(Anselmo del Duca, ilsussiario.net) O la va o la spacca. Settembre sarà il mese della verità per Matteo Renzi. I nodi stanno per venire al pettine, e saranno tantissimi. All’orizzonte del governo si profila un ingorgo parlamentare senza precedenti. Una sfida tutta politica che, se non dovesse essere vinta, porterebbe dritto alle elezioni anticipate. Che l’eventualità non sia peregrina lo dimostra una pluralità di segnali. Delle urne, nell’entourage del premier, si parla apertamente da settimane, ma l’inner circle renziano sembra diviso quasi in parti uguali fra favorevoli e contrari. Che lo stesso Renzi prenda in seria considerazione l’ipotesi è dimostrato però anche dai suoi impegni pubblici. Un anno fa disertò sia il Meeting di Rimini, sia il convegno Ambrosetti di Cernobbio. Quest’anno, dopo il discorso al popolo di CI si prepara a tenerne un altro, che si preannuncia non meno importante, al gotha della finanza italiana riunito, come vuole la tradizione, sulle rive del lago di Como nel primo week-end di settembre. Sul programma la presenza del premier è ancora “da confermare”, ma è data praticamente per certa. E in mezzo, fra Rimini e Cernobbio, l’avvio da Pesaro del tour dei cento teatri per spiegare le realizzazioni del governo. Prove tecniche di campagna elettorale, insomma. Dalla prima settimana di settembre, intanto, si torna a battagliare in parlamento, prima nelle commissioni, poi in aula, su una fittissima agenda di argomenti cruciali. Dicono i bene informati che nessuna decisione sia stata ancora presa, e che molto dipenderà dalle circostanze. Se la minoranza democratica troverà il coraggio di sbarrare per davvero la strada al disegno di legge Boschi di riforma della Costituzione l’effetto sarà immediato e duplice: la scissione nel Pd e le lezioni anticipate. Ma si tratta solo dell’extrema ratio. Pare che il premier vada ripetendo da giorni lo stesso ragionamento che suona più o meno così: non hanno i numeri, non hanno un progetto alternativo e in più — o forse soprattutto — non hanno un leader. Né leader credibili e a lui alternativi possono essere considerati Massimo D’Alema e Romano Prodi, che non hanno lesinato negli ultimi giorni punture di spillo a Palazzo Chigi, ma che dal quartier generale renziano vengono considerati poco più che fastidiosi lacerti del passato. Il futuro è però irto di ostacoli, anche perché la politica dei rinvii praticata prima dell’estate ha fatto sì che i problemi si accatastassero in parlamento uno sull’altro. Non solo le riforme, ma anche le unioni civili su cui frenano i centristi, la riforma dell’ordinamento giudiziario con annesso il tema sempre rovente delle intercettazioni telefoniche, la Rai, la riforma della cittadinanza, quella della rappresentanza sindacale, con le tre maggiori confederazioni già sulle barricate. Il terreno più delicato rischia però di essere quello della legge di stabilità. Nelle intenzioni del premier dovrebbe essere il tassello centrale della spinta per il rilancio dell’economia. Ma quanto l’impresa sia difficile si è visto proprio a Rimini, quando Renzi ha promesso un sensibile taglio della pressione fiscale e il suo ministro Padoan giusto 24 ore dopo ha spento sul nascere ogni entusiasmo, spiegando che la riduzione ci potrà essere, ma solo in presenza di corrispondenti tagli alla spesa pubblica. Prudenza, quindi, anche perché scossoni sui mercati internazionali come quello partito dalla Cina in pieno agosto con il crollo della borsa di Shangai non possono far dormire a nessuno sonni tranquilli.
Tassa e spendi
(Angelo Panebianco, Corriere) Sono dunque le tasse, il terreno politico ed elettorale che Renzi ha scelto per affrontare i suoi avversari. Se riuscirà ad abbassarle non marginalmente, consoliderà la sua leadership alla testa di una sinistra radicalmente rinnovata, forse capace anche di attrarre porzioni di quelle classi medie indipendenti (imprenditori, professionisti, commercianti, artigiani) tradizionalmente ostili alla sinistra. Sulle spalle del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ricadrà l’arduo compito di reperire le risorse necessarie. Ma sbaglia chi crede che in gioco ci sia solo una questione di risorse. Più delle riforme istituzionali, forse anche più della scuola, le tasse toccano il cuore identitario della sinistra per come l’abbiamo da sempre conosciuta. La promessa di abbassarle coincide con la più grave minaccia a quella identità.
Apparentemente, ciò accade solo per la nota ragione secondo cui, finito il comunismo, azzerati i grandi ideali, morta l’utopia, la sinistra si era ridotta, sotto il profilo identitario, a due cose: l’ideologia dei diritti civili e l’imperativo del “tassa e spendi” rivendicato come garanzia di ridistribuzione del reddito e di equità sociale. Renzi promette di preservare l’ideologia della difesa dei diritti, ma anche di mettere fuori gioco l’imperativo del tassa e spendi, il piatto forte, il cuore identitario della sinistra. Può essere tutto meno che un’operazione indolore. Anche perché al di sotto del principio del tassa e spendi c’è una visione del mondo, così radicata che molti non ne sembrano nemmeno consapevoli. Quando il segretario della Cgil Susanna Camusso propone di abbassare l’età pensionabile, mandare prima le persone in pensione per lasciare i loro posti ai giovani, sta precisamente parlando a coloro che condividono una particolare visione del mondo, una visione che apprezza le società statiche, per non dire immobili, che teme il dinamismo e l’innovazione più di ogni altra cosa.
Chi ha fatto proprio l’ideale di una società statica, pensa alla ricchezza e al lavoro come un gioco a somma zero: si deve togliere più soldi all’uno (il più ricco) per darli all’altro (il più povero), si deve mandare in pensione Tizio (il più anziano) per lasciare il posto a Caio (il più giovane). Non si tratta mai di ampliare la torta, ma di mantenerla inalterata tagliando diversamente le fette. È questa mentalità, propria di tanti, una parte dei quali nemmeno è consapevole di averla, che sta dietro all’imperativo del tassa e spendi e, quindi, all’identità di una parte rilevante della sinistra. È questa mentalità che alimenta l’ideale di una società composta prevalentemente da impiegati pubblici, e nella quale il mercato sia tenuto a bada, al suo posto, in condizioni di non nuocere, di non dare libero sfogo ai suoi impulsi più “eversivi” e aggressivi: poiché è proprio del mercato di essere la principale fonte dell’innovazione e del dinamismo sociale.
Esattamente ciò che da sempre la sinistra esorcizza bollandolo come “liberismo selvaggio”. Si capisce che la sinistra odi tanto Renzi: sta aggredendo, e forse distruggendo, un pezzo alla volta, il loro universo simbolico, il loro mondo statico. Forse ha anche capito meglio di loro che cosa è successo negli stessi strati sociali che sono stati per decenni il tradizionale serbatoio elettorale della sinistra: lì, ad esempio, ci sono persone di estrazione popolare (con la casa di proprietà) sempre meno disponibili a prendere per buona l’ideologia del tassa e spendi e ciò che essa sottintende. Se queste persone risulteranno essere molte la scommessa di Renzi verrà forse vinta.
Il M5S attacca Comunione e Liberazione
(Repubblica) Ha attaccato Comunione e Liberazione in casa propria, dal palco del Meeting di Rimini dove era stato invitato e si presentava come primo relatore grillino della storia. Mattia Fantinati, deputato del M5S, ha sorpreso tutti. Davanti a una platea che lo ascoltava sconcertata, ha lanciato la sua invettiva: <Oggi, proprio onestamente, sono qui per denunciare come Comunione e Liberazione, la più potente lobby italiana, abbia trasformato l’esperienza spirituale morale in un paravento di interessi personali, finalizzati sempre e comunque a denaro e potere>.
Un intervento durissimo, sulla scia delle posizioni che avevano visto il mondo grillino ribattezzare Cl come “Comunione e fatturazione”, oppure “Comunione e corruzione”: <Negli anni – ha tuonato Fantinati – avete generato un potere politico capace di influenzare sanità, scuole private cattoliche, università e appalti. Sempre dalla parte dei potenti, sempre dalla parte di chi comanda. Sempre in nome di Dio>. E ha ricordato i rapporti con la politica del passato: <Avete applaudito un prescritto per associazione mafiosa, pace all’anima sua: Giulio Andreotti. Non credo perchè andasse in chiesa ogni mattina ma perchè egli rappresentava una visione politica assolutamente in linea con la vostra: l’inciucio sempre e comunque ed a tutti i costi, pur di allargare la propria cerchia di alleati che un giorno sarebbero potuti tornare utili per il proprio tornaconto, dentro e fuori alle stanze della politica>.
Ma Fantinati non si è fermato alla Prima Repubblica: <Dopo il Giulio nazionale avete osannato il suo rampollo Silvio. Sulla scia di Berlusconi avete steso tappeti rossi per il “celeste” Formigoni, finito sotto processo per corruzione a causa di tangenti multi-milionarie sulla sanità lombarda. A suon di vacanze pagate da lobbisti senza scrupoli si ritrova ora indagato con l’accusa di aver distribuito appalti a destra e a sinistra ai soliti amici della casta, ma forse sarebbe più giusto chiamarla cosca. Caduto in disgrazia Formigoni, vi siete girati verso il governo caratterizzato dall’inciucio, prima quello di Letta e poi di Renzi, sostenuti dalla stessa maggioranza. Ora che avete perso anche vostri due ministri, il premier mai eletto, accortosi che i boy-scout sono troppo giovani per votare e che oramai non ha più il consenso dell’anno scorso, viene qui a ricevere la vostra benedizione baciando pantofole e anelli>.
<Non esiste una politica cristiana – ha detto Fantinati – esiste un cristiano che fa politica. Il M5S si indigna che si possa strumentalizzare in questo modo tanta brava gente e credenti cattolici>. E denuncia: <C’è un sottobosco di persone di Comunione e Liberazione, che di cattolico non hanno nulla, tanto meno di senso civico. Non sorprende più ormai come tra voi si possa trovare Don Mauro Inzoli detto “don Mercedes” oppure come il vostro nome possa finire legato agli scandali di Mafia Capitale tramite la Cooperativa Bianca “La Cascina”: siete l’immagine di una Chiesa privata, che, ogni anno, forte del suo bacino di voti, si ritrova qui a parlare di valori cristiani e dell’amicizia, ma ne esce rinnovata negli affari>.
Mugugni e qualche fischio sono partiti dalla platea. A calmare gli animi è stato Raffaello Vignali, deputato di Alleanza popolare ed ex presidente della Compagnia delle opere, il braccio economico di Cl. È stato lui poi a rispondere: <La prova che Cl non è quello che dice Fantinati è nel fatto che il movimento permette di invitare al Meeting chiunque, anche chi è contrario>. E ha aggiunto un invito <da amico, a fare un giro per i padiglioni: parla con i volontari – ha detto rivolgendosi al collega M5S – molti sono disoccupati e lavorano qui gratis. Così magari potrai giudicare. Invece di pensare di avere la patente della purezza, noi non abbiamo paura di dialogare anche con chi pensa di avere la verità in tasca>
La volatilità delle casacche
(Carlo Bertini, La Stampa) I cambi di casacca, cioè i passaggi da un gruppo parlamentare ad un altro, sono raddoppiati in questa legislatura: come testimonia un’analisi stilata dal sito Openpolis, che prende spunto dall’ultima sigla in ordine di arrivo, Alleanza Liberalpopolare/Autonomie (verdiniani). La nuova sigla (dal nome improbabile) porta il numero dei salti della lepre a 290 tra Camera e Senato. In due anni di legislatura sono spuntati quattro nuovi gruppi politici, il Nuovo Centrodestra di Alfano, Per l’Italia di Lorenzo Dellai (sorto dalla diaspora dei montiani di Scelta Civica), Conservatori e Riformisti Italiani che fanno capo a Raffaele Fitto, e il gruppo di Verdini. La speciale classifica vede al Senato 148 cambi di casacca, circa la metà dei senatori, e alla Camera 142. La media è di 10,7 cambi al mese, più del doppio rispetto alla scorsa legislatura dove la media era di 4,5 uscite mensili.
La volatilità delle Borse
(Mario Deaglio, La Stampa) A cosa è dovuto il caos che si sta verificando nelle Borse mondiali? Perché sta succedendo tutto questo? E, dobbiamo preoccuparci? A domande chiare e nette non sempre è possibile rispondere in maniera chiara e netta, ma occorre per lo meno provarci, ben sapendo di trovarci di fronte a un intreccio di cause economiche, finanziarie e politiche. E la risposta sintetica è che è in atto un processo di disgregazione del sistema economico globale sorto sulle ceneri della Guerra Fredda. In luogo di un primato americano, universalmente riconosciuto, sono in corso tentativi di organizzazione autonoma di grandi regioni economiche; è finita la concertazione delle banche centrali.
II commercio internazionale, apparentemente libero, è in realtà ostacolato da un ginepraio di accordi preferenziali; il sistema della finanza internazionale è stato intaccato dagli scandali. Può sembrare un quadro apocalittico ma non è necessariamente così. Non si può passare senza scosse da un vecchio ordine che ha fatto il suo tempo a un nuovo ordine che nessuno conosce ancora. Viviamo in un tempo post-globale, caratterizzato necessariamente da confusione e incertezza, in un periodo di “distruzione creatrice” per usare i termini di Schumpeter. L’innovazione è un processo doloroso: non si può, per citare un proverbio inglese, fare una frittata senza rompere le uova.
Non si può negare che le Borse abbiano dato una spinta decisiva all’ordine globale attuale, abbiano sostenuto lo sviluppo delle innovazioni che hanno modellato la nostra vita (Google, Apple, Microsoft, Facebook, tanto per fare qualche nome, sono nate come piccole imprese che le Borse hanno saputo valorizzare). Il vero interrogativo è se possono essere anche lo strumento adatto per governare l’economia nuova che comincia a profilarsi e che inevitabilmente porterà a gigantesche riorganizzazioni basate sulle reti elettroni-che, destinate a rivoluzionare in tempi abbastanza brevi (10-15 anni al massimo) servizi come l’istruzione, la sanità, la gestione del traffico e altro. La risposta è: solo in parte. Senza l’apporto di un quadro politico chiaro, interno e internazionale, le imprese non sanno bene quanto investire e in che cosa investire.
Riforma della Pubblica amministrazione
(Michele Ainis, Corriere) L’Italia cambia pelle, anche se gli italiani non si spellano le mani per l’applauso. Cambia la sua geografia istituzionale, sia nelle istituzioni politiche sia in quelle burocratiche, economiche, sociali. Il nostro premier riuscirà più o meno simpatico, ma di sicuro sta spingendo sull’acceleratore. Il governo Renzi ha superato la boa dei 500 giorni, e in quest’arco temporale ha messo sotto tiro la scuola, la Pubblica amministrazione, la Rai, il mercato del lavoro, le prefetture, le Camere di commercio, le Province. E, ai piani alti del sistema, la legge elettorale, il Senato, le competenze delle Regioni. Con quali effetti? C’è una direzione, c’è una parola d’ordine che riassume questa epopea riformatrice? Le paroline sono tre: verticalizzazione, unificazione, personalizza-zione. Nelle scuole comanderà un super dirigente, con poteri di vita e di morte sui docenti. Alla Rai un superdirettore, con le attribuzioni dell’amministratore delegato. Nelle imprese il Jobs act, allentando i vincoli sui licenziamenti, rafforza il peso dei manager.
Diventano licenziabili anche i dirigenti pubblici, sicché il capogabinetto del ministro regnerà come un monarca. Nel frattempo viene destrutturato il territorio, nei suoi antichi puntelli istituzionali. Che dimagriscono nel numero (è il caso dei prefetti); e nelle competenze (e qui tocca alle Regioni, con la rivincita dello Stato centrale). Oppure saltano del tutto (come succede alle Province). Così l’onda di piena sommerge i poteri intermedi, non meno dei corpi intermedi. Disintermediazione, ecco l’altro slogan della nuova stagione. Ne sanno qualcosa i sindacati, ormai fuori dalla stanza dei bottoni. Anche i partiti, però, hanno smarrito la loro primazia. Rispondono forse alle direttive d’un partito Crocetta o De Luca, Emiliano o Zaia? No, la leadership dei governatori poggia su un consenso individuale, è la riproduzione su scala locale del filo diretto tra leader nazionale ed elettori. Anche perché tutte le istituzioni collegiali sono in crisi. Vale per i consigli regionali come per quelli comunali, vale per il Consiglio dei ministri, che per lo più si limita a timbrare decisioni già annunziate in conferenza stampa.
E vale, da gran tempo, per le assemblee parlamentari: Che in questa legislatura si sono spappolate come maionese: Forza Italia si è divisa in tre, il Partito democratico ospita due truppe, l’una contro l’altra armate, i 5 Stelle hanno subito un’emorragia fluviale, dentro Scelta civica s’è ripetuto l’esperimento di Hiroshima: la scissione dell’atomo. La frantumazione dei gruppi parlamentari non parrebbe un intralcio all’attivismo del governo. I conti, qui, si faranno alla fine. Ma la concentrazione del potere sarà probabilmente la regola futura, se non è regola già adesso. Con l’unificazione delle Ca-mere, attraverso l’abolizione sostanziale del Senato. E con il premio dell’Italicum: al partito, dunque al partito personale, dunque personalmente al Capo. E da lui giù verso i tanti capetti che stanno per mettere radici nel paesaggio delle nostre istituzioni. Offrendo (almeno in apparenza) una ragione postuma a Gaetano Mosca e a Wilfredo Pareto, che un secolo fa avevano pronosticato la deriva oligarchica delle democrazie. Ma con il dubbio che sempre a quel tempo inoculò Max Weber, nella sua conferenza sulla scienza: <Il profeta, che tanti invocano, non c’è>.
Che pena la giustizia
(Sabino Cassese, Corriere) Qualcosa si muove nella giustizia. Le riforme avviate nel giugno 2014, articolate in dodici punti, dopo una pubblica consultazione, stanno dando qualche magro frutto: calo dell’arretrato civile, tempi più brevi dei processi. Ma la china da risalire è erta. Il contesto è difficile. La qualità delle leggi pessima (ma nessuno se ne fa carico). Gli avvocati troppi (ma continuano ad aumentare). Il Consiglio superiore della magistratura dominato da gruppuscoli denominati correnti (ma non c’è accordo su niente). La Cassazione intasata da un numero abnorme di ricorsi (ma le proposte di soluzione troppo timide). I magistrati troppo leggeri nel limitare la libertà personale (la Scuola della magistratura non dovrebbe fare qualcosa per insegnare che la detenzione cautelare, senza processo, va usata in casi estremi?). Troppe le carriere politiche di magistrati in carica e troppe le loro esternazioni (mentre il Consiglio superiore della magistratura sta a guardare).
Eccessiva la tendenza di procure e corti a dettare l’agenda della politica e a stabilire i criteri della politica industriale, quasi fossero la coscienza del Paese (Perché il Consiglio non fissa linee guida non vincolanti, come fa negli Stati Uniti il Dipartimento di giustizia, e perché la Scuola della magistratura non promuove il ricorso all’analisi economica del diritto?). Palese l’inadeguatezza – con l’eccezione di alcune importanti procure – del contrasto alla criminalità organizzata. La criminalità organizzata si è diffusa in vaste aree del territorio nazionale (non varrebbe la pena di fare una analisi sulla preparazione di chi dirige le investigazioni, comprese le forze di polizia?). Sproporzionato il posto, che il sistema giudiziario è venuto ad occupare nella vita civile, se rapportato al suo fallimento come erogatore del fondamentale servizio della giustizia (qui occorrerebbe una analisi distaccata e imparziale, alla quale tutti possano partecipare, promossa dal Parlamento). Al fondo, la crisi della giustizia in Italia non sta tanto nell’enorme numero di cause non decise e nei tempi dei processi, ma nel fatto che tutto ciò ha prodotto una vera e propria fuga dalla giustizia, a causa della sfiducia nei suoi tempi.
Non vengono da ultime, in questo quadro, le proposte, recentemente ribadite, relative ad intercettazioni, carcerazione preventiva e separazione delle carriere. Prima ancora della loro divulgazione, è l’uso a volte eccessivo delle intercettazioni (specialmente di quelle indirette) come mezzo di prova che andrebbe disciplinato, ricordando che, secondo la Costituzione, la segretezza delle comunicazioni è inviolabile. La carcerazione preventiva è stata talvolta usata come mezzo di pressione, per ottenere ammissioni di colpa, anche qui mostrando le debolezze investigative nella raccolta documentale di prove. Per quanto la sua importanza sia diminuita dopo la distinzione funzionale, la separazione delle carriere, ambedue con indipendenza garantita, è dettata molto semplicemente dal fatto che accusa e giudizio sono mestieri diversi, che richiedono preparazione e professionalità differenti. Il Governo italiano ha finora avuto giudizi molto negativi dalla Corte di Strasburgo, ma apprezzamenti sia dai commissari europei per le iniziative intraprese nel campo della giustizia, sia dal Consiglio d’Europa per la produttività dei giudici. Tuttavia il tempo passa e risultati più consistenti sono attesi, non solo dai cittadini, ma anche dall’Unione Europea e dal Consiglio d’Europa.
Michele Franci
(Fabio Cavalera, Corriere) Uno scrittore in meno. E uno scienziato in più. Michele Franci, quando frequentava il liceo scientifico, meditava di iscriversi a Lettere, anche <grazie al mio bravissimo professore di italiano e latino>. All’ultimo, la sua vecchia passione per i modellini di aereo e la tradizione di famiglia Io convinsero che Ingegneria al Politecnico di Milano sarebbe stata la strada giusta. Risultato: alle ore 12.44 di venerdì 29 agosto, alla base di lancio in Kazakistan accende i motori il razzo che colloca in orbita, a 35 chilometri e 786 metri sopra le nostre teste, il terzo satellite Global Xpress della società svizzera Inmarsat. È l’ultimo anello della rete invisi-bile che avvolgerà il pianeta, escluse solo le calotte polari, e che ci regalerà la possibilità di comunicare, trasmettere dati e riceverli con grande rapidità attraverso telefonino, tablet e computer, in ogni angolo della Terra e del cielo. Un miliardo e mezzo di dollari di investimenti. Direttore del progetto l’ingegnere aerospaziale Michele Franci, numero uno, chief technology officer, della Inmarsat.
Enfatizzare questa impresa è un rischio. Allora per mettere a fuoco ciò che accadrà dall’inizio del prossimo anno quando ogni sofisticato ingranaggio si metterà a funzionare a pieno regime, è utile affidarsi a qualche esempio: <Che cosa diventerà possibile? Usare Internet in aereo. Alcune compagnie lo stanno già sperimentando ma, durante il volo, scaricare un film sul proprio computer sarà facilissimo e immediato. Così pure si parlerà con la famiglia a casa o si recupererà qualsiasi documento dalla Rete. Insomma, cambia tutto nella comunicazione mobile superveloce. Che si stia volando oppure che si stia viaggiando in mezzo al deserto su una jeep o che si stia navigando nell’oceano>. Si superano le barriere del tempo, del movimento, dell’isolamento. La qualità della connessione mobile, ad uso commerciale e civile, compie un salto. Servirà a noi semplici cittadini in giro per il mondo, servirà alle aziende, servirà ai governi. I dati e le immagini viaggeranno ovunque in pochi centesimi di secondo. Coprendo i buchi dove Internet cade o non c’è. Le infrastrutture tecnologiche Io permetteranno.
Elenchi telefonici
(Corinna De Cesare, Corriere) Abbandonati per le strade, andati al macero. Lasciati, nel migliore dei casi, a prender polvere sulle mensole delle librerie casalinghe come oggetti vintage. Qualcuno li ha messi all’asta su eBay, qualcun altro, su YouTube, si è inventato il modo per trasformarli in palline di Natale, ottenendo anche un discreto seguito (oltre 20 mila visualizzazioni). Eppure ben 21 milioni di italiani, nell’era di internet continuano a ricevere a casa gli elenchi telefonici. Un servizio che non è affatto gratuito perché la cifra sborsata da ciascun utente, decurtata direttamente in bolletta, varia a seconda degli operatori e può arrivare fino a 2,54 euro l’anno. Spiccioli, si dirà, ma che moltiplicati per 21 milioni di italiani possono arrivare alla ragguardevole cifra di 50 milioni di euro. Tanto più che ora, dopo vent’anni, anche Telecom ha deciso di passare il servizio, dal 1 ottobre, da 1,17 a 2,50 curo l’anno. Con l’obiettivo, dichiarato, di disincentivare quella che ormai sta diventando un’abitudine rétro. Non solo dagli utenti, ma anche per lo spreco di carta, come dimostrano le colonne di elenchi ammassate sotto i citofoni agli angoli delle città. In passato la spedizione delle rubriche rientrava nei servizi universali di pubblica utilità come le comunicazioni postali, la fornitura di energia elettrica e così via. Poi, alla buon’ora, un decreto legislativo del 2012 ha escluso la spedizione dagli obblighi di fornitura da garantire alla collettività. Eppure gli elenchi continuano ancora oggi ad arrivare, puntuali, anche nelle case di quegli italiani che non li consultano più. Come mai? Un motivo c’è: per essere esclusi dal servizio bisogna fare esplicita richiesta di disattivazione. Con procedure che da tempo, garantiscono alcune fonti, sono finite sotto la lente di ingrandimento dell’Agcom per scarsa trasparenza. Cinque mesi fa l’Antitrust è arrivata a coinvolgere in tre procedimenti Vodafone, Wind e Telecom proprio per <l’omissione informativa sulla possibilità di rinunciare alla fornitura degli elenchi e quindi all’addebito in bolletta dell’importo relativo>. Wind è stata sanzionata con una multa da 195 mila euro <per la pratica commerciale relativa ai vecchi abbonati e poi ai nuovi, per i quali l’operatore non prevede l’acquisizione del consenso espresso al pagamento di un costo supplementare per il servizio di distribuzione degli elenchi>. Telecom ora aumenta il costo del servizio ma promette il rimborso totale a chi rinuncia alla consegna dell’elenco telefonico entro il mese di settembre. Compresi gli utenti, da Bari a Cagliari, da Milano a Firenze, che lo hanno già ricevuto a partire dagli inizi dell’anno pagando la vecchia tariffa. E per ogni disdetta del servizio promette la piantumazione di un albero.
Citazione
Il miliardario inglese Richard Goldsmith aveva una anziana moglie a Londra e una giovane amante a Parigi. Un amico un giorno gli disse: <Scusa, visto che tutti sanno della tua relazione, perché non lasci tua moglie e sposi la ragazza?> <E perché dovrei?> rispose Goldsmith <per creare un altro posto di lavoro?> (Dalla rete)
lorenzo.borla@fastwebnet.it