Innovazione, tecnologia, uguaglianza – Lo Zibaldone di Lorenzo Borla n. 414

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(Alessandro Pansa, Il Fatto) La rivoluzione tecnologica travolge i sistemi economici e sociali. Nessuno dubita delle opportunità legate all’innovazione, né può pensare di fermarla. Sono lontani i tempi in cui Newton e Leibniz inventarono contemporane-amente il calcolo infinitesimale e non sapevano l’uno dell’altro. Il problema, semmai, è se le strutture sociali dell’Occidente meritino di sopravvivere a questo terremoto e siano in grado di farlo. Credo che lo meritino. Nella storia, niente ha difeso ed ampliato il concetto di dignità della persona come l’evoluzione del rapporto tra democrazia e capitalismo attorno ai principi di sovranità, proprietà, uguaglianza e solidarietà. Non è detto ci riescano: il filosofo Emanuele Severino ritiene che la tecnica si mangerà tanto il capitalismo che la democrazia.

Dall’inizio del secolo, la produttività cresce ma l’occupazione ed i salari scendono. <La disoccupazione è peggio della povertà> diceva George Orwell: non è pacifico che le società occidentali possano convivere con un <esercito industriale di riserva> indotto dall’innovazione e ben più ampio della <disoccupazione naturale> cui ci ha abituati la teoria economica. Lavoro e crescita non marciano più insieme, la tecnologia premia coloro che la dominano, rende marginali numerose imprese e favorisce una concentrazione industriale di fronte alla quale ben poco possono le autorità per la tutela della concorrenza. Così aumenta la diseguaglianza: che è cresciuta di oltre il 15 per cento tra il 1988 ed il 2008, stando alla Banca Mondiale. Non è un caso. Negli Stati Uniti, la quota di reddito nazionale allocata al lavoro, stabile al 65% dal dopoguerra al 2000, è scesa di quindici punti percentuali a favore di quella destinata a remunerare il capitale. Lo stesso è successo in Europa. È l’effetto della internalizzazione della finanza, che va a braccetto con l’innovazione tecnologica e rappresenta, insieme a quest’ultima, la vera discontinuità introdotta dalla globalizzazione.

Ogni spesa, che sia pubblica o privata, viene finanziata sui mercati. Le politiche pubbliche dipendono, assai più che dalle preferenze degli elettori, dall’accesso ai mercati e dal costo che questi impongono al debito dei governi; i progetti industriali sono funzione della remunerazione dei capitali raccolti dalle imprese. Le possibilità di sopravvivenza del nostro modello sociale risiedono nella capacità di gestire il rapporto tra innovazione, tecnologia, distribuzione del reddito e principio di sovranità. Lo Stato, piaccia o no, è il principale motore dello sviluppo di scienza e tecnica: oltre l’80 per cento delle invenzioni più importanti degli ultimi cinquant’anni non sarebbero state possibili senza l’intervento pubblico. Solamente una corretta distribuzione dei proventi delle innovazioni tra contribuenti, azionisti e lavoratori, potrà innescare un circolo virtuoso tra innovazione ed uguaglianza, facendo sì che l’abbondanza creata dalla prima non distrugga la seconda.

Lo si potrebbe fare, ad esempio, costituendo fondi per l’innovazione che assicurino un ritorno trasparente al contributo dato dallo Stato: il quale potrà reinvestire i proventi in altre iniziative, sostenendo anche attività ad elevata intensità di capitale umano qualificato. Ovvero assicurando incentivi fiscali ai “capitali pazienti”, per stimolare gli investimenti produttivi di lungo periodo. Che potrebbero essere aiutati da istituti di credito dedicati al finanziamento delle iniziative industriali, condividendo tempi e rischi dell’innovazione. Infine, se la diseguaglianza è <una corsa tra istruzione e tecnologia>, un sistema scolastico, universale nell’accesso e rigoroso nelle valutazioni, renderà meno acuto il divario sociale e creerà cittadini più consapevoli.

Non si tratta di resuscitare lo Stato assistenziale. Bensì di consentire alla democrazia di competere con sistemi che costano poco, garantiscono poco e si dichiarano più rapidi ed efficienti: ma, nel vantarsi della loro minore complessità, si dimenticano di alcune conquiste fondamentali degli ordinamenti liberali. Spetta alla politica muoversi. Solamente uno Stato non succube delle trasformazioni della storia potrà salvaguardare la sovranità sua e dei suoi cittadini. Ai quali si potranno chiedere impegni e presentare credibili prospettive. Tra le quali, parlando di Europa, quella di aumentare il carattere sovranazionale di quest’ultima come sola opportunità per affrontare un futuro incerto. Non era questa l’idea di coloro che per primi pensarono all’Euro? I quali si sono forse ricordati che, come ammoniva Plutarco, <la distanza tra ricchi e poveri è la piaga più vecchia e letale per tutte le repubbliche>.

Produttività grande malata

(Massimo Russo, La Stampa) La produttività è la grande malata del nostro Paese. Se la calcoliamo come prodotto lordo per ora lavorata, mentre negli Stati Uniti nei quattordici anni tra ’98 e il 2012 è cresciuta del 30%, in Giappone di oltre il 20%, in Germania del 18%, da noi è rimasta al palo. L’efficienza del settore pubblico sembra andare di pari passo. Come testimoniano i dati di Transparency international e del World economie forum, noi primeggiamo in Europa per corruzione, scarsa qualità delle istituzioni, sprechi nella spesa, farraginosità delle procedure tributarie, difficoltà di ottenere permessi e licenze, vincoli all’apertura di nuove attività. Da queste constatazioni è partito lo studio di Bankitalia in collaborazione con il Fondo monetario, con l’obiettivo di quantificare il rapporto tra l’inefficienza della pubblica amministrazione e le differenze di produttività. Sono stati presi in esame cinque indicatori: l’istruzione, la giustizia civile (che dipendono dall’amministrazione centrale), lo smaltimento rifiuti, gli asili nido (che dipendono dagli enti locali), la sanità, che è gestita dalle Regioni.

Una prima evidenza è la forte correlazione tra, la produttività delle aziende e l’efficienza dei servizi pubblici: dove lo Stato funziona, vanno meglio anche le imprese. Ma questa non è ancora una prova di causa-effetto. Accertamenti ulteriori hanno invece dimostrato che il legame esiste, eccome. Le pagelle dei servizi: se la cava il Nord, con Torino, Lombardia, Emilia che primeggiano; galleggia il Centro, con le eccezioni positive di Toscana e Marche; il Mezzogiorno è in gran parte un disastro. Se domani fossimo in grado di portare l’efficienza dello Stato e degli enti locali in tutto il paese al livello delle regioni virtuose, avremmo un miglioramento di produttività che in alcuni casi potrebbe giungere al 22%. Lo studio di Bankitalia e del Fmi indica anche che gli indicatori che hanno un’incidenza più forte sulle imprese sono giustizia civile e scuola, ovvero gli unici che – amministrati centralmente – dovrebbero essere omogenei da Nord a Sud. Così non è. Dove la formazione è carente o i tribunali non funzionano, le imprese soffrono. Le scuole non insegnano o insegnano male. I tribunali assumono personale più scarso e quindi non hanno certezza di risolvere liti e contenziosi. I settori più danneggiati sono agricoltura, chimica, elettricità, edilizia, auto, manifattura, mentre – per quanto riguarda la tipologia aziendale – a patire maggiormente sono le aziende più piccole e più giovani. Quelle che più avrebbero bisogno di un’amministrazione pubblica adeguata per crescere e affermarsi. La tassa occulta dell’inefficienza colpisce soprattutto l’innovazione.
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L’Italia potrebbe essere…

(Roberto Cingolani, direttore dell’Istituto italiano di tecnologia, La Stampa) L’innovazione è il propulsore economico e sociale di tutti i Paesi avanzati. L’ultimo rilevamento del World Economic Forum sugli indici di competitività e innovazione posiziona l’Italia rispettivamente al 49° e 35° posto (ai primi posti troviamo Svizzera, Singapore, Usa, Finlandia, Germania, Giappone, Olanda, Gran Bretagna, Svezia e Israele (Fonte Global Competitiveness Index 2014-2015). Il nostro Paese ha dei punti deboli che vanno affrontati con determinazione: servono, innanzitutto, visione e strategia di lungo termine, che portino a scelte chiare dei settori in cui l’Italia vorrà essere eccellente e trainante a livello mondiale. Per realizzare strategie credibili occorre interrogarsi su cosa si vuole essere fra qualche decennio. Senza pretesa di essere esaustivi, si possono fare delle ipotesi.

L’Italia potrebbe essere in futuro il Paese dove si vive più a lungo e si invecchia meglio, implicando scelte tecnologiche e di innovazione centrate sulle scienze della vita e le tecnologie per il welfare. Ancora, l’Italia potrebbe consolidare la sua posizione di potenza manifatturiera high-tech con investimenti ingegneristici e tecnologici di altissimo livello di tipo hardware. La rivoluzione digitale non sarebbe esistita, se non fossero state sviluppate le tecnologie hardware elettroniche ad altissima integra-zione. Un Paese avanzato deve detenere un primato hardware e poi sviluppare una forte economia dei servizi (legati al software). Infine l’Italia potrebbe essere una potenza mondiale delle tecnologie del cibo, dell’agricoltura e dei beni culturali. In questi settori dovrebbe quindi fare scelte forti di ricerca e sviluppo per garantire innovazione continua.

Tutto ciò richiederebbe un comparto ricerca competitivo a livello internazionale. La prima sfida è accettare il fatto che la formazione dell’innovatore deve iniziare già all’inizio della scuola, con scuole, educazione e divulgazione scientifica adeguate a stimolare la curiosità, con programmi al passo con i tempi e con una cultura di base più quantitativa di quella attuale. Il percorso deve poi continua-re con l’offerta di regole di selezione e reclutamento internazionali dei ricercatori e con valutazioni che seguono gli standard internazionali. La carriera del ricercatore deve essere più attrattiva e la cultura deve essere considerata non come un “centro di costo”, ma come un “investimento”.

È evidente che tutto questo richiede regole e standard internazionali. Inutile lamentarsi della fuga dei cervelli: se la carriera del ricercatore non è attrattiva, i bravi vanno via. E, se nello stesso tempo continuiamo a scrivere i bandi di reclutamento in Gazzetta Ufficiale in italiano, sarà difficile che qualche straniero venga in Italia. Quindi: cervelli italiani che vanno via e cervelli stranieri che non vengono. Serve perciò una burocrazia ragionevole, perché nella ricerca e nell’innovazione contano il merito, ma anche la velocità. La mobilità geografica deve essere favorita da salari ed infrastrutture adeguati. La mobilità sociale (la possibilità di crescere indipendentemente dalle proprie origini sociali) deve essere garantita da regole chiare e trasparenti di valutazione. Donazioni e investimenti in ricerca dovrebbero avere facilitazioni fiscali e dovrebbero servire a creare borse per i meritevoli, migliorando la mobilità sociale del Paese. Occorre, infine, costruire delle grandi infrastrutture logistiche, con campus e laboratori, sulla base della suddetta pianificazione nazionale, in modo da essere attrattivi rispetto agli altri Paesi e aumentare sostanzialmente il numero di sviluppatori, innovatori e ricercatori, sia nel pubblico sia nel privato. Tutto questo potrebbe diventare un forte attrattore per gli investitori nazionali e internazionali, ancor oggi restii ad investire nel nostro Paese, ed un forte acceleratore di crescita industriale.
Il motore è Milano

(Giuseppe Berta, Repubblica) Nel 2010, quando l’Italia era già ben dentro la crisi, le regioni che compongono l’area di Nord Ovest (Lombardia, Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta) registravano un Pil pro capite che superava di oltre il 21% la media del Paese. Di sicuro, nell’arco degli ultimi cinque anni le cose non sono cambiate e il divario semmai si è approfondito. Ma questo soprattutto perché la condizione del Mezzogiorno è sensibilmente peggiorata; e non tanto invece perché il Nord Ovest, che resta la parte economicamente più salda dell’Italia, abbia consolidato il proprio legame con le altre aree forti europee, alle quali è spesso paragonato. Anzi, come ci mostra con ricchezza di dati una ricerca della Banca d’Italia (Deindustrializzazione e terziarizzazione: trasformazioni strutturali nelle regioni del Nord Ovest, luglio 2015), il Nord Ovest sta affrontando con ritardo le sfide delle altre 19 aree industriali europee a cui esso appartiene.

Oggi lo sviluppo incrementale della conoscenza (knowledge economy) è ciò che fa girare la fabbrica come le professioni del terziario progredito, due ambiti che si alimentano alla medesima fonte. Il problema è che nelle aree forti d’Europa si è andati più avanti di quanto sia avvenuto nel nostro Nord Ovest, che pure concentra più risorse del resto del Paese. La ricerca della Banca d’Italia ci spiega, cifre e percentuali alla mano, che anche qui abbiamo meno “fabbriche intelligenti” di quante ne servirebbero al sistema produttivo e meno lavoratori di alta qualificazione di quanti ce ne vorrebbero per dare solidità e nervatura a un terziario vasto, ma troppo debole e sfrangiato. Altrove la terziarizzazione ha rafforzato molto la posizione professionale dei lavoratori più istruiti; al contrario, nel Nord Ovest le prospettive dei giovani <appaiono molto penalizzate: è maggiore la difficoltà di ingresso nel mondo del lavoro, più frequente la condizione di precarietà e più bassa la qualità dell’impiego>.

Qui si apre un tema che travalica dai confini in cui si colloca il bel lavoro della Banca d’Italia, ma riguarda ciò che è davvero il Nord oggi. Siamo proprio convinti che abbia ancora senso parlare di Nord Ovest? Se facessimo l’operazione di scorporare la Lombardia e il suo capoluogo da questo contesto territoriale, che rimarrebbe sul piano della configurazione economica? Non soltanto la Liguria e la valle d’Aosta, ma lo stesso Piemonte risultano oscurati dalla potenza di fuoco dell’apparato economico della Lombardia. I valori di questa regione e di Milano sono di entità tale da cambiare l’immagine di un Nord Ovest che si è ormai tramutato in una categoria astratta. La realtà è che il Nord Ovest e il Nord Est che abbiamo conosciuto e di cui abbiamo discusso a lungo non esistono più. Adesso il Nord è meno differenziato che in passato, più omogeneo, a Ovest come a Est, perché è di fatto una grande area padana che ha al suo centro una metropoli, Milano, divenuta centro catalizzatore delle sue risorse. Da un simile nuovo assetto e dalla sua percezione non può ormai prescindere nessun disegno di politica economica e territoriale.

La spesa degli enti locali

(Alberto Brambilla, Corriere) Quando si parla di ridurre la spesa pubblica degli enti locali, Comuni e Regioni, la reazione più frequente degli amministratori è che si dovrà ridurre il welfare offerto ai cittadini. Ma di quale welfare si tratta? Di quali prestazioni? In quali parti del bilancio pubblico figurano? E quanto costano? In realtà la risposta non c’è per il semplice motivo che nel nostro Paese manca una contabilità per centri di costo che indichi l’incidenza di queste spese. La dimensione degli 8.100 Comuni italiani è estremamente modesta: giusto per capirci i primi 1000 hanno in media meno di 300 abitanti, i secondi 1000 non arrivano in media a 550 abitanti, i terzi mille circa 1.250 abitanti, i quarti mille a meno di 2.000 abitanti. Parlando di efficienza amministrativa, immaginatevi un Comune tipo di 1.500 abitanti, con tre vigili urbani, due auto e un piccolo ufficio; solo per questo servizio che in termini di sicurezza vale zero (uno fa il primo turno, uno il secondo e l’altro è malato in ferie o a riposo), il costo è almeno di 150.000 euro. Proseguendo, i Comuni con almeno 10 mila abitanti (cifra minima per realizzare servizi) in Italia sono solo 1.100. Anche le regioni fanno acqua da tutte le parti; pensare nel 2015 di avere regioni come la Valle d’Aosta (129 mila abitanti), il Molise (315 mila), la Basilicata (578 mila), l’Umbria (896 mila), il Trentino Alto Adige (1.051 mila) o il Friuli Venezia Giulia (1.230 mila) che come abitanti totalizzano meno di un quartiere di Roma, è una vera follia in termini di spesa pubblica. Per ridurla e migliorare il welfare territoriale, ben coordinato con quello nazionale, occorrerebbe un’ampia revisione della organizzazione statuale con non più di mille centri territoriali: un insieme di Comuni che mantengono tuttavia i loro nomi e le tradizioni, ma hanno una amministrazione accentrata, unica elettiva che gestisce e organizza tutte le funzioni. E occorrerebbe avere non più di 10/11 regioni. E’ ovvio che solo un ente locale ben strutturato ha la possibilità di interagire in modo efficace sia con i cittadini sia sul fronte del monitoraggio delle spesa. Occorre inoltre un’anagrafe generale dei richiedenti le prestazioni di welfare presso l’Inps (dove c’è già l’anagrafe generale degli attivi e dei pensionati) con incroci fiscali. Ciò significa che gli enti locali, prima di erogare qualsiasi prestazione, dovranno disporre di un quadro completo della situazione economica del richiedente e dell’elenco dei sussidi, compresi quelli erogati da organizzazioni che beneficiano di contributi pubblici. Ad esempio l’uso intelligente della tessera sanitaria sulla quale sono registrate tutte le prestazioni fruite dal soggetto, potrebbe essere un indicatore per il pubblico, ma anche una informazione in più per i singoli e le famiglie.

Matematica e buonsenso

(Pietro Greco, L’Espresso) Il titolo del libro è: I numeri non sbagliano mai. La potenza del pensiero matematico. E’ un tomo di 580 pagine che Jordan Ellenberg – classe 1971, professore alla Università del Wisconsin – pubblica in questi giorni in Italia. Il primo esempio di potenza del pensiero matematico riguarda la storia di Abraham Wald che si occupa di matematica pura, ma risolve un praticissimo “problema dei fori mancanti” che arrovella i comandanti dell’aviazione americana nel corso della Seconda guerra mondiale. Il problema era questo: durante le loro incursioni sulle terre occupate dai tedeschi, gli aerei alleati erano colpiti dalla contraerea. Molti venivano abbattuti. Dunque, occorreva corazzarli. Ma dove inspessire la struttura? Non su tutto l’aereo, che sarebbe diventato lento e pesante. L’idea è: corazziamolo nelle parti più esposte. I generali presentano a Abraham Wald una serie di studi statistici sulla dispersione dei fori dei proiettili sugli aerei tornati alla base dopo una missione. Il maggior numero di fori si registra sulle ali e sulla fusoliera. Il minor numero sui motori. Corazziamo le ali e la fusoliera, ne deducono i generali. Eh no, risponde Wald. Corazziamo le parti che ospitano i motori. Perché i colpi si distribuiscono su tutto l’aereo in maniera più o meno analoga. Voi avete rivelato una maggiore presenza di fori sulla fusoliera e sulle ali negli aerei tornati alla base. Non avete considerato gli aerei colpiti al motore che, per questo, non sono più tornati. I colpi sulla fusoliera sono meno letali di quelli sul motore.

Dunque questo primo esempio offertoci da Ellenberg indica che la matematica è (oggi più che mai) “regina e serva” degli uomini, e anche dei militari. Segue un altro esempio su Theodore Roosevelt, presidente Usa dal 1901 al 1909. Ebbene, in un famoso discorso, Cittadinanza in una repubblica, tenuto a Parigi del 1910 Theodore Roosvelt parla con disprezzo delle anime fredde e timorose (come i matematici nelle loro accademie) che se ne restano in disparte e giudicano i guerrieri col senno di poi. <A me viene in mente Abraham Wald> scrive Ellenberg <che per quanto ne so trascorse l’intera vita senza mai sollevare un’arma e che tuttavia ebbe un ruolo importante nello sforzo bellico americano proprio consigliando a coloro che agivano come agire meglio. Non era coperto di sudore, di polvere e di sangue, ma i suoi consigli erano validi>.

Come Roosevelt sono molti, ancora oggi, a ritenere che la matematica pura e tutta la ricerca di base sia uno spreco di soldi a opera di fannulloni che perdono tempo camminando sulle nuvole. Non tengono conto, come dimostrato da molti economisti, non ultima l’italiana Mariana Mazzucato, che la quasi totalità della ricchezza prodotta negli Stati Uniti e nel mondo nell’ultimo secolo deriva dalla ricerca di base. Si dirà, ma la soluzione di Abraham Wald al problema dei generali non è matematica: è soprattutto buon senso. Ebbene sì, parafrasando proprio un generale, Carl von Clausewitz, diciamo che la matematica altro non è che l’estensione del buonsenso con altri mezzi. Il che ha una duplice implicazione: una riguarda noi tutti, perché se assumiamo un approccio matematico riusciremo ad applicare con naturale sistematicità il buon senso. Ma l’altra riguarda gli scienziati che fanno uso dei più sofisticati problemi matematici. Senza buon senso, gli algoritmi ci possono portare fuori strada.

Jordan Ellenberg consiglia di focalizzare l’attenzione su cinque concetti chiave per usare buon senso e matematica. I più significativi sono due. Il primo è quello della (non) linearità. Noi siamo abituati a ragionare in maniera lineare. Se X mi dà un beneficio, 2X mi darà un beneficio doppio. Questo tipo di approccio lo potete verificare seguendo un talk show in cui si parla di tasse. Da un lato i liberisti, che dicono che più abbassi le tasse meglio va l’economia. Dall’altra gli statalisti, che dicono che, più tasse ci sono, meglio si possono ridistribuire e combattere la povertà. In realtà quello della tassazione è un problema non lineare, come la gran parte dei problemi sociali. I benefici (o malefici) non aumentano in maniera lineare: non è vero che raddoppiando (o dimezzando) la tassazione i benefici aumentano in modo lineare.

E, dunque, bisogna trovare di volta in volta il punto ottimale, intermedio tra lo 0 e il 100 per cento. Dovrebbe essere questa l’arte (matematizzata) della politica. L’altro consiglio strategico di Ellenberg è quello di incertezza. Non è vero che la matematica è il regno della certezza. Diffidate di chiunque, matematico o no, esordisce col dire <ho la certezza assoluta che…>. Al contrario viviamo in un mondo in cui non controlliamo tutte le variabili. E, dunque, intrinsecamente incerto. Quello che possiamo è costruire scenari affidabili di probabilità. Quanto è probabile che aumenti la temperatura? Che contrarrò il cancro se fumo? Che Hillary Clinton vinca le presidenziali americane? In questo la matematica ci aiuta. A imparare a muoverci nel mondo dell’in-certezza.

Il nababbo di Treviso

(Mario Giordano, commenta il suo ultimo libro, “I pescecani”) Possiede 163 motociclette, 155 bici da corsa, 70 fra yacht e motoscafi e 493 auto, compresa la Jaguar di Diabolik. Tutto gelosamente custodito in una decina di capannoni. Collezionismo estremo: per soddisfarlo, ha sottratto 40 milioni di euro alle banche e messo 700 dipendenti sulla strada. Il suo mito? Il re dei paparazzi Fabrizio Corona. La sua vita? Una cavalcata tra eccessi, belle donne e champagne. Le tasse? <Una parola complicata> Si sente un evasore? <Dov’è il problema? No go copà nisun>. Eccoli qui i pescecani, quelli che negli ultimi anni si sono arricchiti alle spalle degli italiani che tiravano la cinghia. Pare che siano sempre di più, e i dati parlano chiaro: la crisi non ha aumentato solo le differenze tra ricchi e poveri, ma anche la percentuale di chi fa soldi in modo illegale. E il rischio è che, voraci come sono, i pescecani si stiano impadronendo del Paese. Che siano proprio loro a comandare, del resto, è apparso evidente quando è saltato il tappo della Cupola di Roma. E a chi chiede perché i problemi non si risolvono, ecco spiegata la ragione: perché ci sono loro, i pescecani, che nei nostri problemi ci sguazzano. E fanno soldi. Molte delle storie che leggerete in queste pagine vi faranno arrabbiare. Molte vi faranno sorridere. Molte vi sembreranno così assurde da non essere vere. Invece è tutto documentato, fino all’ultima virgola. Verrebbe da aggiungere: purtroppo. C’è il professore della Bocconi che vende hotel e palazzi che non ha; c’è il faccendiere pasticcione che si mette in posa con i vip, nascondendo 234 assegni a vuoto. E poi ci sono i banchieri, i signori della corruzione (dall’Expo al Mose), i re degli appalti romani e il rampollo così spudorato da filmarsi mentre consegna la tangente. Questo libro è il racconto incredibile e drammatico di un pezzo di realtà italiana che sta crescendo e forse ci sfugge, ma su cui tutti dovremmo riflettere e intervenire. Non possiamo, infatti, far finta di non vedere che i furbi stanno vincendo la loro storica lotta con i fessi. Che non c’è angolo della nostra meravigliosa Italia in cui, accanto a tante persone perbene, non si rischi di trovare il pescecane di turno. Bisogna imparare a conoscerli per difendersi. A combatterli. Queste pagine sono una specie di vaccino, un antidoto. Una legittima difesa per impedire che i pescecani si mangino tutto. Perché è lecito che ognuno speri di salvarsi facendo il furbo. Ma nessun Paese in mano ai furbi può sperare di salvarsi.

Curiosità

Pourquoi les bouteilles de vin font-elles 75 centilitres et non un litre? La contenance de la bouteille de vin a été standardisée au 19ème siècle et depuis les théories les plus folles sont nées de cette mesure singulière. Selon les théories, cela correspondrait à: 1. La capacité pulmonaire d’un souffleur de verre. 2. La consommation moyenne lors d’un repas. 3. Une meilleure façon de conserver le vin. 4. Une facilité de transport. La réponse, en verité, n’est dans aucune de ces théories, et encore moins dans la législation française ou européenne. Il s’agit tout simplement d’une organisation pratique et historique. A cette époque, les principaux clients des viticoles français étaient les Anglais. Mais nos voisins britanniques n’ont jamais eu le meme système de mesure que nous. Leur unité appelé “gallon impérial” valait précisément 4,54609 litres. Pour éviter un casse-tête dans la conversion, ils transportaient le Bordeaux en barriques de 225 litres, soit 50 gallons, en arrondissant. Et 225 litres correspondent à 300 bouteilles de 75 centilitres. 300 est un chiffre plus aisé pour faire des calculs que 225. On avait donc: 1 barrique, 50 gallons, 300 bouteilles. Ainsi un gallon valait 6 bouteilles. C’est d’ailleurs pourquoi, aujourd’hui encore, les caisses de vin sont la plupart du temps vendues par 6 ou 12 bouteilles. Voilà et ne me remerciez pas car, depuis le temps que vous buvez du vin, et du champagne, vous auriez dû le savoir! (Dalla Rete)

Incontro

Rencontre entre Chaplin et Einstein : <Ce que j’admire le plus dans votre art> dit Albert Einstein <c’est votre universalité. Vous ne dites pas un mot, et pourtant… le monde entier vous comprend>. <C’est vrai> réplique Chaplin <mais votre gloire est plus grande encore : le monde entier vous admire, alors que personne ne vous comprend> (Dalla Rete)

lorenzo.borla@fastwebnet.it

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