(Alberto Mingardi, La Stampa) La decrescita poco felice del Sud non fa notizia. Il dualismo economico, ovvero la compresenza di due Italie che hanno diversi livelli di sviluppo e diversi tassi di crescita non è una scoperta dell’ultimo rapporto Svimez. E’ stata la normalità della nostra storia. Se il problema è lo stesso, bisognerebbe cercare soluzioni diverse. Quelle provate sin qui non hanno funzionato. Eppure, il catalogo di proposte dei meridionalisti di professione purtroppo è sempre uguale: “politica industriale”, “investimenti”, “infrastrutture”, ovvero soldi, soldi, soldi. Il dibattito somiglia a quello sugli “aiuti allo sviluppo” del cosiddetto Terzo mondo: per anni si è pensato che la chiave della crescita stesse nell’avere tanti quattrini per finanziare tanti progetti. E’ chiaro che qualsiasi progetto dev’essere, a un certo punto, “finanziato”. Ma se la globalizzazione c’insegna qualcosa, è che i capitali arrivano quando un Paese si attrezza per attirarli. Nessuno l’ha detto meglio di Adam Smith: <Per crescere serve poco altro se non pace, tasse accettabili e una tollerabile amministrazione della giustizia>.
Molti Paesi, negli ultimi vent’anni, hanno provato a darsi <tasse accettabili e una tollerabile amministrazione della giustizia>. Questo però non succede laddove resta forte la cultura della dipendenza dagli “aiuti”. E’ il caso del Mezzogiorno. Il residuo fiscale – cioè la differenza fra quanto un cittadino riceve in spesa pubblica e quanto paga in tasse, nelle regioni del Nord (salvo quelle a Statuto speciale) è pesantemente negativo. In quelle del Sud è fortemente positivo: secondo una ricerca della Banca d’Italia di alcuni anni fa, è pari a circa una volta e mezzo l’Irpef pagata dai cittadini meridionali. Come se, per ogni euro di imposte pagate, ciascun cittadino meridionale ne ricevesse due e mezzo in termini di spesa pubblica. Questo costante flusso di denaro non ha fatto bene, in tutta evidenza, ai suoi beneficiari. Ha contribuito a distorcere sistematicamente l’allocazione delle risorse. Stato ed enti pubblici hanno continuato ad offrire salari coerenti con le condizioni del mercato del lavoro del Centro-Nord, ben più alti cioè di quelli che offrirebbero le imprese private. I talenti migliori cercano un impiego pubblico; il settore privato, di conseguenza, latita.
Al Sud c’è ovviamente più offerta che domanda di lavoro. Perché si ritrovino in equilibrio, assumere dovrebbe diventare più conveniente: che vuol dire che il prezzo del lavoro dovrebbe essere più basso. La politica salariale del settore pubblico, però, frena questo fenomeno – e così fanno, comprensibilmente, i sindacati. In queste condizioni di assenza di lavoro, l’emigrazione è una soluzione ragionevole dal punto di vista individuale (tutti sperano di migliorare la propria condizione) e per di più auspicabile dal punto di vista collettivo, perché contribuisce a ridurre lo squilibrio fra offerta e domanda di lavoro. I governi hanno di volta in volta sopperito con progetti di “politica industriale” volti a trapiantare artificiosa-mente aziende nel Meridione. I privati – esattamente come avvenuto spesso con le imprese dei Paesi ex colonizzatori nelle ex colonie – hanno resistito finché c’erano sussidi da mungere. Dal riproporre queste vecchie ricette non può venire nulla di buono. Il Mezzogiorno non ha bisogno di aiuti: ha bisogno di essere messo in condizione di “aiutarsi”. A tutta l’Italia serve più libertà economica, ma al Sud ancor più che al Nord. Altrimenti la questione meridionale rischia di essere un eterno ritorno: s’invoca più spesa pubblica per stimolare quello sviluppo che la spesa pubblica non è stata sin qui in grado di stimolare.
La Sicilia
(Aldo Penna, Circolo Rosselli) Dopo la tempesta nel bicchier d’acqua originata dalla presunta telefonata tra il presidente della Regione siciliana, Rosario Crocetta, e il dottore Matteo Tutino, resta per intero il dramma siciliano cui la stampa nazionale, così pronta a riempire pagine sulla trascrizione di una intercettazione, non dedica un rigo. La lunga crisi che ha devastato il potere d’acquisto delle famiglie, le attese di una vita migliore di un intero popolo è oggetto di rilevazioni statistiche non certo di campagne correttive coraggiose e originali. Così, mentre il presidente del Consiglio rimprovera al presidente della Regione di non approntare valide misure ai problemi siciliani, c’è da domandarsi cosa il presidente del Consiglio stia mettendo in moto per risollevare la Sicilia. Dal recente passato emergono in tutta la loro crudezza una serie di fatti: 1) La politica in Sicilia non conta quasi nulla. 2) Le grandi decisioni, meglio chiamarle le grandi incertezze o inerzie, sono ispirate, dominate, controllate dal legame incestuoso tra ceto burocratico e imprenditoriale che preferisce non far nulla e salvaguardare i propri privilegi, piuttosto che correggere o mitigare le enormi diseguaglianze che attraversano l’Isola.
Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo, predecessori di Crocetta, sono responsabili di avere elevato a perfezione scientifica un sistema clientelare di distribuzione/dissipazione delle risorse. Un sistema che ha stipato gli uffici pubblici di decine di miglia di dipendenti inutili, drenando preziose risorse dagli impieghi produttivi. Se gli Ato rifiuti e gli Ato idrici si sono trasformati in gigantesche sacche di inefficienza e malcostume, ebbene, ciò si deve alle “politiche” attuate dai due presidenti. Se le forniture medicali e la spesa farmaceutica sono l’idrovora che costringe il bilancio della Regione a destinare pochi spiccioli agli investimenti, questa è la conseguenza anche dell’azione dei due presidenti precedenti e dei loro cortigiani. Crocetta, presidente per caso, frutto della guerra fratricida del centrodestra, ha scelto la strada più comoda: galleggiare sull’esistente; dove ha dovuto mostrare la forza lo ha fatto solo perché costretto dai mezzi economici sempre più rarefatti e meno disponibili per le grandi scorrerie della politica e della burocrazia.
E arriviamo al nodo cruciale. Nel passato abbiamo creduto e fortemente sperato che l’uomo adatto al comando potesse imprimere una virata così radicale da mettere il percorso dello sviluppo siciliano lungo la giusta rotta e intravedere finalmente orizzonti meno infausti. Dopo la fase lunga e buia degli anni del dominio mafioso, appena disturbato dall’azione di alcuni uomini giusti, è arrivata la stagione dei sindaci nuovi e coraggiosi degli anni ’90, ma anche questa novità accolta con tante attese è svanita lasciando solo tenui cambiamenti. Accanto a buoni propositi si sono accompagnati vecchie pratiche. I Comuni governati da questi uomini si sono riempiti di personale che rendeva poco o nulla nei servizi preposti e costringeva a immobilizzare grandi risorse.
Anche i sindaci dell’inizio del nuovo Millennio, alla stessa stregua dei predecessori di venti anni prima, rischiano di passare alla cronache come l’ennesima occasione mancata. Ma la novità vera, il contesto o le circostanze che, pur nella loro drammaticità, possono davvero incubare il cambiamento non risiede nel decisionismo di un uomo e nel suo carisma. L’elemento che può provocare la demolizione di incrostazioni vecchie di decenni, di rendite tramandate da generazioni, di una cultura del fare votata a disfare, è la contrazione drammatica delle risorse disponibili. Una classe di governo abituata a usare larghi mezzi per sfamare i propri smodati appetiti e le proprie clientele ha aperto la borsa e vi ha trovato pochi spiccioli.
Come la rivoluzione francese si è originata dalla dissipazione dei regnanti unita alla penuria drammatica di risorse, anche il rivolgimento siciliano si è messo in cammino dopo che le risorse clientelari che addomesticavano il dissenso si sono atrofizzate fino a scomparire. Sarebbe altrimenti stato possibile l’opera di demolizione del moloch formazione? Oppure mettere in discussione l’abnorme numero dei forestali siciliani? O le altissime spese di alcuni settori della sanità che nulla hanno a che vedere con i servizi sanitari sempre più carenti offerti alla popolazione dell’Isola?
Nella vandea siciliana, feudo indiscusso prima democristiano poi berlusconiano, è in atto un potente smottamento elettorale su cui l’informazione non commenta. Questa libertà di protesta, questo movimento tellurico è conseguenza della rottura delle catene clientelari. Non avendo più denari da investire sull’acquisto del consenso, una pessima classe politico-burocratica è costretta a tagliare o sfoltire i rami che l’hanno fino adesso sostenuta. Il paradosso siciliano sta tutto qui. La liberazione dagli ottusi dominatori che l’hanno impoverita e resa fortemente diseguale sta arrivando non dai giganteschi investimenti comunitari o dai trasferimenti nazionali (su cui nel tempo abbiamo registrato primati di incapacità di utilizzo), ma dalla penuria delle risorse economiche che sta prosciugando la palude dei favori. Un’Isola che ama definirsi nazione e un popolo dalla pazienza smisurata hanno smesso di seguire i pifferai di turno e li guardano finalmente per quello che sono sempre stati: dei magistrali imbroglioni.
La Calabria
(Elirs, Circolo Rosselli) Molta acqua è passata sotto i ponti dal decentramento regionale che ha trasformato le regioni in nuovi centri di potere, con la gran parte di politici/politicanti che hanno praticato, senza ritegno, il familismo, il clientelismo, l’intrallazzo, il tangentismo, con prebende e indennità da nababbi, tanto che le regioni del Sud son finite col diventare un “coacervo di malaffare”, i cui tentacoli hanno raggiunto anche regioni meno compromesse. Stando ai risultati, nessuna differenza è emersa tra destra e sinistra. Quasi tutti hanno continuato pervicacemente a “succhiare” e a sprecare risorse, assecondati da una burocrazia compiacente e interessata.
Si sono così costruiti patrimoni personali e familiari che non hanno nulla da invidiare ai più provetti imprenditori del Nord. La mancanza di indagini patrimoniali fatta prima e dopo il mandato, ha messo tutti i profittatori politicamente al riparo. E, anche quando, nelle poche occasioni, la Magistratura riesce a scoprire le piaghe del sistema, si provvede in seconda battuta, pur a fronte di numerosi arresti già eseguiti e del voto unanime della Giunta, ad offrire scappatoie, accompagnate da baci e abbracci. Intanto la disoccupazione giovanile nel Sud ha raggiunto picchi mai registrati: si tratta in massima parte di giovani “senza padrini” ai quali non si offre financo la soddisfazione di un’indagine che accerti per quale vie traverse e con quali metodi sono state “sistemate” migliaia di persone.
Da non trascurare il fatto che molti faccendieri della politica che continuano ad affollare le istituzioni, tra i rimedi ripropongono irresponsabilmente il voto di preferenza, senza prendere atto dei guasti che la preferenza sta producendo alle regionali, specie in Calabria ove, per una manciata di voti mancati, si è arrivati all’assassinio politico. Come non prendere atto che gli assessori e/o i consiglieri della regione Calabria inquisiti e/o sottoposti ad ostracismo, erano stati nominati dall’attuale presidente che, come i suoi predecessori, disinvoltamente parla di “svolta”, di “discontinuità”, di “cambiamento”? Senza alcun giudizio sui nuovi nominati, quali speranze si possono nutrire da parte dei giovani emarginati e scaricati sulle spalle dei genitori pensionati? Quale rinascita per la Calabria e i calabresi?
Il valzer della burocrazia
(Erasmo D’Angelis, L’Unità) La burocrazia italiana, labirinto unico al mondo, non guarda in faccia nessuno. Neppure se si tratta di interventi destinati a salvare vite umane, come il Piano nazionale di contrasto al dissesto idrogeologico (Pncdi), che deve contrastare alluvioni e frane. Ebbene, la benemerita Delibera Cipe, è finita sotto l’alluvione degli azzeccagarbugli, per mesi resterà in viaggio tra iter infiniti e passaggi di ordinaria burocrazia, una miriade di Uffici complicazioni affari semplici (Ucas) frutto di una organizzazione statale con regolamenti ottocenteschi e l’andirivieni tra uffici di alta e bassa burocrazia. È la normalità in un Paese che ha raggiunto la vetta dei 150mila provvedimenti legislativi, molti dei quali variamente interpretati dai 450.337 tra dirigenti, funzionari e dipendenti degli 8.029 Comuni italiani, e dai 66.000 operanti per le Regioni. Se qualcuno resiste ancora alla riforma delle riforme, quella della pubblica amministrazione, prenda nota delle date e poi ne riparliamo.
Per avere una idea di come un ottimo stanziamento di risorse diventa ostaggio di un meccanismo impazzito e magmatico, ecco la cronistoria della Delibera Cipe numero 32 approvata il 20 febbraio 2015, che impegna 700 milioni di euro di investimenti, primo stralcio di 1.2 miliardi definito dal Governo Renzi, alla quale hanno lavorato i ministri Galletti e Delrio, e la struttura di missione di Palazzo Chigi guidata da Mauro Grassi. Venne approvata al termine di 6 mesi di concertazioni anche con il Ministero dell’Economia e la Ragioneria Generale dello Stato che ha individuato in tempo le risorse finanziarie per i progetti definiti, anch’essi in tempo record per i ritmi nazionali, il 24 febbraio 2015, dal Decreto del Presidente del Consiglio, e dal passaggio in Conferenza Stato-Regioni per il (dovuto) parere. La Delibera finanzia 152 cantieri nelle 14 città metropolitane. Tradotto in occupati, si tratterebbe di 25.000 nuovi lavoratori impegnati in tanti cantieri in ogni Regione italiana.
Ebbene l’iter di questo primo stralcio del piano nazionale di cui finalmente, dopo quarant’anni di chiacchiere, un Governo è riuscito a dotarsi di un data base di opere (7.120) validate da Protezione Civile e Autorità di Bacino e con investimenti (in 7 anni ben 7 miliardi, più 2,3 recuperati dal non speso negli ultimi 15 anni). Dal 20 febbraio, i 700 milioni hanno iniziato la loro solita navigazione e sono sbarcati il 21 maggio 2015 quando, dopo passaggi burocratici inderogabili tra uffici di vari Ministeri, finalmente sul tavolo del Presidente del Consiglio per la firma. Per salpare di nuovo verso la (dovuta) registrazione alla Corte dei Conti. Il 4 luglio 2015 la Delibera è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale e sembrava che i cantieri potessero finalmente partire con la disponibilità finanziaria e la predisposizione del decreto che individuava i progetti con criteri di urgenza. Nient’affatto. Serviva un nuovo passaggio in Conferenza Stato-Regioni per il nuovo parere.
Tutto si è rimesso in movimento, e solo nel prossimo mese di settembre il Presidente del Consiglio, a seguito del parere della Conferenza, potrà firmare il relativo Decreto di individuazione dei progetti. Che però, a quel punto, dovrà essere inviato nuovamente alla Corte dei Conti per la (dovuta) registrazione. Il gioco dell’oca continuerà ancora e, se tutto andrà bene, solo a fine ottobre seguiranno le firme tra Ministero dell’Ambiente e i Presidenti delle Regioni sugli Accordi di programma, strumenti attuativi che definiscono le modalità di realizzazione dei progetti finanziati. Quindi, le procedure prevedono un successivo (dovuto) invio degli stessi alla Corte dei Conti per la nuova registrazione. A novembre, forse, con l’avvenuta registrazione degli Accordi di programma, ci sarà il trasferimento dei 700 milioni nelle contabilità speciali delle Regioni. E quindi l’avvio delle gare. Mesi utili per i lavoro, persi inutilmente.
Ecco come, risorse immediatamente disponibili, passano da un ufficio all’altro senza poter essere spese e senza alcun senso logico. La velocità, in una materia che deve salvare donne, uomini e territori dallo sfascio, non ha mai abitato nell’Italia giuridica. Potevamo semplificare la vita più volte, lo hanno sempre promesso, ma non lo hanno mai fatto, e le prime sforbiciate sono arrivate solo da qualche mese. La tirannia dei burocrati è dura a morire. L’Italia, patria del diritto, ha sfornato un imponentissimo corpus legislativo che ha favorito molto lo spirito manovriero e l’arzigogolo e la moltiplicazione delle procedure e delle firme, e molto poco l’operatività. Ecco perché servono le forbici e anche le ruspe riformiste.
Serve semplificare l’eredità di uno Stato costruito sulla tirannia della burocrazia, con una macchina amministrativa che da sempre dirige la politica e che nessuno, per decenni, ha mai avuto il fegato di toccare. Il bello è che quando questa macchina inizia ad essere riformata, è il caso della riforma Madia della Pubblica amministrazione, scattano riflessi condizionati, e spesso i riflessi di chi non sa neppure di cosa parla. Quasi sempre, infatti, si ignora come funziona, quanti Signori degli Uffici possono decidere di tenere in vita o far morire nel cassetto un atto, accelerarlo o ritardarlo, anche per futili motivi, non essendoci nel nostro corpus normativo una tempistica con regole e modalità di validazioni. È la macchina che decide, corporativa e intoccabile. Ecco perché è così drammaticamente urgente imboccare l’uscita dall’immobilismo.
Le Autorità opache
(Sergio Rizzo, Corriere) Una riflessione andrebbe fatta sul mondo opaco e indecifrabile delle cosiddette autorità indipendenti, ovvero “Authority”. Organismi che dovrebbero essere indipendenti dal potere politico, avendo il compito di operare a garanzia dei diritti dei cittadini. E che sono invece diventate prevalentemente centri di potere, talvolta fine a se stessi. Chi sceglie i vertici purtroppo è la politica, con meccanismi differenti da un’autorità all’altra, talvolta semplicemente sulla base di intuiti personali e non di procedure concorrenziali. Impossibile non avvertire il penetrante odore della lottizzazione pressoché ovunque. Perfino fra il personale delle stesse. E, sempre più spesso, assistiamo alla trasmigrazione di commissari da un’Authority all’altra, con l’effetto di creare negli anni un piccolo manipolo di professionisti delle Autorità presunte indipendenti. Ciascuno, però, con un partito o una corrente di riferimento. Anche l’inserimento di politici trombati o non più candidabili si è intensificato. A destra come a sinistra: è sufficiente dare uno sguardo ai collegi di alcune autorità, come i Trasporti o la Privacy. Da una decina d’anni, poi, sono arrivati in massa anche i magistrati, prevalentemente del Tar e del Consiglio di Stato.
Milano, che è la piazza finanziaria italiana, rivendica la sede della Consob: ma inutilmente, perché la sede principale della Commissione che controlla la Borsa continua a essere a Roma. Si trovano invece a Milano gli uffici dell’autorità per l’Energia, che però deve avere anche una sede a Roma, dove c’è lo sportello del consumatore, ma non nello stesso posto. La confusione delle procedure di nomina e la spregiudicatezza di certe decisioni (memorabile il caso di un ex deputato già commissario di un’Authority e multato dalla stessa Authority, nominato nel collegio di una seconda Authority, alla faccia di quella sanzione) ha avuto come conseguenza l’inevitabile abbassamento del livello tecnico dei collegi. Il tutto a discapito dei consumatori e degli utenti che invece dovrebbero essere tutelati da quegli organismi. Qualche caso? La giungla delle tariffe telefoniche è sempre più intricata, e in quel groviglio si nascondono sorprese di ogni tipo, che rasentano la truffa: la guerra dei prezzi spinge i gestori a inventare offerte sempre più allettanti ma piene di trabocchetti. La liberalizzazione dei servizi energetici presenta rischi micidiali per chi si avventura nel mare magno del mercato senza averne gli strumenti e le capacità. Le bollette dell’acqua, ora affidate alle competenze dell’autorità dell’Energia, hanno raggiunto livelli record dopo il referendum che ha vietato la privatizzazione della gestione dei servizi idrici.
Non poteva poi mancare una insensata spartizione territoriale. Ogni città vuole la sua Authority. Napoli ha rivendicato la sede dell’Agcom, che dunque ne ha anche una a Roma, con un inevitabile riflesso sui costi. Torino ha invece preteso l’autorità dei Trasporti, che perciò deve avere pure gli uffici di Roma. E si potrebbe continuare. Quanto all’utilità di certe Authority, anche lì ci sarebbe molto da discutere. Per fortuna l’impalpabile autorità di Vigilanza dei contratti pubblici e l’ancora più impalpabile Civit hanno lasciato il passo all’autorità anticorruzione. E su quella follia che avrebbe fatto nascere l’Authority dei Servizi postali (!), c’è stato per fortuna un ripensamento. Ma questo non ha impedito che l’autorità dei Trasporti venisse creata senza avere di fatto il potere di incidere su un capitolo decisivo come le tariffe autostradali: la legge istitutiva dice che non può aprire bocca sulle concessioni in essere.
Una riflessione seria non potrebbe che sfociare in una riforma altrettanto seria. Quella che nessuno ha mai voluto fare: troppo comodo lasciare le cose come stanno. Nel 2001 il governo Berlusconi l’annunciò, salvo poi mettersi a pestare l’acqua nel mortaio per i successivi quattro anni. Nel 2006 toccò a Prodi proporre la riforma delle Authority. Ma il suo governo non durò che un paio d’anni e la proposta finì nei cassetti. Poi più nulla. L’idea riaffiorò nel 2012 durante il governo di Mario Monti. Il quale si premurò subito di precisare: <La riforma delle Authority non è nel mio programma>. Da allora sono passati altri tre anni e mai come adesso sarebbe necessario stabilire regole uguali per tutte le Autorità applicando meccanismi di nomina che garantiscano concreta indipendenza, introdurre merito reale e trasparenza effettiva per la designazione dei vertici, rivedere poteri e le competenze, stabilire contratti di lavoro con trattamenti economici umani e uniformi. Ma anche eliminare le strutture (e le sedi) inutili. Da un sistema finalmente serio ed efficiente avremmo soltanto da guadagnare tutti quanti.
Anche buone notizie
(Alessandra Beltrame, Wired) Che i grandi sappiano scegliersi i luoghi più belli del Pianeta non vi è dubbio. Che l’azienda più grande del web abbia scelto la Valle dei Templi di Agrigento per il suo meeting annuale è un dato di fatto. Lunedì 27 luglio il favoloso Tempio della Concordia, la Via Sacra e tutta l’area archeologica di Agrigento è stata lo scenario dove 300 dirigenti e ospiti di Google hanno cenato, conversato e ascoltato musica sotto le stelle. Un luogo eccezionale, che per la prima volta diventa teatro di un evento privato.
Sopra: il Tempio della Concordia si è svolto l’evento di Google. E a che prezzo: 100 mila euro è la cifra pagata al Parco archeologico e paesaggistico siciliano per avere la disponibilità dell’area dalle 19 circa di domani fino all’alba successiva. Una tariffa non da poco: vi ricordate i 7 mila euro pagati l’anno scorso al Campidoglio dai Rolling Stones per il Circo Massimo? Ma il colosso del web ha accettato senza fiatare. Così come ha accettato senza discutere le condizioni stringenti poste dalla direzione: accesso solo dopo che saranno chiusi i cancelli per i visitatori e “impatto impercettibile” con il luogo, che significa tavoli, catering e palchi solo in luoghi prestabiliti. Tutto poi dovrà essere smontato immediatamente senza lasciare tracce, come garantito da una firma in calce al contratto. In verità, ci risulta che gli emissari spediti da Mountain View abbiano cercato di trattare condizioni per loro più vantaggiose (come pure certe clausole legate ad eventuali contrattempi atmosferici e altre catastrofi: si sa, gli americani amano porre regole su tutto) ma la direzione del Parco è stata perentoria: o prendere o lasciare. E Google ha preso.
Ciò che va raccontato è però il dietro le quinte. La scelta di Google non è infatti dovuta al caso per chi conosce il Parco archeologico siciliano, ma è frutto di un lavoro che dura da almeno tre anni. I signori di Mountain View sono venuti a visitare la Valle dei Templi l’anno scorso (quando fecero un evento a Selinunte ma di tutt’altro tenore) e hanno detto Ok. Per una serie di motivi, non ultimo che questo prezioso sito archeologico del Sud è un modello di gestione culturale dinamica e fruttuosissima. Lontani sono i tempi degli abusi edilizi e dell’immobilismo che lo caratterizzavano. Ora fa notizia ed è di esempio per ben altro. Quando è arrivato ad Agrigento alla fine del 2011, l’architetto Giuseppe Parello, nominato dalla Regione Sicilia, si è accorto che il Parco poteva dare di più, ha portato da 2,5 a 4 milioni di euro il ricavo della vendita di biglietti, aperto numerose campagne di scavi con partner internazionali che da tempo bussavano a queste porte ma non ricevevano ascolto, ha puntato anche sulla parte paesaggistica dell’area, un tesoro finora trascurato: ecco dunque i percorsi naturalistici, il Museo vivente del mandorlo con ben 300 specie da ammirare in stagione nelle loro magnifiche fioriture in tutte le variazioni di bianco e di rosa; poi le produzioni di vino, olio e miele Doc dalle stesse terre che erano coltivate dai Greci. Risultato: il sito è in attivo, e anzi, nella prossima finanziaria regionale, è stato previsto un prelievo “forzoso” del 10 % degli incassi. “Questo ci lusinga” sorride Parello. Come, non si lamenta? “No, perché vuol dire che siamo redditizi”.
L’abilità del Parco di “fare cassa” e di rinvestire bene ha trasformato il luogo, e se ne accorge chiunque lo visiti: nuove biglietterie (prima sembravano un suk), una caffetteria degna dei migliori musei internazionali, l’elegante (e quasi invisibile) passerella pedonale che finalmente scavalca la caotica strada statale che tagliava in due il sito (“Abbiamo avuto finanziamenti europei e sponsorizzazioni sia pubbliche sia private” dice con modestia il direttore). Ed è di qualche giorno fa l’inaugurazione della nuova illuminazione notturna a Led. A parte il risparmio energetico (e di CO2) del 66%, si è trattato di un progetto pilota della società Metaenergia per “l’efficientamento energetico dei beni culturali” da parte della Regione, dunque senza oneri per il Parco. Con ottimi risultati, peraltro: “Abbiamo tolto l’effetto abbagliamento e il colore giallo delle precedenti luci al sodio” spiega Parello. “Ora finalmente si vede la pietra naturale, si percepiscono i dettagli e si può apprezzare la volumetria”.
Il tempio della Concordia con la nuova illuminazione a Led, che fa risparmiare il 66% di energia. Insomma, gli dei dell’olimpo web hanno scelto un tempio degno del loro prestigio. Un tesoro italiano che è un modello di gestione, ora al suo massimo splendore. Gli è costato caro (una goccia nel mare, però, come scrive la stampa mondiale, rispetto agli oltre 150 miliardi di euro del valore del marchio) ma non hanno battuto ciglio. “Abbiamo studiato un tariffario congruo, basandoci su luoghi analoghi” racconta il direttore. “Contiamo che questo sia il primo di una serie di eventi privati, che però dovranno sempre rispettare le medesime condizioni”. Una sfilata di moda, per es. è una delle voci previste (per 50 mila euro).
Dal Giappone all’Australia, l’evento ha avuto un effetto mediatico esplosivo. E, come spesso capita, i giornali si sono scatenati a scoprire, più che i dettagli importanti, la lista degli invitati e altre amenità. Ma hanno suonato per loro il sassofonista Gianni Gebbia e l’arpista Rosellina Guzzo. Due nomi siciliani. Gebbia conosce questi luoghi, perché è un habitué delle rassegne jazz che si tengono nel Parco. Quanto al menù, nei piatti sono comparse le mandorle, le olive, il vino con l’etichetta del Parco (Diodoros) e pure lo squisito miele delle api nere sicule, tutti tesori a km zero. Queste sono le buone notizie. E, a proposito di gossip, sappiate che alla festa, pur blindatissima, non è mancata un’infiltrata di lusso: la capra girgentana, un altro bene protetto del Parco, le sue corna a torciglione quasi un reperto archeologico per la rarità. La Valle è casa sua da secoli, guai a toccargliela. Ama brucare (ma con discrezione, è nel suo stile) proprio sotto al Tempio della Concordia. Originale com’è, chissà che Sergey Brin e Larry Page non le dedichino il prossimo doodle.
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Dentro di noi c’è qualcosa che non ha nome e quella cosa è ciò che noi siamo (Josè Saramago).
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