Il paradosso di Condorcet – Zibaldone N. 392

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(Luca Ricolfi, Il Sole24Ore) Nel 1785 il marchese di Condorcet, uno degli enciclopedisti francesi, pubblicava un saggio che rappresenta uno dei primi tentativi sistematici di applicare la matematica allo studio della società (Essai sur l’application de l’analyse á la probabilité des décisions rendues à la pluralité des voix). In quell’opera veniva formulato, per la prima volta, il seguente paradosso. Supponete che una comunità, anziché essere chiamata a scegliere fra due proposte politiche, si trovi a dover scegliere fra tre, che giusto per fissare le idee chiameremo A, B e Pluto. In una situazione del genere, se la scelta avviene votando a due a due le proposte in campo, può verificarsi una situazione davvero sorprendente e cioè: A batte B, B batte Pluto, ma Pluto batte A. Noi ci aspetteremmo il contrario: se A vince su B, e B vince su Pluto, a maggior ragione A dovrebbe vincere su Pluto. E invece può succedere che sia Pluto a vincere su A, nonostante Pluto sia stato sconfitto da B, che a sua volta è stato sconfitto da A. In termini tecnici si dice: le preferenze dell’elettorato sono circolari, o “intransitive”. Da allora questa situazione viene denominata “paradosso di Condorcet”, o “paradosso del voto”, e viene spesso evocata per ricordare i limiti della regola principe della democrazia, ovvero la scelta a maggioranza, quando le alternative in gioco sono tre anziché due.

Ma quand’è che le alternative in gioco sono tre e non due? Nei sistemi politici reali accade di rado, perché le alternative si strutturano perlopiù intorno a due sole opzioni che siamo soliti a chiamare Destra e Sinistra. I partiti possono essere anche molti, ma le vere alternative sono solo due: votare un partito di destra, oppure un partito di sinistra. Oggi non è più così. Oggi non ci sono solo più A e B, ossia Destra e Sinistra. Oggi, un po’ in tutta Europa, c’è anche Pluto. Specialmente nei paesi che hanno subito le cure della Troika (Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda), ma anche negli altri due grandi paesi mediterranei, l’Italia e la Francia, l’elettore si trova di fronte a 3 alternative di fondo: votare per un partito di Destra tradizionale, votare per un partito di Sinistra tradizionale, votare per Pluto. Chi è Pluto? Pluto ha mille volti, a seconda dei Paesi e dei periodi, ma quello che li accomuna tutti è la totale avversione alle politiche di austerità di questi anni, considerate responsabili della lunga stagnazione delle economie europee. Pluto può essere anti-euro, o semplicemente anti-Bruxelles. Può volere l’uscita dall’Europa, o sognare gli Stati Uniti d’Europa. Può essere di destra (come il Front National in Francia e Alba Dorada in Grecia), o essere di sinistra (come Podemos in Spagna e Syriza in Grecia). Se poi parliamo dell’Italia, può essere di tutto: di destra (Salvini e Meloni), di sinistra (Vendola), né di destra né di sinistra (Grillo).

Il punto, però, è che Pluto è incompatibile sia con la destra sia con la sinistra che dell’Europa sono state le artefici. E Pluto, ci piaccia o meno, è diventata la terza opzione presente sulla scena politica europea. Un’opzione che, a giudicare dai risultati delle elezioni del maggio scorso e dagli ultimi sondaggi, attira un numero di elettori comparabile con quello dei due classici poli della destra e della sinistra. In Grecia Pluto ha preso il 50% dei consensi, in Francia il 37%, in Italia il 35%, in Irlanda il 20%, in Spagna e Portogallo circa il 10% (ma gli ultimi sondaggi lo danno in ascesa, specie in Spagna dove Podemos è dato vicino al 25%). La presenza di Pluto rende improvvisamente attuale la matematica del marchese di Condorcet. Se le opzioni sono tre e non due, nulla esclude di incappare in situazioni come quella descritta nel paradosso del voto. Il cui senso non è soltanto di mostrarci i limiti della democrazia come metodo di scelta collettiva, ma di avvertirci di un’insidia insita nelle procedure democratiche: quando le preferenze degli elettori sono circolari, aumenta il rischio che l’esito di una consultazione dipenda in modo cruciale dalle regole del gioco, ad esempio dall’ordine in cui si mettono in votazione le alternative. Potrà sembrarvi un ragionamento puramente teorico, ma un esempio concreto relativo all’Italia basterà a mostrare che non lo è. Supponiamo che fra due anni si vada a votare con la legge elettorale di cui oggi si parla, e che nessuno dei due principali partiti raggiunga il 40% dei consensi. Il Pd prende il 35%, Forza Italia con un listone raccoglie il 26%, Grillo si ferma al 24%, il restante 15% si spalma su una miriade di fricioletti (partitini e partitucci). Si va al ballottaggio fra Pd e Forza Italia, e vince il Pd (55 a 45), perché grillini e fricioletti si dividono più o meno equilibratamente fra destra e sinistra. Scenario perfettamente realistico, mi pare.

Ma ora attenzione a quel che potrebbe accadere. Modifichiamo solo in misura minima l’esito del primo turno. Supponiamo che il Pd prenda sempre il 35%, e che il secondo e il terzo partito prendano, come prima, il 26% e il 24%, con un’unica piccolissima variante: il secondo posto, con il 26%, è di Grillo, mentre Forza Italia deve accontentarsi del terzo posto, con il 24%, e quindi non va al ballottaggio. Che cosa possiamo immaginare che accada, in una situazione del genere? Secondo me lo scenario più verosimile è una vittoria di Grillo al secondo turno. È infatti ragionevole supporre che l’elettorato di Forza Italia non si suddivida equamente fra Pd e Grillo, ma preferisca votare Grillo piuttosto che il Pd. Se i fricioletti si dividono a metà, e 3 elettori di Forza Italia su 4 danno il voto a Grillo (e 1 su 4 al Pd), Grillo vince 52 a 48. È proprio quello di cui voleva avvertirci Condorcet: in certe situazioni, l’esito di una votazione dipende dall’ordine in cui vengono fatte votare le alternative in gioco. Se la votazione decisiva (il ballottaggio finale) è fra sinistra e destra, vince la sinistra, ma se è fra sinistra e Pluto, vince Pluto. Il problema è che, se le forze fondamentali di un sistema politico sono tre, e la legge elettorale è quella che stiamo per adottare, una differenza minima fra i risultati del secondo e del terzo arrivato può determinare l’esito della votazione decisiva. È questo che vogliamo?

In soccorso della “Coalizione sociale”

(Lanfranco Turci, Circolo Rosselli) Il progetto di “coalizione sociale” lanciato da Maurizio Landini potrebbe essere l’inizio di una ristrutturazione della sinistra e della nascita di un nuovo soggetto politico. O potrebbe presto risolversi nella inconcludenza e in nuove rotture all’interno di ciò che resta della sinistra. Io tendo a vedere nella mossa di Landini notevoli potenzialità che vanno colte e aiutate ad emergere: 1. Tenendo conto dello stato della sinistra, a questo punto vado alla disperata. Secondo me in una società dominata dai media (che ci piaccia o no è quella in cui viviamo) non si può prescindere da un leader nuovo e trainante. Guardate Tsipras e Iglesias. Un leader che abbia sangue fresco da spendere, una origine popolare e l’impronta del mondo del lavoro. Un leader che non lasci dubbi sul suo orientamento di sinistra e antiliberista. Un leader che non cerchi l’angolino identitario e sfidi il Pd parlando ai vecchi elettori e militanti della sinistra, e al contempo ai giovani senza storia politica alle spalle… Per me fare un discorso di questo tipo è uno strappo, anzi è uno schiaffo, alla mia formazione e alla mia cultura politica. Ma solo un Landini, nel panorama attuale della sinistra, ci potrà salvare, o almeno tentare, con qualche possibilità di riuscita.

2. Landini ha capito che occorre un linguaggio politico nuovo. Non serve il nostro da intellettuali della politica, né tanto meno il politichese corrente che allontana la gente come la peste. Landini, o per calcolo consapevole, o per la sua stessa formazione, si muove fuori dal recinto consunto della politica corrente. Quel recinto, lo sappiamo, è consunto per effetto di una campagna ben pilotata di anni e anni di predicazione antipolitica, che ha contestato, in nome della lotta agli scandali, le basi stesse della istituzioni democratiche e dei corpi intermedi. Ma quel recinto è stato logorato anche, e prima ancora, dallo svuotamento dei poteri democratici per opera delle politiche liberiste e delle istituzioni burocratiche europee. Per questo Landini non parla al momento di un partito, e si concede perfino un cenno di indifferenza sulla contrapposizione fra destra e sinistra. Credo che egli si renda conto che il recinto tradizionale della politica è stato distrutto da Renzi, dalla sua sfida come uomo del fare, come leader di un Partito della Nazione capace di scavalcare i vecchi confini in funzione di un centro oligarchico e populista. Per questo non sarà più possibile contare sul vecchio campo di gioco della politica (centrodestra contro centrosinistra) con gli stessi giocatori e con i riti del passato. Per questo, invece di partire dal posizionamento politico, Landini preferisce partire dai problemi sociali come egli li ha vissuti in questi anni, con un occhio allargato oltre la categoria dei metalmeccanici o del solo lavoro salariato. In questo modo riesce a parlare a platee oggi inaccessibili non solo ai residui della sinistra Pd (e parlo di quel poco che è ancora definibile sinistra in quel partito), ma anche ai partitini di sinistra e a reti associative come le nostre.

3. Resta il fatto che, pur facendo lo sconto ai prezzi che un processo nuovo come la “Coalizione sociale” deve pagare per affermarsi quale attore significativo nel quadro politico, sappiamo, almeno tutti noi che veniamo da una certa esperienza, che non basta la somma di mille vertenze, di mille movimenti e di mille conflitti per dare vita a un processo politico che duri e si affermi. Basti pensare in tutt’altro contesto alla evoluzione di Podemos in partito politico. Io non dubito che Landini ne sia consapevole. Se così non fosse saremmo di fronte a un fuoco di paglia destinato a esaurirsi rapidamente, con un lascito di conflitti intanto innescati nella sinistra politica e nel sindacato. Io credo invece che la ridefinizione del modo di essere del sindacato dovrà trovare una sua strada, perché il problema della sua burocratizzazione e il rischio di corporativizzazione non sono una invenzione polemica.

4. Sull’altro versante la strada della costruzione della “Coalizione sociale” è tutta da inventare e alla fine non potrà non investire e coinvolgere quanto c’è oggi di sinistra politica. Non credo, ad esempio, che l’idea del “Coordinamento vasto” lanciata quasi due mesi fa da Sel a conclusione di Human Factor, possa essere recuperata oggi a prescindere dal progetto di “Coalizione sociale”, o possa sovrapporsi ad esso automaticamente. Né basterà una grande campagna referendaria sul Jobs act per andare avanti. Anzi sarà da pensarci bene prima di giocarsi tutte le carte su un terreno scivoloso (do you remember il referendum sulla scala mobile?) in cui Renzi si contrapporrà a noi con una impostazione da plebiscito pro o contro di lui. Molto più importante è invece accumulare le risorse per costruire una rappresentanza della sinistra capace di muoversi autorevolmente e con ambizione egemonica sullo scacchiere politico e sociale. In questa prospettiva io vedo la “Coalizione sociale”.

I dinosauri non vogliono cambiare

(Andrea Garibaldi, Corriere) I dinosauri non sono animali estinti, tutt’altro. Così Corrado Giustiniani chiama i 70.000 dirigenti pubblici italiani <che sono i più pagati al mondo, nel Paese dove i cittadini sono i peggio serviti>. Giudizio che fotografa un sistema. Secondo i dati di Carlo Cottarelli, ex commissario alla spending review, segretari generali, capi di gabinetto, capi dipartimento dei ministeri guadagnano due volte e mezzo i loro colleghi tedeschi, il doppio dei francesi. Nell’agosto del 2014 The Economist ha scritto: <Per guadagnare 136 mila euro l’anno una ricerca su Internet rivelerà che tu debba essere il direttore dell’information technology in una società inglese, il governatore dello Stato di New York o un usciere del Parlamento italiano>. Il caso dinosauri ha un altro aspetto, oltre a quello economico: <Qual è il cuore della questione burocratica in Italia? L’assenza della cultura del risultato>, ha detto il giurista Sabino Cassese. Nel suo libro (Dinosauri) Giustiniani annota: <Per allacciarsi alla rete elettrica in Germania sono necessari 17 giorni, in Italia 124. Per un permesso di costruzione in Finlandia bastano 66 giorni, in Italia 234>. Nell’anno 2009 Renato Brunetta, ministro per la Pubblica amministrazione, fece approvare un decreto <per favorire la produttività, l’efficienza e la trasparenza del pubblico impiego>. Prevedeva premi per i migliori. Solo che l’applicazione delle norme non sempre corrisponde agli intenti. In molti casi gli obiettivi per ottenere i premi erano stabiliti dalle stesse amministrazioni. Come dire: mettere la volpe di guardia a se stessa. Per esempio, prendiamo gli Esteri. La Direzione per la promozione del sistema Paese, che ha il compito di catalogare le opere d’arte nelle ambasciate, si dà metà del premio se visita almeno tre ambasciate in un anno e l’altra metà se le visite guidate alle collezioni della Farnesina staccano almeno 500 biglietti. Gratifiche per il minimo del proprio dovere. I dirigenti pubblici italiani guadagnano in media poco meno di 300 mila euro l’anno. Uno dei provvedimenti del governo Renzi è stato l’imposizione di un tetto a 240 mila euro lordi, prendendo come limite le retribuzioni più basse nel pubblico impiego, moltiplicate per dieci. Positiva inversione di tendenza, dunque, e Giustiniani ne segnala altre. Ecco gli avvocati dello Stato, che non possono più sommare gli alti stipendi alle parcelle obbligatorie che le amministrazioni da loro difese dovevano versare. Ecco, per gli stessi avvocati dello Stato, il divieto di partecipare ad arbitrati. Ecco i tagli alle retribuzioni dei dipendenti di Camera e Senato. Ed ecco, di contro, i ricorsi contro i tagli, quasi duemila nei due rami del Parlamento. Cambiamenti faticosi, nella pubblica amministrazione.

Burocrati contro

(Sabino Cassese, Corriere) Il disegno di legge sulla riorganizzazione della Pubblica amministrazione fu presentato al Parlamento il 23 luglio dello scorso anno. Da sette mesi è fermo alla commissione Affari costituzionali del Senato, che deve esaminarlo in sede referente. La Commissione ha dovuto dedicare due mesi all’esame della legge elettorale. Poi, ritornata alla riforma della Pubblica amministrazione, è stata costretta ad attendere i pareri di 14 commissioni, e in particolare quelli della commissione Bilancio, a loro volta condizionati dalle relazioni tecniche della Ragioneria generale dello Stato. Sono piovuti emendamenti e sub-emendamenti. Forse siamo arrivati alla settimana decisiva. E tra quindici giorni il disegno di legge potrebbe passare in Aula per essere discusso e approvato, salvo ricominciare lo stesso percorso alla Camera dei deputati. Insomma, sembra un caso di scuola per spiegare gli inconvenienti del parlamentarismo e del bicameralismo. Si è lamentato di questa situazione anche il presidente del Consiglio, consapevole che questa è la terza gamba del suo progetto di riforma istituzionale, accanto alle modificazioni costituzionali e alla legge elettorale

C’è una ragione di questo lentissimo procedere? Il disegno di legge è ambizioso. Ma è quello di cui il Paese ha bisogno, considerato che tutti si lamentano delle disfunzioni amministrative. Contiene undici diverse deleghe, di cui alcune multiple. Ma queste erano necessarie perché nessun Parlamento al mondo riuscirebbe a regolare nei particolari il complesso universo amministrativo. Tocca molte materie: dall’organizza-zione periferica dello Stato al Corpo forestale, dalle forze di polizia all’attuale dirigenza, dai segretari comunali alle Camere di commercio. Ma anche questo era necessario, perché se tutto resta come è oggi, tutto continua a funzionare male. E allora sarebbe compito del Parlamento procedere speditamente, non farsi frenare dai mille interessi in gioco, non rivendicare le proprie prerogative senza nello stesso tempo far fronte alle proprie responsabilità. È evidente che ogni articolo di un disegno di legge di questa natura ha un nemico pronto a rallentare e a opporsi. Ma il Parlamento non deve solo ascoltare, deve anche convincersi e decidere.

Credo che neppure il governo sia immune da colpe. Dovrebbe ricordare ogni giorno che questa è una priorità. Che si ha un bel chiedere fisco più giusto, un cittadino meglio servito, una sanità più funzionante, una scuola più moderna, se la macchina del fisco, dei servizi sociali, della sanità, della scuola ha strutture arcaiche, procedure lente, personale e poco motivato. La Pubblica amministrazione è la più grande azienda del Paese: se essa funziona male il Paese funziona male. Infine, Parlamento, Governo e la stessa Pubblica amministrazione dovrebbero ricordare – come amava dire Filippo Turati, un socialista – che le tranvie non stanno lì per dare lavoro ai tranvieri ma per trasportare la gente. In altre parole dovrebbero ricordare che l’obiettivo da perseguire e di fornire un miglior servizio ai cittadini, non di ascoltare gli interessi degli addetti ai lavori.

In difesa della burocrazia

Giuseppe De Rita, sociologo e fondatore dell’istituto Censis, scrive sul “Corriere della Sera” della necessità di una classe efficiente di funzionari e tecnocrati che applichino concretamente le decisioni della politica, declinandole alla loro attuazione pratica e sapendo come farlo. Una “burocrazia” nel senso neutro dell’espressione, oggi usata invece da capro espiatorio di ogni inefficienza.

Quando la politica traduce le sue ambizioni in specifiche decisioni di riforma e di sviluppo, si ritrova fatalmente a fare i conti con la loro attuazione, cioè con i modi in cui esse possano essere tradotte in fatti concreti. Si ritrova quindi a doversi affidare agli “specialisti” dell’attuazione: ovvero a una ristretta cerchia oligarchica; o a ristretti circuiti tecnocratici; o alla tradizionale burocrazia, titolare dei poteri quotidiani. La politica che non può contare su una sua oligarchia, su una sua tecnocrazia, su una sua buona burocrazia, è una politica letteralmente inerme, destinata a restare su un decisionismo teorico, talvolta solo un esercizio di annuncio.

Se si legge in l’attuale realtà politica italiana si possono intravedere i segni di un tale pericolo di inefficacia. L’attuale governo si è molto speso nel rilanciare la decisionalità della politica, ma di fatto non scattano i processi della sua attuazione: la burocrazia, cioè “l’intendenza”, non segue, perché si è spappolata (colpisce ad esempio il quasi nullo contributo del ministero della Pubblica istruzione sul confezionamento del cosiddetto Piano scuola); la tecnocrazia tende a confinarsi nei propri settori elettivi senza più rischiare innovazioni su temi che tecnici non sono (in fondo scontando l’infelice esperienza di alcuni governi a forte caratura tecnocratica); e l’oligarchia non è cosa che si formi solo concentrando le decisioni in poche persone fidate, di solito più propense a fare cerchio magico che a connettersi con la molteplicità dei poteri della realtà italiana.

In conclusione, senza burocrazia, senza tecnocrazia, senza oligarchia, è difficile governare il sistema, nelle sue diverse articolazioni. Per cui, anche chi ha nell’ultimo anno guardato con interesse il vigoroso rilancio della decisionalità politica, non può non vedere con preoccupazione questo tendenziale pericolo di inermità. In fondo, nella nostra storia unitaria ogni fase di primato della politica è stata sostenuta da qualche protagonista della attuazione: la fase post-risorgimentale fu gestita con il supporto della burocrazia piemontese; Giolitti governò con un legame stretto con i prefetti; Mussolini dette ampio spazio alla oligarchia (Beneduce e dei suoi uomini: Menichella, Mattioli, Saraceno, ecc.); la Dc del dopoguerra si fidò degli eredi di quest’ultima oligarchia (operante nelle partecipazioni statali e nella Cassa del Mezzogiorno) ma cooptò anche, e senza battere ciglio, parte della burocrazia cresciuta nel ventennio precedente; e lo stesso Craxi, il più propenso al decisionismo, si attrezzò con una sua oligarchia, anche di buona taratura tecnocratica. Solo la cosiddetta Seconda Repubblica, ubriaca di personalizzazioni verticistiche, non ha avuto attenzione alla fase di attuazione delle decisioni; e ne abbiamo tutti sofferto le conseguenze.

Il problema della attuazione operativa delle decisioni politiche è quindi aperto e verosimilmente l’attuale premier lo ha già percepito: in fondo, è nelle condizioni di non avere più paura delle estenuanti mediazioni che ha con determinazione rottamato; ma deve al tempo stesso evitare il pericolo di restare sulle decisioni senza curarne la loro implementazione. Certo dovrà superare la sua innata diffidenza per tecnocrati, burocrati ed oligarchi; ma la sua sfida per il futuro prossimo è proprio sul valico fra decisionalità politica e sua trasposizione nei fatti.

Le leggi scritte male

(Giuseppe Salvaggiulo, La Stampa) <Che cosa si aspettava, Renzi, rottamandoci? Noi almeno le leggi le sapevamo scrivere…>. Sorride il consigliere di Stato, commentando l’ennesimo pasticcio legislativo del governo. Sulla scuola, sul decreto fiscale, sulle partite Iva, sul Jobs act. Nell’ovattato mondo delle burocrazie romane, tutto era previsto fin da quando Renzi si é insediato al governo epurando i grand commis. <Ora ci sono soltanto i petit commis e i risultati si vedono>. Secondo un giurista che li conosce bene, queste figure (capi degli uffici legislativi, capi di gabinetto, segretari generali) sono lo “scheletro dello Stato”. Sono loro a scrivere le leggi. I politici al massimo indicano obiettivi e di tecnica normativa sanno poco (quelli ora al potere ancora meno dei predecessori). Renzi ha fatto una rivoluzione. Per la prima volta a capo dell’Ufficio legislativo di Palazzo Chigi, la sala macchine del governo dove vengono vagliati i testi dei ministeri e si elaborano quelli di diretta volontà del premier, non c’è un giurista di alto rango ma Antonella Manzione, ex capo dei vigili urbani di Firenze. Ad affiancarla, anziché i presidenti del Consiglio di Stato e consiglieri della Corte dei Conti, solo anonimi funzionari. Anche nei ministeri sono stati accantonati i giudici delle alte magistrature. Ora s’arrangiano avvocati di non eccelsa fama e funzionari parlamentari. Con due difetti: una certa predisposizione all’accondiscendenza politica verso Renzi ve una scarsa capacità di scrittura delle leggi.

Il caso dei consiglieri di Stato è emblematico: il governo Renzi ne ha fatti fuori otto su dieci, nei posti chiave. A Palazzo Chigi, rompendo una lunga tradizione, non ce ne sono più. E quando il brillante Roberto Garofoli, ex capo di gabinetto di Letta, è stato ingaggiato da Padoan al ministero dell’Economia, a Palazzo Chigi hanno storto il naso: nomina non concordata e di peso tale da controbattere con cognizione ai neofiti giureconsulti di provenienza fiorentina. Inoltre Renzi ha rivoluzionato lo stile di governo. Attivismo, esautorazione dei ministri e annunci rapsodici mandano in tilt gli uffici legislativi. Prima di lui, la prassi era sempre stata scandita da questi passaggi, gestiti dagli alti burocrati: testi elaborati nei ministeri; trasmissione all’ufficio legislativo di Palazzo Chigi; riunioni di coordinamento tra ministeri; pre-consiglio ministri per limare il testo; infine palla ai politici nel Consiglio dei ministri che vara i provvedimenti. Da un anno questa ritualità è saltata, anche perché il premier lancia nel dibattito mediatico provvedimenti che non ci sono, vede l’effetto che fa e li corregge in corsa, virando dove annusa consenso popolare o interessi che non vuole del (vedi il caso liberalizzazioni). Il risultato è i Consiglio dei ministri arrivano testi semilavorati, schemi generali quando non addirittura slides. I testi vengono corretti o scritti dopo, spesso male. Esemplari i casi di un decreto legge pubblicato in Gazzetta ufficiale 15 giorni dopo il Consiglio dei ministri (alla faccia della necessità e urgenza) e della famigerata e anonima “manina” che aggiunse la norma pro Berlusconi nel decreto fiscale. E quando, nelle riunioni degli uffici legislativi qualcuno solleva obiezioni, Manzione lo gela: <Questo lo vuole Renzi>. Anni fa, anche Gianni Letta in diceva <questo lo vuole Berlusconi>. Ma capitava tre volte l’anno, non ogni settimana.

Il decreto per abolire i decreti

(Lorenzo Salvia, Corriere) Come togliere di mezzo quella montagna di decreti attuativi che non servono più ma che vanno avanti per inerzia e intasano gli uffici di mezzo governo? Semplice, con un altro decreto attuativo. Sembra uno scioglilingua o un piccolo esercizio da ufficio complicazione cose semplici. E invece è l’emendamento che governo e relatore hanno presentato al Senato per la riforma della Pubblica amministrazione. Il problema è serio. Da Monti in poi tutti i governi hanno usato la stessa tecnica (anti) parlamentare: un decreto legge sui principi base e poi una sfilza di provvedimenti attuativi per fissare i dettagli. All’inizio ha funzionato ma adesso siamo all’ingorgo: su 1.100 decreti attuativi previsti dalla fine del 2011 ne sono stati emanati poco meno della metà. Gli altri vanno comunque preparati, poi firmati e pure trasmessi alle Camere per il parere. Anche se sono inutili perché superati dagli eventi, anche se su quella materia il governo ha cambiato idea. Lo dice la legge e non si può svicolare. La mossa del governo serve proprio a far piazza pulita di tutte le norme attuative che non servono più. Con un rischio. Dice l’emendamento che <al fine di semplificare il processo normativo, il governo è delegato ad adottare uno o più decreti legislativi>. Uno solo potrebbe non bastare, perché le materie sono tante ed anche diverse fra loro. Non è che si toma alla casella di partenza, tipo gioco dell’oca?

Il nodo delle decisioni

(Giovanni Orsina, La Stampa) E’ difficile negare che lo sforzo di ricostruzione delle catene di comando al quale si sta applicando il governo, nella scuola così come nelle istituzioni, trovi degli antecedenti negli analoghi tentativi dei gabinetti Berlusconi. Quei tentativi sono falliti, sia perché maldestri, sia perché si sono scontrati con un’opposizione ideologica durissima, a tratti apocalittica – dietro la quale, per altro, si nascondevano spesso gli interessi delle corporazioni. Si potrebbe dire che per anni tutte le potenze della vecchia Italia si sono coalizzate in una sacra caccia alle streghe contro lo spettro della decisione: giudici e presidenti, accademici e letterati, studenti e girotondini. Fino a quando il conflitto sulla capacità decisionale della politica è arrivato a un punto tale che la politica non ha retto più, e ha collassato. E dal suo cortocircuito è nato il governo tecnico di Monti. Perché le decisioni, in fin dei conti, qualcuno deve pur prenderle.

Sono pericolosi, i tentativi del governo Renzi di ricostruire le catene di comando all’interno della politica e nei luoghi, come la scuola pubblica, che dalla politica dipendono? Certo, lo sono. Che un potere concentrato si presti al rischio d’abuso – al livello al quale si concentra, s’intende: un preside è cosa ben diversa da un premier – è a tal punto ovvio che non c’è nemmeno bisogno di sottolinearlo. Sono maldestri, quei tentativi, superficiali, approssimativi? Anche in questo caso la risposta, purtroppo, dev’essere spesso affermativa: basti pensare che la proposta cruciale di dar più potere ai dirigenti scolastici è stata un colpo di scena dell’ultima ora. Chiedere al governo più pensiero e meno improvvisazione, vagliarne con cura le proposte, pretendere dei contrappesi là dove i poteri si stiano concentrando troppo: tutto questo è non soltanto opportuno, ma obbligatorio.

Detto ciò, tuttavia, a me sembra pure indiscutibile che l’Italia non potrà mai risollevarsi se le catene di comando, che ovviamente sono anche catene di responsabilità, non vengono ricostruite. È troppo tempo che in questo Paese si ha l’impressione che nessuno decida più nulla; che chi è in posizione di comando abbia paura di decidere; che qualsiasi decisione sia destinata fatalmente a smarrirsi e annegare in paludi sconfinate di veti e distinguo; che si esorcizza la discrezionalità del potere circondandola di vincoli formali e criteri “oggettivi” – con l’ottimo risultato di massimizzare al contempo la paralisi, il disimpegno e la corruzione.

E’ deprimente – per tornare all’esempio della scuola – sentire da un preside, al quale si sta chiedendo conto d’un disservizio, soltanto parole d’impotenza: anche perché sono parole di irresponsabilità, parole pilatesche buone a scaricare le inefficienze nelle nebbie d’un sistema senza volto. Se Renzi sta trovando il consenso del Paese, è soprattutto perché cerca di sciogliere il nodo pluridecennale della decisione. I molti che gli si oppongono dovrebbero badare di meno a come impedirgli di scioglierlo, e di più a come scioglierlo meglio. Anche perché il vero contrappeso a un potere concentrato – e qui non parliamo più di presidi, ma di premier – può fornirlo soltanto un’opposizione robusta, vitale e propositiva. Un’opposizione che non sappia soltanto dire di no.

Colleghi

(Repubblica) Secondo la società Executive Search, nel 60% delle aziende italiane nascono relazioni amorose tra dipendenti, scoraggiate solo dal 5% dei datori di lavoro; la qual cosa ci colloca al top della tolleranza, secondi solo alla Germania. In Francia e Inghilterra l’80% della forza lavoro ha avuto una relazione con un/a collega. Negli Stati Uniti la percentuale è del 40%, di cui un terzo alla fine si sposa. In Italia l’ufficio è il luogo preferito per gli incontri fatali (35%), più delle palestre (20%) e delle serate combinate da amici (10%). Inoltre è stato rilevato che le relazioni hanno avuto un effetto benefico sul rendimento: un italiano su cinque sostiene migliora l’efficienza e fa aumentare le ore di straordinario.

Irish humour

Paddy was driving down the street in a sweat because he had an important meeting and couldn’t find a parking place. Looking up to heaven he said, ‘Lord take pity on me. If you find me a parking place I will go to Mass every Sunday for the rest of me life and give up me Irish Whiskey!’ Miraculously, a parking place appeared. Paddy looked up again and said, ‘Never mind, I found one.’

lorenzo.borla@fastwebnet.it

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