosa è per lei la morale? <Ho sempre rifiutato la concitazione da vigilia d’apocalisse, catastrofe o palingenesi, ma non spero in una società migliore perché so che il peggio è sempre più possibile. Dico soltanto che la mia morale resta pratica, empirica. Il senso di tutto è il lavoro. Stabilisce una relazione, una comunicazione con gli altri. Quello che conta è quel che si fa. Non mi va giù lo spontaneismo esistenziale, per cui tutti hanno il diritto di vivere. Il diritto di vivere ce lo si guadagna duramente e molte persone che conosco non hanno nessun diritto di vivere, io stesso non sono mica sicuro di avere questo diritto. Me lo devo dimostrare e non sempre ci riesco. Mi sento un uomo in più, in una terra sovrappopolata>. Con il crollo del Muro di Berlino e l’implosione dell’Unione Sovietica i conflitti anche locali si sono moltiplicati in misura esponenziale. <Per quanto distruttiva, dopo ogni guerra resta abbastanza gente e abbastanza territorio incontaminato per fare dopo un breve intervallo un’altra guerra peggiore della prima e poi un’altra ancora. Il Duemila sarà un millennio molto duro da attraversare>.

Chi vincerà, alla fine? <I topi. Ho letto che a Roma c’è già un topo per abitante. Mai come oggi siamo consapevoli di avere uno scarso potere per controllare il corso della storia e degli eventi, che vengono decisi da élites sempre più ristrette. A ogni livello della scala sociale le illusioni sono poche. Ma poche illusioni sono meglio di false promesse. Penso che la letteratura sappia ancora mantenere le promesse meglio di altre espressioni culturali, ad esempio più della politica. Sa ancora offrire modelli di visioni, pensieri, linguaggi, sentimenti>. Negli ultimi tempi la meritocrazia ha riguadagnato qualche posizione, anche se poi in concreto è difficile da realizzare. Lei ci crede? <Certamente! Uno deve meritarsi in qualche modo quello che ha>. Ci lasci un viatico per il futuro prossimo. <È sempre quello di tanti anni fa. Puntare solo sulle cose difficili, eseguite alla perfezione, le cose che richiedono sforzo; diffidare della facilità, della faciloneria, del fare tanto per fare. E combattere l’astrattezza del linguaggio che ci viene imposta ormai da tutte le parti. Puntare sulla precisione, tanto nel linguaggio quanto nelle cose si fanno>.

Still cannot believe that pig..

Caro Lorenzo, a proposito di quel maiale citato fra gli “Amazing facts” del numero scorso, osservo che “godere come un porco” è l’espressione che sintetizza il nostro stupore sulla durata del coito suino. Negli allevamenti che popolano l’Emilia, e ora anche la provincia di Cuneo, che da sola ha più porcelli che l’intera regione emiliana (con deiezioni complessive che trasformeranno l’Adriatico in un mare di … se non riusciremo, per esempio, a metterle in barili e scambiarle contro petrolio con l’Arabia Saudita che cerca di fertilizzare il deserto…), ecco, il verro di pregio, costosissimo perchè non sbaglia mai un colpo e le sue scrofe sfornano regolarmente 12 porcellini 2 volte all’anno, è  oggetto di cure ricostituenti particolari, e soprattutto è affiancato nel suo lavoro dai “verri ruffiani”, che scaldano le scrofe con complimenti, annusate e toccamenti, in modo da ridurre il tempo di lavoro effettivo del verro principale. Insomma, il fordismo applicato alla scopata suina. Gli animalisti non conoscono bene il problema, che comporta la precoce morte per infarto dei verri ruffiani, che sul più bello sono allontanati con un calcione o una scossa elettrica per far posto al principino che deve terminare l’opera, con minimo impiego del suo tempo prezioso. Ci vuole un Landini per difendere i maiali sfruttati… Ciao. Claudio

Confucius did not say..

1. Man who leaps off cliff, jumps to conclusion.
2. Man who runs in front of car gets tired; man who runs behind car gets exhausted.
3. Squirrel who runs up woman’s leg will not find nuts.
4. Man who eats many prunes get good run for money.
5. War does not determine who is right, it determines who is left.
6. Man who fights with wife all day gets no piece at night.
7. It takes many nails to build a crib but only one screw to fill it.
8. Man who drives like hell is bound to get there.
9. Man who lives in glass house, should change clothes in basement.
10.  Passionate kiss, like spider web, leads to undoing of fly.

Citazione

Il diavolo deve essere un ottimista, per credere che il mondo possa andare peggio di così. (Elias Canetti)
lorenzo.borla@fastwebnet.it

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