Fine della socialdemocrazia? Zibaldone n.405

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(Antonio Polito, Corriere) Le dimissioni presentate alla regina di Danimarca da Helle Thorning-Schmidt, la più glamour dei leader della sinistra europea, sembrano l’ultimo segno di un destino crudele, e forse irreversibile, che si sta abbattendo sulla storia centenaria del riformismo. La vicenda danese è altamente simbolica. La giovane premier non esce infatti di scena per una delle solite oscillazioni del pendolo elettorale; ma è stata travolta dal boom di quella destra anti-immigrati che dal circolo polare in Norvegia fino alla linea gotica in Italia sta rubando voti alla sinistra in nome di un sacro egoismo nazionale (e personale). È il male oscuro che divora le radici di una storia ispirata all’uguaglianza e alla fraternità. Per tenere insieme i suoi valori la socialdemocrazia ha sempre avuto bisogno di molti soldi, di crescita economica e forte tassazione, per pagare un sistema di welfare che è diventato il vanto del Vecchio Continente; ma oggi ne è anche la soma. La spesa pubblica non può più essere la misura della giustizia sociale, e la sinistra riformista non ha ancora trovato un altro modo di finanziarla. A soffrirne di più sono proprio gli elettori del tradizionale blocco sociale progressista. Nei quartieri dove sono nati il sindacato e il movimento cooperativo ora si aggirano disoccupati, giovani maschi arrabbiati, ceti medi impoveriti ed esposti alla concorrenza dei nuovi arrivati per la casa, per il lavoro, per l’assistenza.

Nelle società senza poveri, in Svizzera o negli Emirati, i lavoratori stranieri fanno meno paura, anzi, sono accettati come i nuovi servi. Ma non è così a Rotterdam, ad Anversa, o a Dresda. La sinistra riformista ha finora trovato una sola risposta: l’appello alla tolleranza e al cosmopolitismo. Ripete l’antico mantra di Roosevelt: non dobbiamo aver paura che delle nostre paure. Ma la gente ha paura lo stesso. Anche quando non va a destra, è attratta da un nuovo populismo non meno nazionalista, come Syriza in Grecia, Podemos in Spagna, e Grillo in Italia. La socialdemocrazia sta perdendo la battaglia delle idee. E se un movimento politico smette di saper parlare al presente può anche estinguersi, come successe ai liberali inglesi in pochi anni dopo la Grande guerra, o come profetizza Houellebecq accadrà tra breve ai socialisti francesi. Per quanto Renzi non faccia parte, né per cultura né per stile, della storia della sinistra socialdemocratica, neanche il suo Pd può ritenersi immune da questo sommovimento continentale. Neanche la ripresa economica, di per sé, mette oggi al riparo dalla rabbia e dalla paura. Alla danese Helle, di certo, non è bastata.

Una voce amica

(Mario Calabresi, La Stampa) Nel tempo in cui sembra aver voce un pensiero unico, che zittisce ogni differenza e ogni sensibilità con la ruspa o con la cruda contabilità, è rimasto un uomo che caparbiamente parla di persone e di umanità. Papa Bergoglio ci ricorda che siamo donne e uomini, che abbiamo dei diritti, ma anche dei doveri verso chi è troppo piccolo o troppo anziano, troppo malato o troppo debole per stare in piedi da solo. Il pensiero unico dominante accetta l’economia dello scarto, che mette in un angolo chi non ha lavoro e chi non è produttivo, così come predica la chiusura all’interno delle proprie identità e dei propri confini. Provare a ricordarci da dove veniamo, riscoprendo il valore dei “nonni” intesi come portatori di memoria, è l’unico modo per capire dove andare. Senza memoria non c’è futuro e solo con un patto generazionale e sociale, che sia l’esatto opposto delle guerre civili cui assistiamo ogni giorno, possiamo pensare di uscire dalla crisi. Per riuscirci non si può stare fermi ad aspettare la ripresa, mettersi in panchina, ma bisogna scommettere sulla solidarietà, sullo sguardo ampio e sul coraggio.

Una idea della Ue

(Claudio Bellavita, Circolo Rosselli) L’Ue si avvicina, nelle sue varie formulazioni, ai 60 anni di vita, e in questo arco di tempo sembra che si sia consolidato il principio che ci sono diverse categorie di membri. Membri di serie A sono Germania e Francia, che possono fare quel che vogliono; di serie A super, l’Inghilterra che non solo può fare quel che vuole ma che è esentata dal dare un contributo netto all’Unione, e mantiene una sorta di diritto di veto su ulteriori passi avanti dell’Unione politica. Poi ci sono le economie minori ma civilizzate, quali i paesi ricchi del Nord dell’Europa e del già Benelux, che fanno lega costante con i paesi di serie A. Adesso c’è la vergognosa manfrina del rifiuto di accogliere non solo i migranti, ma persino i richiedenti asilo, per non perdere voti verso i Salvini del Nord Europa, con la strafottente conclusione che se li tengano i paesi dove arrivano.

Non mi risulta che l’Italia abbia neanche provato a ipotizzare che in questo caso le spese derivanti le detrarremo dal nostro contributo netto; e in quanto alle multe che vengono inflitte a noi, e mai ai paesi di serie A, che se le stampino sulla carta igienica, per farne un uso ecologicamente appropriato. Come non risulta che l’Italia abbia posto sul tavolo il problema degli Stati europei che facilitano l’evasione fiscale degli italiani, neanche dopo che la nostra maggiore azienda, la Fiat, si è scelta, sempre in Europa, una sede per l’evasione fiscale e un’altra per l’evasione giudiziaria. Chissà che risate ai nostri danni tra gli avvocati d’affari di tutto il mondo… Insomma, può darsi benissimo che queste considerazioni facciano parte dei segreti conciliaboli durante i vertici europei, ma resta nel pubblico l’immagine di un’Europa madre con i ricchi, e matrigna con gli altri, ai quali resta solo il ruolo del tremebondo Fantozzi di fronte ai diktat della contessa Serbelloni-Spetazzanti-Vien dal Mare.

E’ anche vero che quando Berlusconi provò a usare il brutale linguaggio del mondo degli affari (l’Europa non è contenta dell’Italia e ci vuole dare degli ordini? Bene, intanto sospendiamo i pagamenti netti da parte nostra, poi discutiamo), nel giro di pochi mesi, con quello che vedranno gli storici se chiamarlo colpo di Stato o in un altro modo, fu costretto alle dimissioni e sostituito da un governo di “tecnici”, così tecnici che già due delle loro leggi sono risultate incostituzionali (altre, probabilmente, a seguire). Forse qualcuno, da qualche parte, sta pensando a un golpe per sostituire questi invadenti giuristi… E’ anche vero che a sua volta l’Europa tende a essere il Fantozzi dell’Occidente, pronta a applicare le direttive degli Usa, che vorrebbero usarci per contenere l’Impero del Male, e seguire tutte le follie della catastrofica politica estera americana. Secondo gli Usa dovremmo addossarci di mantenere una Ucraina mezza nazista, una faccenda pari a dieci volte la Grecia, solo per irritare Putin, al quale abbiamo applicato, sempre su ordine Usa, delle sanzioni che ci fanno perdere più soldi di quelli che servirebbero a rimettere in ordine i paesi UE in difficoltà senza sterminarne pensionati e disoccupati. E sempre l’Europa-Fantozzi si appresta a votare un TTIP che mette il nostro commercio nelle mani del sistema giuridico Usa e dei costosissimi avvocati delle loro multinazionali: vedrete che alla fine ci toccherà rimborsare i proprietari della Eternit, che quando hanno investito a Casale mica c’erano tutte queste storie sull’amianto..

Alcune verità sulla scuola

(Attilio Oliva, Corriere) E’ tempo di affrontare un grande paradosso: la scuola pubblica è di fatto un luogo molto “privato”, nel senso che nessuno, al di fuori degli addetti, sa cosa vi avvenga. Ne sanno qualcosa quei genitori che si preoccupano di scegliere una buona scuola per i propri figli. Nei Paesi più avanzati si punta su articolati sistemi di ispezione delle scuole che ne rendono pubblici i risultati; si valutano i presidi sulla efficace realizzazione dei piani di miglioramento concordati, e si valutano i singoli insegnanti meritevoli con riflessi sulla retribuzione e sulla carriera. L’obiettivo non è la sanzione, ma la spinta al miglioramento, sostenuta da una formazione obbligatoria assicurata in ogni scuola dai colleghi più esperti e di miglior reputazione.

Va detto chiaro e tondo che una buona scuola è soprattutto fatta da buoni insegnanti e buoni presidi; ed è tanto migliore quanto più numerosi sono gli ottimi insegnanti e presidi piuttosto che gli onesti esecutori che possono e devono migliorare. Quanto a coloro (per fortuna, pochissimi) che costituiscono un danno per i loro alunni, una buona scuola dovrebbe allontanarli dall’insegnamento per impedire loro di nuocere (cosa che da noi non avviene…). Tutte le indagini internazionali ci dicono che, a parità di contesti ambientali e socioeconomici, le scuole danno risultati molto diversi: evidentemente la variabile decisiva è la qualità di chi le dirige e di chi vi insegna.

Riguardo allo scontro in corso, occorre sfatare alcuni luoghi comuni, tanto diffusi quanto duri a morire.
1) Si dice: <La scuola non è un’azienda>. È ovvio, ma si tratta comunque di una “impresa sociale senza scopo di lucro” che richiede lavoro di gruppo, coordinamento ed una guida autorevole e legittimata, in grado di organizzare in modo efficiente le risorse disponibili e di dedicare attenzione allo sviluppo professionale di tutti gli insegnanti.
2) Si dice: Il sistema scolastico rischia di essere privatizzato>. Si tratta di un grossolano errore: il 95% delle scuole è gestito dallo Stato e solo il 5% da scuole paritarie. Una percentuale minima, che rischia di azzerarsi in breve tempo per le alte rette che le famiglie non riescono a sostenere. Il rischio vero non è la privatizzazione ma quello del monopolio statale, con tutte le conseguenze dannose dei monopoli, pubblici o privati che siano: rigidità, scarsa innovazione, costi crescenti e servizi sempre meno qualificati.
3) Si grida alla minaccia di un preside “sceriffo”: ma il preside non potrà mai essere un autocrate solitario. Intorno a lui è prevista una rete di quadri, che svolgono funzioni intermedie di natura organizzativa e didattica (la cosiddetta leadership distribuita) e comunque esiste un Consiglio di istituto (da rinnovare) a cui rendere conto. Certo, occorre migliorare le modalità per il reclutamento dei presidi: e uno dei modi consiste nel selezionarli tra i quadri già verificati per le capacità e per l’attitudine dimostrata ad assumersi responsabilità organizzative e di coordinamento.
4) Si dice ancora: <Gli insegnanti fanno tutti lo stesso mestiere: come, e chi, li può valutare e premiare?> È vero: fanno tutti lo stesso lavoro, ma sono 890.000 e non sono tutti uguali, né per attitudini, né per competenze, né per impegno. Il nuovo fondo per il riconoscimento del merito che il progetto di legge mette a disposizione (200 milioni) sarebbe insignificante se distribuito a pioggia, ma può essere efficace se destinato a quel 10-15% di docenti che svolgono incarichi speciali o godono di indiscussa reputazione. Se ciò accadesse, sarebbe una svolta storica e si supererebbe l’egualitarismo che scoraggia i meritevoli e alimenta una mentalità impiegatizia.

Se alcune misure attualmente al vaglio del Parlamento si realizzassero senza troppe mediazioni al ribasso, la qualità della scuola ne trarrebbe sicuro giovamento, anche grazie al rilancio dell’autonomia che non ha potuto fin qui dare i suoi frutti in assenza dei necessari strumenti di valutazione di sistema. Questi strumenti, seppur con diverse modalità, esistono in tre quarti dei Paesi avanzati di Europa, America e Asia. Sembra più che lecito allora chiedersi se a sbagliare siano i tre quarti del mondo avanzato o se non valga la pena di allineare il nostro sistema a quelli, visto che in tutte le indagini comparative internazionali gli apprendimenti dei nostri studenti risultano, poveri noi, al di sotto della media.

Il pecoraio

(Mimmo Gangemi, La Stampa) Il pecoraio si annunciò da lontano con fischi acuti tra lingua e palato. Un’accetta nuda inserita nella cintura – cintura… un sottopancia di mulo adattato a cintura – l’ombrello agganciato per il manico di legno al colletto della giacca già sulle spalle di altre generazioni della famiglia, batteva in terra un bastone a sveltire il piccolo gregge. Gli stavano dappresso i due figli, uno di otto anni e uno di dieci, con l’occhio smaliziato di chi già conosce il mondo e con il sorrisetto furbo e sfottente, sparso in tondo e distribuito largo su noi scolari in attesa di entrare a scuola, per aver trovato il rimedio di evitarsi il castigo tra i banchi e le nerbate, legittime allora, del maestro. Le pecore ci spartirono in due gruppi, belando. I cani lanuti che le scortavano ai lati ringhiarono e quel corteo di indistinguibili cristiani e bestie fendette la folla dei piccoli uomini avviati agli studi. <Hiii, se ne fanno di scienziati> gridò il pecoraio, coinvolgendoci tutti con un roteare di mano. Rise sguaiato. <Vi hanno fottuti, mangiainchiostro> gli fece eco, tra offesa e sfottò, il più grandicello dei due ragazzi.

Era la metà degli Anni 50, per molti un nuovo inizio. Per quei tre l’immutabilità che si trascinava da secoli. E infatti avevano torto. Mi ci sono poi imbattuto lungo le strade della vita, in loro e in altri come loro. Erano rimasti indietro, con destini acciaccati, senza orizzonti, alcuni avevano avuto esistenze dannate, dal carcere, dalla droga, dal semplice confrontarsi con i coetanei che “avevano fatto le scuole”. La lezione di allora non è servita, se sono ricomparse famiglie che decidono di non mandare i figli alla scuola dell’obbligo. È successo a Petilia Policastro. Dove la solerzia delle forze dell’ordine non ha inciso granché, se il fenomeno persiste. Le diserzioni scolastiche riguardano per lo più famiglie italiane (non gli immigrati) e hanno due diverse colpevolezze: genitori contadini che, per ignoranza, fors’anche per la povertà ricomparsa, trovano più utili i figli nei campi, a lordarsi di una terra che porta pane, o li inducono a fare i manovali in nero; genitori ’ndranghetisti o malati di ’ndrangheta consapevoli che per certi “mestieri” non occorrono scuole; non quelle che richiedono applicazione sui libri almeno – han-no scelto di crescere i figli in selvaggitudine, con un destino tracciato uguale al loro, e già segnato, di sangue, di dolore, di morte, di galera.

Nell’uno e nell’altro caso, sempre miseria è, di animi e di sentimenti. Assomiglia a un ritorno indietro, sembra dirci che si sta regredendo fino a pensieri simili a quelli del pecoraio degli Anni 50. Più ancora, è la traccia di un decollo mancato, di un ritardo storico che la Calabria continua a trascinarsi appresso. L’evasione scolastica è un fenomeno che ci taglierà fuori ancora di più, fin dai blocchi di partenza, che accrescerà il ritardo rispetto al resto d’Italia. Sintomi preoccupanti, pure perché di storie come quella di Petilia Poli castro ce n’è troppe. Sono i segni della sconfitta. Mostrano un popolo di vinti che sopporta tacendo e che si contorce su se stesso senza più riuscire a disegnare il domani, a costruire sogni, un’idea di riscatto. La piaga della diserzione scolastica in una terra già messa male nelle classifiche di civiltà e impoverita dai giovani che scappano in massa, senza che ne attragga altri, significa che qui si va disintegrando il futuro. Bisogna che se ne prenda atto. L’Italia, costi quel che costi, non può consentire un’ingiustizia così feroce, che tocchi imbattersi di nuovo nei ragazzini impediti alla fanciullezza, troppo presto adulti in lavori da adulti, come quelli dei ricordi ingialliti della mia infanzia, con il muco verdastro che faceva loro capolino dalle narici, gli occhi già patiti, in testa il basco di carta del cemento.

Col clientelismo non si governa

(Federico Fubini, Corriere) Francis Fukuyama nel suo nuovo saggio Political Order and Political Decay, sulle strutture politiche e il loro declino, dedica decine di pagine alle due economie del Mediterraneo, Italia e Grecia, che in questi anni, in modi diversi, si sono trovate all’epicentro del terremoto dell’euro. Risponde ad alcune domande: Lei sostiene che i sistemi politici di tipo clientelare diffusi in Grecia e in Italia sono alla radice delle difficoltà dell’euro. Per quale motivo? <Una causa di fondo degli eventi di questi anni è stata l’incapacità dei governi di Grecia e Italia di tenere sotto controllo i conti. E una delle ragioni per cui non ci sono riusciti, è che in entrambi i Paesi il settore pubblico è stato usato a scopi clientelari. All’inizio della crisi la Grecia aveva un numero di statali per abitante, pari a circa sette volte quello della Gran Bretagna. I due grandi partiti greci, Néa Demokratia e Pasok, si erano ruotati al potere per 40 anni e ogni volta, alternandosi, avevano riempito il settore pubblico dei propri sostenitori. E un’abitudine che continua fi-no ad oggi, con Syriza>.

Secondo lei anche in Italia è andata così? <In Italia una variante dello stesso genere è proseguita per molto tempo. L’esempio più notorio è la Democrazia cristiana nel Mezzogiorno, ma in un certo senso questo modello ha finito per riflettersi nella politica di tutto il Paese. È un modo di gestire il sostegno elettorale. Fino a quando questo sistema non sarà sostituito da un altro sistema, nel quale i burocrati vengono selezionati in base al merito e alla loro competenza, il problema della spesa pubblica non sarà mai messo sotto controllo>. Trova che oggi questa questione sia capita meglio di prima e sia stata risolta? <Be’, veramente no. Credo che in Grecia parte della riluttanza di Syriza a chiudere un accordo con i creditori sia dovuta al fatto che il partito non vuole rinunciare alla propria capacità di proporre i suoi sostenitori nei posti di potere. L’Italia invece ha fatto più progressi. Da voi è sempre stato un problema regionale, radicato nel Sud, ma ciò che serve adesso è una riforma totale del settore pubblico. Nel Paese va inculcato il principio di una burocrazia impersonale, una burocrazia che funziona nell’interesse pubblico e non sulla base di favoritismi e corruzione. E certo si sono visti dei progressi. Il tipo di corruzione degli ultimi vent’anni è stato diverso dal classico clientelismo dei vecchi democristiani>

E neppure col trasformismo

(Ernesto Galli della Loggia, Corriere) Cosa è il trasformismo? Il trasformismo si ha quando – come fu nell’Italia dopo il 1861 – si verificano determinate condizioni. Quando – a causa dell’inadeguatezza delle leadership, dell’incapacità di rinnovarsi ed essere in sintonia con i tempi, della difficoltà di elaborare piattaforme programmatiche credibili, del venir meno di spinte ideali, di una diffusa stanchezza o abulia delle élite sociali – le identità politico-culturali dei partiti, le loro fisionomie storico-ideali, e dunque anche i motivi delle loro differenziazioni e contrasti, s’indeboliscono fino a scomparire. È allora che questo vuoto tende inevitabilmente a essere riempito da una personalità capace e volitiva. La quale quasi naturalmente, forse al di là di ogni suo stesso consapevole disegno, diviene punto di attrazione e di coagulo non più di forze politiche, ormai virtualmente inesistenti, ma di tutti, o pressoché tutti gli attori del sistema politico, già tali o aspiranti comunque ad avervi una parte.

Ma è allora che nel sistema politico diviene centrale non il problema del governo, ma la questione del potere. Dunque non, per esempio, quella disponibilità a <collaborare al compito gravoso di costruire un Paese moderno e rispettato>, non il problema di trovare una linea programmatica adeguata che veda l’accordo di tutti, bensì, il problema di trovare un posto a tutti. A tutti quelli che ci stanno: un posto nelle liste elettorali, nel sottogoverno, dove che sia. Ed è allora che gli attori già presenti o aspiranti di cui sopra sono spinti individualmente a deporre ogni passata appartenenza, ad abbracciare qualunque idea, qualunque fedeltà, a sottoscrivere qualunque impegno, pur di ottenere il suddetto po-sto. Alla fine, infatti, sono i trasformisti la sostanza ultima e più vera del trasformismo. Quelli che con la loro presenza ne costituiscono la prova irrefutabile. Personalmente non mi spingo a sostenere che quanto sta accadendo in Italia costituisca già oggi questa prova. Che cioè l’abile leadership di Matteo Renzi, enfatizzata al massimo dalla liquefazione di Forza Italia e dalla disintegrazione dell’antica identità postcomunista del Pd, ci stia conducendo a una fase di trasformismo: anche se mi pare difficile negare che questo pericolo in realtà sia. Ma se il trasformismo è ciò che ho detto, nulla che vi rassomigli potrà mai favorire quel processo riformatore con un ottimismo della volontà forse in questo caso un po’ troppo volenteroso.

E non basta l’onestà

(Giovanni Belardelli, Corriere) Osservò una volta Benedetto Croce che la <petulante richiesta di onestà nella vita pubblica è l’ideale che canta nell’anima degli imbecilli>. Croce non voleva certo fare l’apologia della disonestà in politica, ma segnalare come l’appello all’onestà sia di per sé insufficiente a risolvere i mali della politica, che hanno anzitutto bisogno di rimedi, appunto, politici. Invece il sentimento anticasta, pur animato da sdegno giustificatissimo per i privilegi e le malefatte del ceto politico, ha diffuso nel Paese l’idea che della politica e dei partiti si possa fare a meno, per affidarsi ai controlli e alle inchieste della magistratura, magari con un inasprimento delle pene cui, pochi peraltro, riconoscono una vera capacità dissuasiva. Le notizie che si vanno pubblicando sull’inchiesta di Mafia Capitale mostrano, al di là della congruità (per molti dubbia) del riferimento alla mafia, la qualità scadente del ceto politico locale, romano e non solo. Come lasciano trasparire anche altre inchieste di questi anni, si tratta spesso di un personale politico (quasi esclusivamente maschile: sarà un caso?) privo di ogni aspirazione od obiettivo di natura politica, come non era invece nella Prima Repubblica (che avrà avuto molti difetti ma non questo).

Quanti sono coinvolti nelle inchieste di cui si occupano i giornali in questi giorni sembrano infatti spinti in via esclusiva da miserabili aspirazioni di arricchimento personale: se non è (solo) il denaro, sono magari le assunzioni di parenti e amici (chi ne chiede due, chi tre, chi dieci). Il fatto è che un tempo l’accesso alle carriere politiche locali operava dentro un quadro di relazioni e controlli nazionali che ormai non esistono più o si sono indeboliti notevolmente. Tranne evidentemente nel caso delle primarie per il Pd, che però hanno spesso finito con l’esaltare proprio il potere e l’influenza dei capibastone. Se le cose stanno così, i partiti – e in primo luogo, il principale partito di governo – dovrebbero prendere delle decisioni politiche adeguate. Il Pd, in particolare, dovrebbe rendersi conto di quanto sia poco giustificabile agli occhi dell’opinione pubblica continuare a sostenere il sindaco Marino solo perché non personalmente coinvolto nell’inchiesta giudiziaria. Non c’è bisogno di citare ancora Croce per osservare che l’onestà personale non è sufficiente a risolvere un problema di grave inadeguatezza politica.

La stupidità delle leggi

(Michele Ainis, Corriere) In Italia va così: norme dure come il ferro, interpretazioni al burro. Succede quando la politica aumenta le pene dei delitti, salvo poi scoprire che aumentano, in realtà, le prescrizioni. Succede con le regole del gioco democratico, talvolta arcigne, spesso cervellotiche. E allora non resta che trovare una scappatoia legislativa al cappio della legge. Almeno in questo, noi italiani siamo maestri. Come mostrano, adesso, tre vicende. Diverse una dall’altra, ma cucite con lo stesso filo. Primo: il caso De Luca. Nei suoi confronti la legge Severino è severissima: deve essere “sospeso di diritto”. Dunque nessuno spazio per valutazioni di merito, per apprezzamenti discrezionali. Tanto che il presidente del Consiglio “accerta” la sospensione, mica la decide. Però l’accertamento è figlio d’una procedura bizantina: la cancelleria del tribunale comunica al prefetto, che comunica al premier, che comunica a se stesso (avendo l’interim degli Affari regionali), dopo di che tutte queste comunicazioni vengono ricomunicate al prefetto, che le ricomunica al Consiglio regionale. Ergo, basterà un francobollo sbagliato per ritardare l’effetto sospensivo, permettendo a De Luca di nominare un viceré. E poi, da quando dovrebbe mai decorrere codesta sospensione? Dalla proclamazione dell’eletto, dissero lor signori nel 2013 (caso Iorio). Dal suo insediamento, dicono adesso. Acrobazie interpretative, ma in Campania l’alternativa è la paralisi. È più folle la legge o la sua interpretazione?

Secondo: la riforma del Senato. L’articolo 2 del disegno di legge Boschi è già stato approvato in copia conforme dalle assemblee legislative, stabilendo che i senatori vengano eletti fra sindaci e consiglieri regionali. La minoranza pensa sia un obbrobrio, la maggioranza a quanto pare ci ripensa. Però il ripensamento getterebbe tutto il lavoro in un cestino. La procedura, infatti, vieta d’intervenire in terza lettura sulle parti non modificate; se vuoi farlo, devi cominciare daccapo. Da qui il colpo d’ingegno: si proceda per argomenti, anziché per parti modificate. Dunque il voto cui s’accinge il Senato non è vincolato dal voto della Camera. Interpretazione capziosa? E allora verrà in soccorso una preposizione: Palazzo Madama aveva scritto “nei”, Montecitorio ha scritto “dai”. La copia non è proprio conforme, sicché il Senato può stracciarla. Domanda: meglio un obbrobrio sostanziale o un obbrobrio procedurale?

Terzo: la sentenza numero 70 della Consulta. Quella sulle pensioni, con un costo stimato in 18 miliardi. Il governo, viceversa, ha stanziato 2 miliardi, risarcendo le pensioni più basse, ma lasciando all’asciutto 650 mila pensionati. Poteva farlo? Dicono di sì, con argomenti che s’appoggiano sulla motivazione della sentenza costituzionale. Che però disegna un arzigogolo, dove c’è dentro tutto e il suo contrario. Sennonché il dispositivo è netto, e non distingue fra categorie di pensionati. Dal dispositivo, peraltro, derivano gli effetti vincolanti. A meno che quest’ultimo non rinvii espressamente alla motivazione, come succede di frequente. Non in questo caso, tuttavia. E allora, che diavolo avrebbe potuto inventarsi il nostro esecutivo? Quattrini non ne abbiamo, siamo ricchi soltanto di fantasia interpretativa. Morale della favola, anzi delle tre favole su cui sta favoleggiando la politica. Quando la legge, o il disegno di legge, o la sentenza fanno a cazzotti con la logica, diventa logica un’interpretazione illogica.

Le leggi della stupidità

Lettera a Sergio Romano sul “Corriere”
La minoranza Pd, forse senza rendersene conto, sta rappresentando nella pratica la quarta categoria dei gruppi umani così simpaticamente schematizzati dal grande studioso di storia economica C. M. Cipolla nel suo divertissement “Allegro ma non troppo”. Le sarei grato se ci ricordasse l’autore del piccolo capolavoro sulle leggi fondamentali della stupidità umana.

Risposta di Sergio Romano
Carlo Maria Cipolla fu uno dei più brillanti storici economici del secolo scorso. Quando lo conobbi al Seminario di studi americani di Salisburgo nel 1952, era appena trentenne ed era già “in cattedra” da tre anni. Si era laureato a Pavia, ma aveva seguito anche Fernand Braudel di cui aveva apprezzato i seminari a Parigi, nella Scuola di alti studi in scienze sociali. Cipolla aveva appreso che la storia economica è tanto più utile e importante quanto più allarga lo sguardo a campi che sembrano appartenere ad altre discipline: le nuove tecnologie e il loro impatto sulle trasformazioni sociali, l’evoluzione delle mentalità, le grandi epidemie, le politiche sanitarie. Lo spiegò sulle Annales (la rivista di Braudel e Lucien Febvre) con un articolo intitolato L’économie politique en secours de l’histoire (l’economia politica dà una mano alla storia). Mantenne la promessa con libri in cui le tecniche della navigazione a vela, l’evoluzione dei cannoni nelle guerre rinascimentali, la diffusione degli orologi sui campanili delle chiese e nelle piazze europee, il ricorso a nuove fonti di energia diventavano la pista da percorrere per fare ulteriori osservazioni e scoperte. Più tardi, nel 1959, fu chiamato a Berkeley dove l’Università della California lo volle titolare della cattedra di storia economica e sociale, ma non perdette mai i contatti con l’Italia. Lo richiamavano in patria l’amore per Pavia, la straordinaria ricchezza degli archivi italiani, l’atmosfera accogliente dell’Istituto europeo di studi universitari a San Domenico di Fiesole e della Scuola normale superiore a Pisa. Tutti possono consultare la ricca bibliografia di Carlo Cipolla, instancabile autore di libri, saggi e articoli. Meno facile è descrivere la sua ironia, il suo senso dell’umorismo, il fascino di una conversazione che passava continuamente con acume e levità dal passato al presente. Per fortuna ci ha lasciato il delizioso piccolo libro citato nella sua lettera. Ricorderò soltanto che in questo semiserio studio sulla stupidità umana, Cipolla individuò quattro categorie di persone: gli intelligenti, che riescono a procurare vantaggi a se stessi e agli altri; gli sprovveduti, che avvantaggiano gli altri ma fanno danni a se stessi; i banditi, che danneggiano gli altri avendone un utile; e infine gli stupidi, che riescono a fare danni agli altri senza trarne vantaggi per se stessi. Decida ciascuno dove collocare i propri conoscenti. Va detto che Cipolla sembra adombrare un giudizio più indulgente nei confronti dei banditi che non degli stupidi, i quali sono persino più pericolosi, socialmente, dei banditi.

About sex

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“There are a number of mechanical devices which increase sexual arousal, particularly in women. Chief among these is the Bentley Continental” Lynn Lavner

“Women might be able to fake orgasms. But men can fake a whole relationship” Sharon Stone

“My mother never saw the irony in calling me a son-of-a-bitch” Jack Nicholson

“Women need a reason to have sex. Men just need a place” Anonymous

“According to a new survey, women say they feel more comfortable undressing in front of men, than they do undressing in front of other women. They say that women are too judgmental, where, of course, men are just grateful” Robert De Niro

“Sex is one of the most wholesome, beautiful and natural experiences money can buy”
Steve Martin

“Bigamy is having one wife too many. Monogamy is the same” Oscar Wilde

Citazione

I vescovi aprono a gay e divorziati: non c’è più religione (Jena)

lorenzo.borla@fastwebnet.it

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