(Antonio Polito, Corriere) Dopo sette anni di sventure del capitalismo, gli elettori dei grandi Paesi europei si rivolgono alla destra liberale e conservatrice, non alla sinistra. In Gran Bretagna assegnano la maggioranza assoluta ai conservatori; in Francia, alle Regionali, rilanciano Nicolas Sarkozy; in Germania la Spd considera seriamente l’ipotesi di non presentare un candidato Cancelliere alle prossime elezioni. Nemmeno al culmine di un lungo periodo di disoccupazione e di impoverimento, nemmeno di fronte a quella che ci era stata dipinta come la crisi finale del liberismo, la sinistra socialdemocratica riesce dunque a trarre forza dalla sua promessa di giustizia sociale e di difesa del welfare. Forse aveva ragione chi, nell’89, pronosticò che la fine del comunismo suonava la campana a morto anche per il suo cugino d’occidente, il socialismo. È successo del resto anche in Italia. La sconfitta nel 2013 del Pd di Bersani e Fassina, scaturì proprio dal tentativo di costruire un blocco sociale intorno a una proposta socialdemocratica. Fallì per ragioni non dissimili da quelle che hanno travolto il Labour di Ed Miliband: le stesse classi sociali cui si rivolgevano non hanno creduto alla loro capacità di gestire l’economia.
I conservatori inglesi hanno invece vinto dopo un quinquennio di austerità di bilancio, quasi un milione di posti in meno nel settore pubblico (ma due milioni in più nel settore privato) e sulla base di un programma che prevede altri dodici miliardi di tagli al welfare. Come a dire: è il lavoro, non il deficit pubblico, che viene percepito come la misura della giustizia sociale. Thomas Piketty avrà pure riempito le librerie, Podemos le piazze, ma è un discendente di Margaret Thatcher ad aver riempito le urne. Ai partiti eredi della sinistra riformista non basta dunque cambiare pelle: devono cambiare elettorato. È ciò che ha fatto il Pd renziano. Che abbia cambiato pelle, si vede a occhio nudo. Ma sta cambiando anche elettorato: un po’ di sinistra se ne va, ma molta gente di centro e di destra può arrivare, come è già avvenuto alle europee. Sinistra è una parola che non pronunciano neanche più. Per dare una definizione del partito della nazione cui aspira Matteo Renzi, non bisogna pensare ad Alfredo Reichlin, ma ad Alcide De Gasperi e al suo motto per la Democrazia cristiana: un partito di centro che guarda a sinistra. Poi è tutto da vedere se ne avrà la forza, lo stile, e i risultati.
A questo punto anche la sinistra radicale, deve cercare nuove strade, e camuffarsi per rinascere. Nel voto britannico, per esempio, si è reincarnata sotto le sembianze del nazionalismo scozzese. Sul piano sociale la signora Sturgeon non ha niente da invidiare a Maurizio Landini. Il quale a sua volta suona il piffero alla sinistra italiana invitandola a rivivere sotto forma di pan-sindacalismo. Ma per quante analogie dimostri con la vicenda europea, quella italiana è viziata da un’anomalia di fondo: non dispone di una destra di governo, rimasta sepolta sotto le macerie del disastro finanziario del 2011, proprio come la destra inglese fu spazzata via dalla svalutazione e dalla recessione negli anni Novanta. Ai conservatori inglesi ci sono voluti 23 anni prima di tornare a una vittoria elettorale piena. Quanto tempo servirà al centrodestra italiano?
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Cosa succede adesso
(Ugo Magri, La Stampa) Approvato tra le urla del Palazzo e gli sbadigli della gente normale, l’Italicum sarà una vera sorpresa. Rivoluzionerà più di quanto si pensi la mappa del potere politico italiano. Nasceranno partiti nuovi, molti di quelli attuali scompariranno in fretta. Il potere si concentrerà nelle mani del premier, senza nemmeno aver cambiato la Costituzione… Questo prevede chi meglio conosce i risvolti della nuova legge. Un uomo solo al comando. <L’Italicum> spiega l’ex ministro delle riforme Quagliariello <metterà le leve in mano a un solo manovratore senza più l’intralcio rappresentato dai partiti alleati. La tendenza era chiara già col Porcellum, ma adesso si è andati ben oltre, perché la nuova legge pone fine alle ammucchiate del passato che permettevano di vincere ma impedivano di governare (vedi l’ultimo Prodi)>. Il partito del premier avrà automaticamente la maggioranza in Parlamento. Non dovrà chiedere soccorso a destra o a sinistra. Fine delle contrattazioni con gli pseudo-amici. Stop ai ricatti… E da qui discendono le conseguenze ulteriori.
Il mondo politico si spaccherà in due: tra quelli che avranno un candidato premier con reali possibilità di farcela, e chi ne sarà privo. Il futuro sarà dei primi, gli altri non conteranno nulla. Fino a ieri i partitini o le minoranze interne (vedi Pd) potevano vivere ugualmente, offrendosi come partner di un’alleanza in cambio di visibilità e poltrone. Ma nella nuova legge le coalizioni sono addirittura vietate. I partiti senza leader potranno bussare alla porta dei veri concorrenti, sperando di essere accolti sotto lo stesso tetto. Però dovranno sottostare alle regole della casa, incominciando dallo statuto: così vuole l’Italicum. In pratica, saranno fagocitati. E se un partitino tipo Sel, Fratelli d’Italia o Ncd proverà a ribellarsi correndo da solo? Padronissimo, sapendo di rischiare l’osso del collo. Per la nota legge del “voto utile”, gli elettori verranno risucchiati verso i partiti in grado di competere per la vittoria, ignorando gli altri. <Cosicché perfino la soglia del tre per cento potrebbe risultare un miraggio> dice Stefano Ceccanti, costituzionalista: <Al posto loro non ci proverei neanche>. Resteranno i grandi alberi, addio cespugli.
Ovunque esiste il ballottaggio, di regola perdono gli estremisti. In Francia, per esempio, è sempre andata così. Il secondo turno generalmente non giova ai candidati antisistema. Quando Le Pen arrivò a sfidare Chirac, venne travolto. Sua figlia Marine rischia la stessa fine con Sarkozy. Vince chi si fa meno nemici. Chi invece spaventa la maggioranza degli elettori finisce per perdere. L’Italicum taglierà le ali e darà un grande bonus a chi abita il centro della geografia politica. I candidati dalla più forte vena identitaria (tipo Salvini), potrebbero fare scintille nel primo tempo, salvo perdere il match al fischio finale. Oltralpe, non a caso si dice: <Al primo turno scelgo, al ballottaggio elimino>. Renzi, che intriga gli elettori di sinistra e di destra, partirà con un netto vantaggio. Accusa Toninelli, grillino: <Questa legge è fatta apposta contro i Cinque stelle>. Per la ragione appena indicata, e poi per un ulteriore motivo. Il ballottaggio ridurrà lo scontro a due soli partiti pure quando in campo ce ne fossero 3-4. Riproporrà la dialettica destra/sinistra che ultimamente sembrava in crisi. Le grandi manovre sono appena iniziate.
C’è ancora strada da fare
(Angelo Panebianco, Corriere) Quanto durerà l’Italicum, la nuova legge elettorale? C’è la possibilità che duri fino al momento in cui un governo (quale che sia) si convinca di essere in procinto di perdere le elezioni successive. Quel tal governo, probabilmente, cercherebbe di cambiare il sistema elettorale per evitare la prevista sconfitta. Ed è possibile che il suddetto governo si faccia forza, per riuscire nell’ impresa, anche delle polemiche e delle aspre divisioni che hanno oggi accompagnato il varo della legge. Una legge, come è già stato rilevato da molti, che ha chiari e scuri: assicura la governabilità grazie al ballottaggio e al premio di maggioranza; ma rischia anche, a causa della clausola di sbarramento del tre per cento, di favorire la frammentazione delle opposizioni.
Renzi, comunque, ha fatto, in materia istituzionale, solo metà del cammino. La metà che manca, altrettanto impegnativa, riguarda la definitiva riforma del Senato. I suoi avversari possono ancora impallinarlo, bloccando quella riforma. In tal caso, la vittoria ottenuta sarebbe di fatto neutralizzata, annullata. Se Renzi però batterà gli avversari anche sul Senato, allora potremo dire che, grazie al combinato disposto Italicum più fine del bicameralismo paritetico, egli avrà fatto davvero la Grande Riforma di cui si è parlato inutilmente per decenni.
Egli avrà cambiato su un punto decisivo l’impianto costituzionale: avrà tolto di mezzo quel meccanismo di “contrappesi senza pesi” (governi istituzionalmente deboli accerchiati da una pluralità di forti poteri di veto) costruito dai costituenti in coerenza con la propria allergia per i governi forti, per gli esecutivi che dominano i Parlamenti anziché esserne dominati. Se le opposizioni non riusciranno a fermare Renzi neppure sul Senato, allora dovranno rifare molti conti. Nulla ha più successo del successo. Se Renzi vincerà su tutta la linea, nella stessa minoranza del Pd, oggi in rotta di collisione con il premier, ci saranno probabilmente ripensamenti e riposizionamenti. È persino possibile che certi suoi esponenti, a quel punto, scoprano improvvisamente di essere sempre stati (in fondo in fondo) renziani.
Ma le opposizioni dovranno, fra un’invettiva e l’altra, fra una convulsione e l’altra, trovare il tempo per mettersi a pensare. L’Aventino, il fascismo. Ecco come si fa a banalizzare pagine serie e tragiche di storia patria: è sufficiente evocarle a sproposito. Non c’è nessun fascismo. E uscire dall’Aula al momento del voto per tenere compatto il proprio gruppo è del tutto legittimo ma non ha niente a che fare con l’Aventino. È proprio perché Renzi sta rafforzando, con le sue riforme, la posizione del governo all’interno del sistema politico che diventa necessaria, anzi vitale, l’emergere di una opposizione seria, non velleitaria.
Il rischio più grave che corre l’Italia in questa fase storica è di avere, al tempo stesso, un governo che si irrobustisce e un’opposizione che diventa sempre più debole, che si riduce a una confusa congrega di individui politicamente impotenti, agitatissimi e fastidiosamente urlanti proprio perché politicamente impotenti. Se un’opposizione seria ci fosse, oppure si (ri)formasse, il premier dovrebbe avere timore: dopo un anno e mezzo di governo, infatti, ancora non si è vista una vigorosa ripresa dell’economia. Se avesse di fronte a sé una siffatta opposizione, Renzi dovrebbe cominciare a preoccuparsi. È proprio a questo, a preoccupare i governi, che servono le opposizioni serie.
La buona squola
(Roger Abravanel, Corriere) Si è tenuto sciopero nazionale dei lavoratori della scuola, in gran parte insegnanti. Matteo Renzi ha dichiarato che non capisce il perché di una agitazione contro una riforma che ha, tra i principali obiettivi, quello di stabilizzare 100 mila precari. In realtà avrebbe molto senso che a protestare, più che i lavoratori, fossero gli utenti della scuola, vale a dire gli studenti italiani. In Italia i giovani sono tre volte più disoccupati degli anziani (molto peggio che in tutti i Paesi sviluppati, inclusa la Grecia) non tanto per colpa della crisi economica, ma di una scuola che non si è adeguata ad un mondo del lavoro molto cambiato. Il suo impianto è rimasto quello della scuola di 80 anni fa, che prevedeva che la classe dirigente studiasse al liceo e poi all’università, mentre le masse dovevano imparare un mestiere. Andava bene per il mondo industriale, ma nella società post-industriale sono necessarie nuove competenze. Tutti devono agire come dei dirigenti, lavorare in autonomia (l’etica del lavoro di questo secolo), risolvere problemi, avere spirito critico, saper comunicare e lavorare in team.
La colpa dell’arretratezza è delle tante lauree inutili sfornate da mediocri atenei che da anni creano schiere di giovani disoccupati. Dato che il vero costo per una famiglia nel far studiare un figlio per cinque anni è l’investimento del suo tempo, le famiglie meno abbienti preferiscono mandare i figli a lavorare. Così a prendersi una laurea vanno i giovani che possono contare su un posto nella piccola azienda di famiglia. Si è pure perduta l’eccellenza scolastica come dimostra il fatto che abbiamo solo un terzo di giovani con i risultati migliori che in Finlandia o in Canada e la metà che in Francia. L’etica del lavoro, così importante per i datori di lavoro, non si impara in una scuola di assenteisti: il 60 per cento dei giovani in Italia dichiara di saltare volontariamente giorni di scuola contro il 12 dei tedeschi e il 4 dei cinesi e giapponesi. Nelle scuole italiane gli alunni copiano, gli insegnanti suggeriscono le risposte ai test Invalsi e i genitori difendono i figli a tutti i costi.
L’apprendistato di cui tanto si parla da noi è un fallimento totale. Non ha nulla a che vedere con quello vero, l’apprendistato tedesco che manda i giovani a 16 anni a metà tempo a lavorare e a capire come funziona il mondo delle imprese. La scuola e l’università italiane hanno anche perduto completamente la loro funzione di certificare il merito degli studenti. Nulla si è fatto contro gli scandali dei 100 e lode al Sud doppi che al Nord e i voti di laurea sono chiaramente inflazionati. Infine, l’idea che si possa introdurre un minimo di trasparenza sulla qualità delle scuole italiane, anche questa è miseramente fallita. Ricercare i risultati Invalsi nel sito del Ministero dell’Istruzione, università e ricerca (Miur), che potrebbero dire qualcosa sulla qualità dell’insegnamento di una scuola, è oggi una missione impossibile.
La trasformazione che dovrebbe subire la nostra scuola veramente epocale. Purtroppo molti insegnanti non sembrano averne coscienza: il 70 per cento ritiene di preparare sufficientemente gli studenti al primo lavoro, mentre la maggioranza dei giovani pensa l’esatto contrario e in questo concorda con aziende e imprese. Non si chiede di rottamare le scuole, né di privatizzarle, ma di inserire un po’ di vera meritocrazia. Ma per partire devono mobilitarsi gli studenti. Che purtroppo quando manifestano si lamentano di vecchi stereotipi come l’assenza del diritto allo studio, invece di chiedere più diritto al lavoro grazie a una scuola più efficace. Se anche si iniziasse domani, ci vorrebbero almeno dieci anni. Che fare nell’attesa? La risposta c’è. Darsi da fare per scoprire le ottime scuole e università che ci sono anche da noi, avvicinarsi prima al mondo del lavoro durante gli studi con esperienze valide anche all’estero e accettare la concorrenza fortissima di tanti che cercano di entrare fra i 300 mila neodiplomati e neolaureati che comunque ogni anno anche in Italia trovano lavoro. I giovani che capiranno che la ricreazione è finita, ce la faranno; gli altri si aggiungeranno alle liste dei disoccupati.
Scuola e società
(Luigi La Spina, La Stampa) La questione che, dal mondo della scuola, si estende all’intera società italiana, e determinerà il futuro di tutti i suoi cittadini, è indubbiamente il dibattito sul merito; e su come e da chi, debba essere valutato. L’accusa di voler consegnare ai presidi un potere, arbitrario e insindacabile sul reclutamento e sulle carriere degli insegnanti, infatti, è stata percepita come emblematica di una rivolta contro la pretesa di introdurre criteri di selezione meritocratica in un campo in cui, ai bassi stipendi, fa da contrappeso un ugualitarismo iper garantista. Un sistema che costringe molti docenti, bravi e appassionati, all’eroismo di un volontariato scolastico che, senza la speranza di alcun riconoscimento né economico né di carriera, fa dell’impegno professionale una individuale e privatissima testimonianza di coscienza civile. Sulle spalle di colleghi sfiduciati e distratti, di presidi affogati in una burocrazia ossessiva e assurda, di genitori spesso arroganti avvocati dei loro figli.
Nessuno, a parole, nega la necessità di un riconoscimento del merito, non solo in campo scolastico, ma anche nelle fabbriche, negli uffici, nelle professioni. Così, la vera trincea di una diffusa e disperata difesa dell’esistente che si scava contro qualunque proposta in tal senso è sempre quella della contestazione su chi e su come si debba valutare questo “merito”. A questo proposito, ha assunto un valore simbolico, la coincidenza dello sciopero nelle scuole proprio con il giorno in cui si dovevano svolgere nelle aule le prove Invalsi, quelle che hanno cominciato a valutare il livello di qualità dell’insegnamento. Un esperimento osteggiato da molti docenti, sempre con l’accusa di non far uso di criteri corretti e adeguati alla specificità della scuola italiana.
Renzi, quando ha lanciato lo slogan della “buona scuola”, forse non si era reso conto di intraprendere la sfida più rischiosa, per lui e per l’intera sinistra del nostro Paese. Sia per il coinvolgimento di quella decina di milioni di persone che sono interessate, in vario modo, agli effetti di tale riforma, sia perché il premier propone alla cultura, soprattutto dei suoi elettori, una rivoluzione che davvero si dovrebbe retoricamente qualificare come “epocale”. Ci vorranno probabilmente molti anni, speriamo non un altro mezzo secolo, perché si comprenda il drammatico boomerang costituito dall’esasperato ugualitarismo praticato in Italia sulla scia di ingenui slogan sessantottini. Perché la giusta lotta contro la selezione di classe, misconoscendo però il merito individuale, ha finito per irrigidire tanto la scala sociale del nostro Paese, da rafforzare proprio quella divisione classista che voleva combattere. Così oggi, solo i figli della borghesia intellettuale ed economica, aiutati dai patrimoni paterni, possono competere sui mercati internazionali delle professioni più lucrose e prestigiose, perché conoscono le lingue straniere, hanno vissuto esperienze all’estero o hanno frequentato costose scuole internazionali. I nostri licei e i nostri istituti secondari non riescono più a svolgere uno dei compiti che ha contribuito di più al cambiamento della struttura del nostro Paese a metà del secolo scorso, quello di alimentare il motore dell’avanzamento sociale delle classi meno avvantaggiate.
Di fronte all’importanza di questo cambiamento culturale per il futuro del nostro Paese, si dovrebbe pure sopportare il costo di una approssimativa e, magari, anche sbagliata valutazione, piuttosto che arrendersi all’impossibilità del giudizio. Perché i criteri si possono cambiare, i selezionatori pure, ma il principio del merito deve essere valorizzato. Vengono rivolte molte critiche, per esempio, alle domande per i test d’ingresso a medicina perché alcune sono cervellotiche e incoerenti rispetto all’obbiettivo di individuare attitudini e preparazione per quel corso di studi. Se si guardano, però, i risultati, si constaterà che, nella media, i selezionati hanno ottenuto nella scuola secondaria i voti migliori. Le eccezioni, naturalmente, ci sono sempre, perchè la fortuna, l’emotività o la destrezza nel rispondere ai quesiti contano parecchio nell’esito, ma la statistica aiuta a dare un significato interessante a quei verdetti. Fuori dalle nostre scuole, non c’è più l’Italia, ma il mondo e la competizione non guarda più le frontiere. Quella spinta comunque innovativa, antiautoritaria e libertaria, di mezzo secolo fa non si deve trasformare, agli inizi di questo nuovo, in una barriera difensiva e conservatrice, timorosa di pagare il prezzo di una rivoluzione coraggiosa: quella di strappare il potere a “chi lo ce ha”, per consegnarlo a “chi sa”.
Conflitto di interessi
(Corriere, Cronaca) Nell’annunciare l’impegno del Governo sul conflitto d’interessi, la ministra Boschi ha detto: <Se tanti nostri ex leader ed ex premier ci avessero messo la stessa tenacia mostrata sui dettagli dell’Italicum, avremmo già una legge>. In effetti, tanto se ne è parlato, ma una legge non è mai stata approvata. Nel 1998, periodo finale del governo Prodi, il provvedimento era definito “in dirittura d’arrivo”. Anni più tardi Walter Veltroni, che era stato vice di Romano Prodi, disse che quel governo non riuscì a regolare il conflitto d’interessi a causa del tentativo di riforma istituzionale portato avanti dalla Commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema: <Rimane una delle colpe maggiori del centrosinistra>. Anche D’Alema fece autocritica, anni dopo, ma negò che il motivo fosse la discussione bipartisan in Bicamerale. Nel 2000, poco prima della caduta del suo governo, D’Alema disse: <Il conflitto d’interessi? Una questione del futuro, forse>. Non voleva proprio saperne, avallando così lo scandalo di un tycoon dei media in posizioni di governo, cosa che non sarebbe mai stata ammessa in un Paese civile. Così Prodi ci riprovò col secondo governo, nel 2006. Nel 2013 fu la volta di Pier Luigi Bersani, che inserì il conflitto d’interessi negli 8 punti proposti a Beppe Grillo. Infine, Enrico Letta. Da premier, nel gennaio 2014 promette un intervento sul conflitto d’interessi. <Letta dal ’98 è stato ministro in 3 governi> dichiarò il renziano Giachetti <Adesso è premier dall’aprile scorso. Che tempismo!>.
Capitalismo di relazione
(Daniela Polizzi, Corriere) Che, secondo lui, il capitalismo di relazione e l’assenza di trasparenza che lo caratterizza, siano uno dei mali del Paese, il premier lo aveva già fatto capire chiaramente. E su tutti i dossier chiave ha chiamato al suo fianco profili professionali che venivano dal mercato. È il caso di Andrea Guerra, l’ex Ceo di Luxottica, ora consulente strategico sui casi industriali più delicati. Anche davanti alla platea delle società che aspirano a Piazza Affari, con cui Renzi si è cimentato, Guerra era al suo fianco. L’approdo al listino per il tandem Renzi/Guerra è un modo per togliere quel tappo che blocca il decollo delle aziende verso i mercati globalizzati. Sempre che si rispettino le regole. In primo luogo l’apertura dei board a consiglieri indipendenti, un passo indietro degli imprenditori e delle famiglie che non devono avere come obiettivo primario il controllo delle aziende (anche attraverso scatole cinesi, noccioli duri o patti di sindacato) a discapito della crescita. Questo, se si vuole essere credibili nei confronti degli investitori internazionali sempre più attratti dai venti di ripresa che soffiano sul Paese.
È possibile tuttavia che dietro le dichiarazioni di Renzi agli operatori economici, ci sia stato anche il riferimento alle due partite più calde in materia di modernizzazione del Paese. La prima porta il nome di Metroweb ed è il progetto di portare la banda ultralarga in tutta la Penisola, nel quale il governo vorrebbe che tutte le parti in campo partecipassero: dai soci del Fondo strategico a F2i fino agli operatori delle Tlc. Senza lasciare fuori Telecom Italia. La seconda sono proprio i futuri assetti dell’ex monopolista. Dopo lo scioglimento del patto di sindacato incardinato sulle relazioni tra le banche, Telecom sembra diventata sempre più una public company. Appunto: sembra. Quel che non è chiaro a Renzi e al suo staff è che cosa diventerà. C’è il colosso Vivendi di Vincent Bolloré determinato ad accrescere il suo peso azionario nell’incumbent (l’azienda dominante di uno specifico mercato) italiano. Bollore è un imprenditore attento al mercato. Ma non ha mai disdegnato le alleanze e le relazioni. E guarda con interesse ai piani di Mediaset e Sky. La domanda che Renzi si pone, forse con qualche preoccupazione, è proprio verso quale direzione e quale modello capitalistico il patron francese potrebbe traghettare Telecom.
Scienza
Il telescopio di Hubble
(Tullio Avoledo, Corriere) L’Hubble Space Telescope, che ieri ha festeggiato il suo 25° compleanno, ha continuato il lavoro del grande astronomo e astrofisico statunitense Edwin Powell Hubble (1889-1953), portando lo sguardo dell’umanità sempre più lontano nell’universo. Le immagini dello spazio riprese da Hubble accompagnano da 25 anni le nostre vite, mostrandoci un universo meraviglioso, fonte di costanti sorprese. Concepito nel 1940, progettato e costruito tra il 1970 e il 1980, il telescopio Hubble, grosso come un autobus, orbita a un’altezza di 560 km e compie un’orbita intorno alla Terra ogni 92 minuti. E dire che l’esordio del costoso telescopio (2 miliardi di dollari del 1990) non faceva presagire nulla di buono. Le prime immagini trasmesse a terra, distorte e fuori fuoco a causa di quella che tecnicamente si definisce un’aberrazione sferica, gettarono nello sconforto gli astronomi e i tecnici. Una commissione appositamente istituita stabilì, alla fine dei suoi lavori, che l’origine del problema era un errore nel montaggio di una lente, fuori posizione di 1,3 millimetri.
A causa di quell’errore, Hubble avrebbe potuto compiere solo una minima parte dei compiti che gli erano affidati. In particolare non sarebbe mai riuscito a fotografare oggetti deboli o che richiedevano un alto contrasto. Ma alla fine Hubble si prese la sua rivincita. Con diverse missioni di servizio, la Nasa riuscì non solo a rimediare ai problemi, ma anche a migliorare le prestazioni del telescopio, aggiornandolo costantemente con le tecnologie più evolute. In pratica, sul delicato strumento è stata fatta un regolare “tagliando” con ben quattro missioni dello Shuttle, che di volta in volta hanno sostituito strumenti di osservazione, pannelli solari e unità di alimentazione, e persino il vecchio registratore a nastro con uno a stato solido. Hubble, anziché invecchiare, è oggi molto più potente di quanto lo fosse nel 1990, quando per lui era stata prevista una vita di 15 anni.
Le immagini dello spazio riprese da Hubble accompagnano da 25 anni le nostre vite, mostrandoci un universo meraviglioso, fonte di costanti sorprese. Grandi artisti, poeti e musicisti si sono ispirati a quelle foto che mostrano un universo di seducente splendore, pulsante di colori e di forme bizzarre come il carnevale di Rio. Hubble è riuscito a misurare la composizione delle atmosfere dei pianeti extrasolari scoperti nel 1995, e nel 2010 ha fotografato la galassia più lontana da noi, distante più di 13 miliardi di anni luce. Le sue lenti ci hanno permesso di vedere l’universo com’era 480 milioni di anni dopo il Big Bang: vicinissimo, su scala cosmica. Il giorno in cui Hubble andrà fuori servizio, uscirò di casa, alzerò lo sguardo al cielo e reciterò per lui, ma anche per tutti noi, queste parole scritte da Bulgakov nel 1924, nel romanzo La guardia bianca: <Tutto passerà. Le sofferenze, i tormenti, il sangue, la fame e la pestilenza. La spada sparirà, ma le stelle resteranno anche quando le ombre dei nostri corpi e delle nostre opere non saranno più sulla terra. Non c’è uomo che non lo sappia. Perché dunque non vogliamo rivolgere il nostro sguardo alle stelle?>
Citazione
L’età della pietra non è finita per mancanza di pietre, e l’età del petrolio non finirà per mancanza di petrolio (Sceicco Ahmed Zaki Yamani)
lorenzo.borla@fastwebnet.it