Il Presidente del Consiglio dei Ministri, Matteo Renzi, annuncia un programma pluriennale di riduzione della pressione fiscale. Tra l’altro, sarà eliminata per tutti l’imposta sulla prima casa.
Tenuto conto che non risultano proteste da parte del Ministro per l’Economia e le Finanze, Pier Carlo Padoan, si deve presumere che egli sia, se non entusiasta, quanto meno d’accordo con chi guida il governo di cui è parte. Ciò non era scontato, considerata la situazione dei conti pubblici. In materia, c’è l’esigenza di essere continuamente aggiornati. E’ bene, quindi, dare una rapida lettura al Bollettino statistico della Banca d’Italia, con gli indicatori monetari e finanziari (numero 38 del 14 luglio 2015). Il primo grafico, riportato alla figura uno, “Debito delle amministrazioni pubbliche”, dimostra che il debito pubblico italiano complessivo è sempre lì, anzi è un po’ cresciuto, attestandosi serenamente intorno ai 2.230 miliardi di euro.
Avete presente tutte le lamentazioni sulla Grecia che non rispetta i trattati sottoscritti con l’Unione Europea? Il fatto è che anche l’Italia ha sottoscritto i medesimi trattati; anzi, con la modifica della Costituzione approvata con legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, ha voluto distinguersi quanto ad enunciazione di propositi virtuosi. Lo Stato italiano si è impegnato con le Istituzioni dell’Unione Europea a rimettere in ordine i propri conti pubblici, facendo essenzialmente due cose: 1) raggiungere il pareggio di bilancio, in modo che l’esercizio finanziario annuale non si concluda in disavanzo, che verrebbe a sommarsi al debito pubblico pregresso; 2) ridurre l’ammontare del debito pubblico, fino a portarlo ad una misura corrispondente al 60 % del Prodotto interno lordo. La riduzione del debito fino alla misura stabilita dovrebbe realizzarsi nell’arco di vent’anni, ma l’onere sarebbe comunque molto rilevante, considerato che, al momento, il debito pubblico è stimato pari al 130 % del PIL. Si tratterebbe, cioè, di tagliare in vent’anni una cifra mostruosa, pari al 70 % dell’attuale debito pubblico. Ovviamente, poiché stiamo considerando un rapporto percentuale, se nel frattempo crescesse significativamente il PIL italiano e questa crescita si stabilizzasse attraverso un duraturo miglioramento degli indicatori economici, la cifra del debito da abbattere si ridurrebbe automaticamente; così l’operazione contabile di iscrivere nel bilancio di ogni anno un tot di debito da estinguere, sarebbe più facilmente sostenibile.
Noi siamo dei poveri osservatori, privi di abilità politica. Ragioniamo all’antica. Dal nostro punto di vista, quando si assume solennemente un impegno, le cose da fare sono poche: o si rispetta quanto si è convenuto; oppure ci si rifugia dietro il classico argomento che «ad impossibilia nemo tenetur»: poiché le dinamiche reali dell’economia dimostrano che è economicamente, e soprattutto socialmente, insostenibile per gli Stati membri un piano di rientro dal debito pubblico nei termini previsti dalla vigente normativa dell’Unione Europea, si impone un soprassalto di realismo e questa normativa va conseguentemente modificata. Ipotizzare una procedura di modifica dei trattati, siano pure gli infelici trattati intergovernativi di ultima generazione che riguardano l’Eurozona, significa, però, prospettare uno scenario assai complesso, con prevedibili forti resistenze.
Con uno slancio di ottimismo, concediamo che la modifica vada a buon fine, almeno nei limiti realistici in cui ciò è possibile. Deve essere chiaro, tuttavia, che in nessun caso ciò equivarrebbe a rinunciare completamente all’obiettivo di tenere in ordine i conti pubblici. Una modifica potrebbe significare, ad esempio, che un nuovo accordo intergovernativo tra gli Stati membri fissi il parametro del rapporto tra debito pubblico e PIL, non al 60 % com’è oggi previsto, ma al 90 % nelle circostanze date, con la possibilità di portarlo all’85 % dopo un arco di tempo sufficientemente lungo per avere tutti i riscontri di fatto. Potrebbe significare che un nuovo accordo intergovernativo tra gli Stati membri prenda atto che, sempre nelle circostanze date, l’obiettivo del pareggio di bilancio annuale sia oggettivamente troppo pretenzioso, e che quindi si stabilisca di consentire una certa flessibilità di bilancio entro il limite di un disavanzo annuo non superiore al 2,50 % del PIL nazionale (ossia, meno del tre per cento, che era la vecchia regola successiva al Trattato di Maastricht del febbraio 1992). Bisogna sommessamente ricordare che la regola del tre per cento, come limite al disavanzo annuale, è stata superata nella più recente normativa dell’Unione Europea. Anche se Renzi accampa il merito di averla finora rispettata, egli sa benissimo — e comunque il Ministro Padoan sarebbe tenuto a ricordargli — che le regole da rispettare sono oggi ben altre!
Una volta fatto un negoziato per ottenere nuovi parametri e una volta approvate nuove normative che li stabiliscono, uno Stato serio avrebbe il dovere di profondere il massimo dell’impegno per dimostrare che li rispetta. La questione, infatti, mette in gioco la credibilità nazionale, tanto più per lo Stato che ha posto formalmente l’esigenza di cambiare le regole.
Che dire del nostro fantasioso Presidente del Consiglio? Per lui è come se il debito pubblico non ci fosse. L’Italia, a suo dire, avrebbe già fatto i compiti a casa, anche se si deve al tanto vituperato governo Monti di aver realizzato l’unica riforma economicamente rilevante, quella delle pensioni, giusta o sbagliata che fosse. Per il resto, i “compiti a casa” si sono per lo più tradotti in impegni teorici (come appunto la legge costituzionale che ha riscritto l’articolo 81 della Costituzione), senza però che dalla teoria si passasse ai fatti. Il trattato cosiddetto del “Fiscal compact“, ad esempio, è stato ratificato con legge 23 luglio 2012, n. 114; esattamente tre anni orsono. Nel frattempo, si sono ottenuti dall’Unione Europea, rinvii, deroghe, eccezioni temporanee; forse qualcuno si illude che si possa continuare così all’infinito.
Il Ministro Padoan che, indegnamente, occupa la poltrona che fu di Quintino Sella, non ha alcunché da obiettare, nulla da precisare. Nella legge di stabilità per il prossimo anno finanziario si dovranno trovare risorse finanziarie aggiuntive affinché non scattino in automatico le clausole di salvaguardia introdotte nell’esercizio precedente; queste erano state previste a garanzia di misure economiche che, come tutti già sapevano perfettamente, erano prive di reale copertura finanziaria. In aggiunta, si dichiara ora di rinunciare all’imposta sulla prima casa. Alle minori entrate, inclusa la rinuncia all’aumento dell’IVA previsto dalle clausole di salvaguardia, non corrispondono tagli alla spesa pubblica di importo equivalente. Meno entrate, restando sostanzialmente equivalente la spesa pubblica, si traducono in aumento di debito pubblico. Non c’è bisogno di essere economisti per comprenderlo.
E’ troppo comodo prendersela sempre con la Cancelliera Merkel e con la cattiva Germania. Ogni tanto bisognerebbe ammettere pure che, purtroppo, siamo governati da persone poco serie. Leste a dire sì per opportunismo, ma pronte a fare, nella pratica, l’esatto contrario di quanto pattuito.
C’è poi un corollario, dal mio punto di vista particolarmente fastidioso. Il tributo sulla prima casa è un tributo locale. Come già aveva fatto il governo Berlusconi, il governo Renzi intende farsi bello con soldi non suoi. A Berlusconi (e alla destra) non piaceva l’ICI; ma l’imposta comunale sugli immobili era portante negli equilibri della finanza locale. Non è possibile che un governo centrale elimini un’entrata di spettanza degli enti locali, senza preoccuparsi del terremoto che così facendo determina nella finanza locale. Grazie a Berlusconi siamo entrati in un girone infernale: niente ICI, ma IMU, più TASI, più aumento delle addizionali regionali e comunali sull’IRPEF, più altri balzelli. Ai cittadini non importa se pagano allo Stato, o alla Regione, o all’Ente locale. Ciò che importa è la pressione fiscale complessiva. Questa può essere effettivamente ridotta soltanto se Stato, Regioni ed Enti locali operano di concerto, con reciproca leale collaborazione. Altrimenti, ridurre al centro per pagare di più in periferia non si traduce necessariamente in un vantaggio per i cittadini. Anzi!
Dopo tutto ciò che è successo nell’ultimo triennio, proprio ora che si parlava di una riforma complessiva della finanza locale, Renzi si appresta a ripetere il medesimo errore di Berlusconi. L’esperienza non ha insegnato alcunchè! Il fatto è che Renzi ragiona con orizzonti limitati, per non dire alla giornata: gli interessa unicamente raccattare i voti parlamentari controllati da Berlusconi, quelli che porta Verdini, oltre ai voti del Nuovo Centrodestra di Alfano: tutte le destre si ricompattano di fronte alla prospettiva di non tassare la prima casa.
Noi, sommessamente, osiamo obiettare che c’è casa e casa. Eventuali esenzioni totali dovrebbero riguardare esclusivamente le famiglie che hanno più bassi redditi. E’ poi un dato di fatto che il valore di un immobile può essere valutato soltanto a livello locale: in relazione alla zona urbana in cui è ubicato, fermo restando che la stima del valore risente altresì delle caratteristiche del mercato delle abitazioni nelle diverse aree geografiche: il costo di una abitazione a Milano, o a Roma, è diverso da quello di un’abitazione a Cagliari, o a Campobasso, quand’anche le abitazioni avessero dimensioni e caratteristiche tipologiche simili. Alle disposizioni di legge dello Stato spetta soltanto fissare criteri generalissimi e stabilire limiti quantitativi di prelievo, minimi e massimi. Spetta, invece, all’Amministrazione locale quantificare l’importo dei tributi sugli immobili e riscontrare la sussistenza di motivi di riduzione, o esenzione.
Molti sostengono che l’Italia è bella, ricca di storia, di arte e di cultura, ma mal governata e peggio amministrata. Si risponderà che i cittadini si meritano i governanti e gli amministratori che hanno, perché li hanno legittimati con il loro voto nelle elezioni, ai vari livelli. Probabilmente, la questione è molto più complessa. Bisognerebbe considerare tanti altri fattori: dalle caratteristiche delle leggi elettorali, con tutte le forzature implicite nei meccanismi maggioritari, alle regole vigenti in materia di appalti pubblici di opere, servizi e forniture, fino ad arrivare alla coscienza, di ordine generale, che la nostra è la caricatura di uno Stato di Diritto: con il proliferare delle liti (incoraggiato da tre gradi di giudizio garantiti a tutti), l’eccesso di sedi giurisdizionali (giustizia penale, civile, amministrativa, contabile, specializzata nelle controversie di lavoro, eccetera), il fiorire di Autorità indipendenti tanto costose quanto inutili, questo sedicente Stato di Diritto forse fa felici gli avvocati e le persone nominate nelle Autorità indipendenti, ma non realizza giustizia e, soprattutto, rende vago ed aleatorio il concetto di responsabilità dei decisori politici. Una sola precisazione sugli appalti: aggiudicarli al massimo ribasso è stupido e criminale. Stupido, perché il costo dell’opera aumenta poi a dismisura con variazioni di prezzo accordate in momenti successivi al medesimo appaltatore. Criminale, perché ormai è chiaro a tutti che chi si aggiudica un’opera ad un prezzo molto più basso rispetto a quello che sarebbe il fisiologico prezzo di mercato, considera normale ridurre i costi, utilizzando materiali di qualità scadente e depotenziando le stesse caratteristiche strutturali che, secondo progetto, sono state concepite a presidio della stabilità e funzionalità dell’opera.
Le opere pubbliche hanno senso soltanto se risultano utili alla collettività; quindi, devono essere realizzate a regola d’arte. L’attenzione dei pubblici poteri dovrebbe concentrarsi su questo: come funzionano e quanto durano. Si ha l’impressione che oggi molti considerino le opere pubbliche esclusivamente come occasioni di movimentazione del denaro pubblico: non importa che questo, in ultima analisi, venga sprecato; l’importante è che decisori politici e funzionari amministrativi, in combutta con appaltatori disonesti, possano ricavarne, pro quota, il loro concreto utile.
La classe politica non si esaurisce in Renzi e Padoan. In Sicilia abbiamo la nostra croce: Rosario Crocetta. Dire male di lui è facile, come sparare sulla Croce Rossa. C’è solo l’imbarazzo della scelta degli argomenti. E’ francamente imbarazzante, ad esempio, sentirlo parlare dei conti pubblici della Regione; lo fa sempre in modo approssimativo, sempre senza dati e riferimenti precisi, sempre facendo un gran confusione fra milioni e miliardi, come se si trattasse di noccioline.
Non abbiamo intenzione di infierire contro quello che, con tutta evidenza, è un caso umano. Soltanto ricordare qualche passaggio. Il personaggio Crocetta fu inventato come strumento di un non meglio precisato “governo dell’antimafia”. Formula che di per sé la dice lunga sulle miserabili condizioni politiche in cui versa la Sicilia: la ricerca di buoni rapporti con le persone fisiche che rappresentano gli Uffici giudiziari nel territorio viene ritenuta più importante dell’elaborazione di un credibile programma di riforme istituzionali e di politica economica. Proprio al fine di arrivare al “governo dell’antimafia” fu eliminato un concorrente alla carica di Presidente della Regione che poteva fare ombra a Crocetta, in quanto dotato di una credibile storia personale di vittima della mafia. Facciamo riferimento a Claudio Fava. Ricordate? Nel mese di settembre del 2012 la candidatura di Fava alla carica di Presidente della Regione fu annullata, perché egli non aveva trasferito in tempo la propria residenza in un comune siciliano.
Poiché condividiamo, nel bene e nel male, il destino dei siciliani, per noi è magra consolazione non avere la responsabilità di aver votato per Crocetta. Non lo votammo perché, anche nel 2012, lo consideravamo soltanto “un trombone”, un demagogo da quattro soldi. L’emblema del megafono, scelto dalla lista Crocetta, si è rivelato perfetto, considerate le caratteristiche del leader. C’era una sensibilità, come dire, estetica, oltre che un giudizio di merito politico, che allora come oggi ci faceva vedere l’inopportunità che uno come Crocetta ricoprisse una responsabilità così importante qual è quella di Presidente della Regione siciliana.
Non ci interessano le presunte rivelazioni di un settimanale. Le frasi scaturite dalla presunta intercettazione telefonica sono gravi, ma cambierebbe poco se fossero state falsificate. Diamo per scontato che Crocetta non abbia proprio la colpa che oggi gli si imputa ed assumiamo, anzi, che egli sia sinceramente affezionato alla memoria di Paolo Borsellino. Del resto, proprio perché era consapevole del valore di quella memoria ed intendeva strumentalizzarla ai propri fini, ha voluto che la figlia di Borsellino, dipendente regionale come ce ne sono tanti, entrasse a far parte della Giunta regionale, alla guida di un Assessorato importante e delicato.
Dal nostro punto di vista, Crocetta deve lasciare la sua carica per quello che egli è, per la sua azione di governo, per il poco che ha fatto (male) e per il tanto che avrebbe potuto fare e non ha fatto. Prima se ne va e meglio è.
Resta la strana vicenda di una carica, quella di Presidente della Regione siciliana, che non ha avuto pace da quando è stata introdotta l’elezione a suffragio universale diretto. I precedenti sono quelli di Salvatore Cuffaro e di Raffaele Lombardo. Viene quasi la nostalgia di presidenti eletti dall’Assemblea regionale, quando ancora c’era una forma di governo parlamentare. Senza andare troppo indietro, basti pensare a Rosario Nicolosi che, a dispetto delle sue disavventure giudiziarie, era un autentico gigante rispetto ai presidenti legittimati dal popolo: sapeva esprimersi in un buon italiano; si presentava bene; era misurato nel parlare; capiva, perfino, qualcosa di economia.
Ci farebbe piacere che quando verrà il momento di individuare un nuovo Presidente della Regione che, effettivamente e non a chiacchiere, possa rappresentare un cambiamento di costumi, tra i “kingmakers“, ossia tra i grandi elettori politici, non abbia un’influenza rilevante quel senatore Giuseppe Lumia che è stato il principale consigliere ed il più strenuo sostenitore di Crocetta. Grazie, abbiamo già avuto modo di apprezzare i suoi talenti.