Le elezioni del 7 maggio 2015 nel Regno Unito confermano al governo il leader conservatore David Cameron. I rapporti fra le istituzioni dell’Unione Europea ed il Primo Ministro britannico sono collaudati: così come, tra alti e bassi, hanno convissuto finora, è probabile che troveranno soluzioni e modi per continuare a convivere.
Lo stesso Cameron, però, ha preso l’impegno di promuovere, entro il 2017, un Referendum popolare per verificare se il popolo del Regno Unito voglia, o meno, continuare a far parte dell’Unione Europea. Questo Referendum servirà a fare chiarezza; sarà, quindi, utile anche agli europei del Continente.
Proprio in un momento di difficoltà occorre guardare oltre le attuali, non esaltanti, vicende dell’Unione Europea. Proviamo a riflettere sull’ideale della Federazione Europea. Servirebbero, in primo luogo, una Costituzione della Federazione, approvata dalla maggioranza della popolazione di ciascuno Stato che intende federarsi, e immediatamente dopo un Presidente federale, eletto a suffragio universale diretto dalla popolazione di tutti gli Stati federati. La circostanza che il Regno Unito rientri, o meno, nella prospettiva della Federazione Europea ha grande rilevanza nel determinare quelle che potrebbero essere le concrete caratteristiche giuridiche, politiche, culturali, della Federazione medesima.
Consideriamo, in linea di ipotesi, cosa succederebbe se il Regno Unito decidesse di separarsi. Non ci sarebbero traumi, perché sarebbe interesse comune mantenere un’area comune di libero scambio commerciale in Europa. E’ probabile, tuttavia, che alcuni fra gli attuali Stati Membri dell’Unione, forse anche alcuni fra quelli che hanno adottato l’euro come moneta, sarebbero indotti a cambiare parere circa l’opportunità di mantenere la loro adesione, non tanto all’Unione così come è stata finora, quanto ad un ben più impegnativo ordinamento federale.
Per quanto mi riguarda, come italiano che conserva amore e rispetto nei confronti della Patria italiana (come comunità di lingua, storia, memorie, tradizioni culturali) sarebbe possibile accettare fino in fondo la scelta della Federazione Europea soltanto a condizione che, oltre all’Italia, facessero parte integrante di questa almeno i seguenti Stati: Francia, Germania, Spagna ed Austria. Questo è il nucleo minimo, indispensabile, perché nasca una nuova realtà istituzionale effettivamente plurale, che non mortifichi e non rinneghi le peculiarità degli Stati Membri, ma consideri la varietà fattore di arricchimento spirituale e di vivacità, da cui tutti possono trarre giovamento.
Nel nucleo minimo includo pure l’Austria, che per secoli è stata sede dell’Impero, sotto la dinastia degli Asburgo, e la cui storia è strettamente intrecciata a quella dell’Italia, non meno di quanto siano intrecciate le storie della Spagna e della Francia. Dalle dominazioni e dalle guerre, alla cooperazione pacifica, all’integrazione economica ed istituzionale: in questo percorso virtuoso si coglie il valore esemplare della Federazione Europea, che rappresenterebbe una svolta positiva della Storia.
Pensare ad un nucleo minimo, non significa voler escludere alcuno; laddove, invece, ogni ulteriore Stato che intendesse federarsi aggiungerebbe valore all’insieme. Penso, in particolare, al Portogallo, al Belgio, alla Slovenia, alla Slovacchia; penso, soprattutto, ai Paesi Bassi, in cui nacque Erasmo da Rotterdam (1469-1536), una delle migliori espressioni di quella cultura umanistica e di quello spirito di tolleranza che vorremmo fossero elementi caratterizzanti la fisionomia europea.
Dal punto di vista della costruzione dell’ordinamento, la Federazione Europea sarebbe infinitamente più complessa di quanto non sia stato il precedente storico degli Stati Uniti d’America. Basti pensare che la Federazione sarebbe una “repubblica”, nel significato classico del termine derivato dal latino “res publica”, cosa pubblica. Alcuni suoi Stati Membri, tuttavia, continuerebbero a restare monarchie; si pensi, ad esempio, alle Case regnanti della Spagna, del Belgio, dei Paesi Bassi. In Europa c’è un precedente relativamente recente di un ordinamento federale includente Stati membri che conservavano un proprio Re: si pensi al secondo Reich tedesco, la cui Costituzione fu emanata il 16 aprile 1871. Il quel caso, al vertice dell’ordinamento federale, con il titolo di imperatore (Kaiser), c’era il Re di Prussia, ma alcuni Stati della Federazione, come ad esempio la Baviera, conservavano le proprie dinastie regnanti.
Non c’è problema giuridico che non possa avere soluzione quando c’è la volontà politica di risolverlo e quando lo si affronta con buon senso.
Fermo restando il sincero sentimento di affetto che una parte considerevole della popolazione del Regno Unito nutre nei confronti della propria dinastia regnante, non sta certamente qui la pietra d’inciampo nei rapporti con l’Unione Europea. Inghilterra, Scozia ed Irlanda sono parte costitutiva, fondante, dell’Europa in quanto comunità spirituale ed ideale. Tale assunto non può essere messo in discussione da alcuno. Gli inglesi, tuttavia, si sentono degli europei atipici, degli europei “speciali”, per almeno tre motivi: 1) hanno memoria del loro recente Impero globale, che tuttora comporta intense relazioni con gli Stati del Commonwealth, dall’Australia alla Nuova Zelanda, dal Canada al Sud Africa, senza dimenticare India e Pakistan; 2) vantano un rapporto di alleanza molto stretto con gli Stati Uniti d’America, potenza della quale condividono praticamente in toto gli indirizzi di politica estera; 3) hanno una storica diffidenza nei confronti della Germania, che considerano naturale leader dell’Europa continentale. I tre motivi sommati fanno sì che gli inglesi siano molto freddi nei confronti di un’Europa sempre più integrata. Preferiscono tenere un piede dentro ed un piede fuori. Godere dei vantaggi e delle opportunità che l’Unione Europea, quale finora è stata, offre al Regno Unito; boicottare dall’interno tutte le politiche orientate nel senso della Federazione Europea. L’Europa come area di libero scambio, per loro basta ed avanza.
Le recenti elezioni del 7 maggio hanno richiamato l’attenzione degli organi di informazione sulla Scozia: grazie alla legge elettorale basata su collegi uninominali a turno unico, il Partito nazionalista scozzese (SNP) ha conquistato 56 dei 59 collegi istituiti nel territorio scozzese. La legge elettorale esalta chi è meglio piazzato nella concentrazione territoriale del voto. In ciascun collegio prevale il candidato che ha avuto anche solo un voto in più dei concorrenti; così il SNP ha ottenuto 56 seggi, a fronte di poco più di un milione e quattrocentomila voti ottenuti. Per fare una comparazione, il Partito indipendentista (antieuropeo) di Nigel Farage (UKIP), ha conquistato 3 milioni 800 mila voti, ma, essendo questi distribuiti in tutto il territorio del Regno, ha ottenuto soltanto un seggio in Parlamento.
Gli scozzesi non rappresentano, però, un problema per l’Unione Europea. Mediamente, sono molto più europeisti degli inglesi. C’è invece da interrogarsi su quanto il sentimento di appartenenza all’Europa possa albergare in una città quale Londra, che ha caratteristiche irripetibili. Secondo le più recenti statistiche, Londra ha già raggiunto la popolazione di 8 milioni 600 mila abitanti (il massimo storico) e si prevede sia in crescita. E’ una città multirazziale e multiculturale; in cui non ci sono soltanto persone provenienti da altri Paesi europei, ma anche tante persone le cui famiglie sono originarie dalle ex colonie dell’Impero britannico. Quanti trascorrono un breve periodo a Londra, per turismo, per studio, o per inserirsi nel mondo del lavoro, avvertono subito che questa grande città, così diversificata e composita, è tenuta insieme da due fattori. Il primo è la rete integrata dei trasporti. Chi arriva in città si abitua subito ad usare l’Oyster, una carta che si ricarica come la Postepay. Tutte le linee della metropolitana, le linee della rete ferroviaria di superficie che collega il centro urbano ai sobborghi, tutti gli autobus, hanno uno stesso dispositivo che può leggere, con un semplice tocco, l’Oyster o altre consimili carte di abbonamento utilizzate dai residenti. Ad ogni rilevazione, viene diminuito l’ammontare di denaro della carta, in relazione al percorso effettuato. Tutto molto semplice ed efficiente. Le reti di trasporto sono per lo più di proprietà di privati; ma gli utenti hanno a che fare con un sistema unico di “Transport for London”. L’efficienza del sistema è garanzia degli stessi profitti che i proprietari privati dei singoli tratti di rete possono ottenere. Tutti, quindi, fanno un lavoro di squadra ed il potere pubblico controlla che ogni cosa vada a buon fine. Siamo lontani anni luce dalla disgraziata realtà delle nostre amministrazioni locali; da noi se ci sono tre tipologie di trasporto (metropolitana, ferrovia di superficie, autobus), ci saranno tre diverse società di gestione, cosicché gli amministratori di designazione politica abbiano ciascuno il proprio orticello di potere, secondo una logica feudale.
Il secondo fattore che tiene unita Londra è, ovviamente, la lingua; ma non si tratta di un inglese “colto”. So poco del sistema scolastico del Regno Unito, ma mi chiedo quante persone dei milioni che si muovono freneticamente a Londra abbiano una sia pure approssimativa conoscenza di Francesco Bacone e della regina Elisabetta la grande, di Locke e di Newton, di Shakespeare e di Charles Dickens, di Disraeli e di Gladstone, di John Maynard Keynes, di Winston Churchill, o di Bertrand Russell. In altri termini, Londra ospita persone con una chiara coscienza di sé quanto a fisionomia culturale, o è l’emblema della cosiddetta modernità, laddove gli esseri umani sono costitutivamente “senza radici”, ossia sradicati? Perché mai uno sradicato dovrebbe tifare per la causa ideale della Federazione Europea?
Con riferimento a Londra, viene naturale evocare il titolo di un film dei fratelli Coen del 2007 “Non è un paese per vecchi” (No Country for Old Men). Si ha l’impressione che gli anziani non ci siano, se ne incontrano pochi. Forse se ne sono andati per vivere in altre città, più caratterizzate in senso inglese e più a dimensione d’uomo perché meno frenetiche. Gli anziani hanno memoria storica dei luoghi; anche la loro assenza è un sintomo del senso di sradicamento.
Tutto è nuovo, “deve” essere nuovo. Basta fare una passeggiata lungo il Tamigi, dalle parti del Tower Bridge, per vedere una serie di grattacieli che, con le loro forme strane, sembrano fatti apposta per sfidare le leggi della fisica. Si ha l’impressione che siano unicamente realizzati con vetro e cristallo: il che non induce certamente a pensare ad abitazioni per esseri umani, ma a sedi di uffici. Chi più conta sta più in alto, nell’esaltazione della concezione verticale del potere. Il paradiso delle corporate, ossia delle multinazionali, delle grandi banche e dell’alta finanza.
Il modello vincente è quello degli Stati Uniti d’America. Continuo a pensare che la nostra vecchia Europa sia altro e sia preferibile. Sono certo che proprio gli Stati Uniti siano la potenza più interessata a che non si realizzi mai una Federazione Europea. Immaginiamo soltanto come potrebbe essere una politica estera effettivamente decisa a Bruxelles e non più a Washington. Qualche esempio. La Francia ha sempre avuto grande interesse nei confronti dell’Africa. Si pensi agli intensi rapporti non soltanto con l’Algeria e la Tunisia, ma anche con tutti i Paesi della cosiddetta Africa Occidentale francese. La Germania ha sempre avuto un’attenzione particolare a costruire rapporti di buon vicinato e di cooperazione con la Russia. Francia, Spagna e non ultima l’Italia, hanno sempre cercato di mantenere buone relazioni con il mondo islamico complessivamente inteso. Anche nei tempi più cupi della guerra fredda e della divisione del mondo in due blocchi, l’Italia è sempre stata guardata con sospetto dai settori più oltranzisti dell’Alleanza Atlantica, per la sua capacità di ritagliarsi una politica di amicizia con gli Arabi: dall’ENI di Enrico Mattei, ad Aldo Moro, a Giulio Andreotti, a Bettino Craxi, si coglie una linea di continuità.
E’ la geografia, prima dell’ideologia, a determinare la politica estera. Se l’Europa fosse un soggetto politico, ossia se si arrivasse ad una Federazione Europea, potrebbe dare un grande contributo di equilibrio e di stabilizzazione nei rapporti internazionali. Il sovrappiù di ideali, tipicamente europeo, che possiamo ricondurre direttamente al pensiero di Immanuel Kant, ci porterebbe ad insistere sull’esigenza di accrescere la legalità nei rapporti internazionali. Il che significherebbe, in primo luogo, operare per riformare lo strumento a ciò deputato: l’Organizzazione delle Nazioni Unite. La riforma del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, intanto con l’allargamento del numero dei Membri permanenti, non è ulteriormente rinviabile.
In conclusione, la sfida che il Regno Unito ci lancia con la scelta del Referendum è seria, ma, lungi dal rappresentare l’ennesimo momento di mortificazione della prospettiva della Federazione Europea, può tradursi in un’occasione di rilancio. Una possibile buona parola d’ordine è: Federazione Europea subito, con coloro che ci stanno.
Palermo, 10 maggio 2015
Livio Ghersi