Libia: pacato discorso ai guerrafondai

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L’Italia sollecita l’Organizzazione delle Nazioni Unite ad autorizzare un intervento militare in Libia, per ricondurre sotto controllo quel Paese. L’Italia si dichiara pronta a dare un proprio contributo in termini di soldati da schierare nel teatro di guerra; si fanno anche le prime quantificazioni e si parla di cinquemila unità dell’Esercito.
Ci sarebbe una terza affermazione, che si fa fatica a riportare perché esagerata: l’Italia è pronta ad assumere la guida dell’eventuale intervento internazionale.
Proviamo a valutare razionalmente il significato di queste frasi, che ritroviamo nei quotidiani cartacei, nei periodici on-line, e che sentiamo ripetere nei telegiornali e nelle trasmissioni televisive.

E’ bene partire dall’ONU, l’unica Organizzazione legittimata ad autorizzare un intervento, sempre che si voglia restare nel solco della legalità internazionale. Come tutti dovrebbero sapere, l’ONU ha un Organo direttivo, il Consiglio di Sicurezza. Di questo fanno parte cinque Membri permanenti, ciascuno dotato di potere di veto. I cinque membri sono: Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito, Francia.
Come si può soltanto ipotizzare che oggi la Russia voglia fare un favore alle stesse forze internazionali che l’avversano nella questione dell’Ucraina, che vorrebbero colpirla con sanzioni economiche sempre più efficaci, che addirittura vorrebbero armare le forze armate ucraine? Qui bisogna mettersi d’accordo con la logica, prima che con la politica. O si ritiene che la Russia sia una potenza che può dare un contributo importante per realizzare stabili condizioni di pace tanto in Europa, quanto nel Medio Oriente e in Nord Africa. Come pensa chi scrive, per quanto poco possa valere la sua opinione. Oppure, se si vuole avversare la Russia, è inutile parlare dell’ONU, dove la Russia ha potere di veto.

Veniamo alla ipotesi di schierare soldati in territorio libico. Qui, stando a quanto dicono tutti gli osservatori, non esistono al momento interlocutori organizzati, che siano credibili come possibile nucleo fondativo di una nuova realtà statuale. Se mancano punti di riferimento fra le forze in loco, ne discende che bisognerebbe muoversi con l’intento di affrontare, una per una, le singole bande armate, per disarmarle e costringerle ad accettare un ordine imposto. In altre parole, le truppe internazionali non avrebbero soltanto un compito d’interposizione, ma sarebbero coinvolte in azioni di guerra guerreggiata. Sarebbero costrette a muoversi in ambiente ostile, subendo attacchi da tutte le parti. Di conseguenza, non avremmo i tre o quattro morti una tantum, perché un nostro blindato esplode su una mina, ma potremmo avere decine, forse centinaia, di morti ogni giorno.
Gli strateghi potrebbero obiettare che l’intervento di terra dovrebbe essere preceduto dalla distruzione della capacità militare delle varie bande libiche, grazie all’impiego sistematico dell’aviazione. Già, ma chi bisognerebbe bombardare? Si colpirebbero gli insediamenti urbani, massacrando anche la popolazione civile? Perché è proprio questo che fanno i fanatici di ogni colore politico e di ogni credo religioso: si fanno scudo della popolazione civile.

Un intervento militare avrebbe un costo etico intollerabile: tanto in termini di popolazione civile libica massacrata per il cosiddetto danno collaterale dei bombardamenti aerei, quanto in termini di vite umane stroncate fra i soldati delle truppe internazionali, quindi anche fra i soldati italiani.
Non è poi da sottovalutare la questione dei costi economici. Com’è noto, l’Italia non dispone più di un Esercito di leva, ma utilizza dei militari di professione. Questi vanno pagati per il loro lavoro; tanto più se impiegati in missioni internazionali. Tanto più se queste missioni sono molto rischiose. Non parliamo poi del costo degli armamenti. Quando si combatte una guerra vera ed i figli di mamma sono mandati a morire, non si può stare a lesinare su armamento, munizioni, equipaggiamento. E’ vero che nella nostra storia nazionale ritroviamo pure un Mussolini che pensava di vincere le guerre con milioni di baionette e che mandò nel gelo della Russia soldati che calzavano scarpe con la suola di cartone. Ma un governo italiano che volesse oggi dare dimostrazione di altrettanta improvvisazione, si troverebbe la rivoluzione in casa nel giro di un mese.

Faccio soltanto un accenno all’articolo 11 della Costituzione della Repubblica italiana, perché viviamo in tempi in cui il valore sacrale delle carte costituzionali non sembra di moda.
La Libia, come entità unitaria, fu un’invenzione del colonialismo italiano. In precedenza, la Cirenaica e la Tripolitania erano realtà distinte, con tradizioni culturali diverse. Uno Stato composito può restare unito soltanto con un regime autoritario.

In Italia molti, troppi, rimpiangono il dittatore Gheddafi, con il quale hanno fatto buoni affari, senza stare troppo a sottilizzare sui metodi che egli utilizzava per conservare il proprio potere all’interno del Paese. Chi scrive non è di questa opinione. Rivendica, anzi, un proprio articolo, scritto il 22 marzo 2011, che era titolato “Dalla parte di Bengasi”. In quel caso, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU autorizzò un intervento militare perché le truppe di Gheddafi, guidate dal figlio del dittatore, si apprestavano ad entrare nella ribelle Bengasi ed era più che probabile un bagno di sangue. Gheddafi aveva usato l’aviazione libica per bombardare le città libiche che volevano sottrarsi alla sua autorità. Scrissi allora: «L’Italia ha tutto da guadagnare nei suoi rapporti con l’opinione pubblica araba, complessivamente intesa, se applica con coerenza il semplice criterio che alcuni princìpi fondamentali valgono per tutti gli esseri umani in quanto tali e, pertanto, devono valere anche per gli Arabi. Primo principio: nessun governo può legittimamente reggersi se non ha il consenso da parte della popolazione. Secondo principio: i cittadini di Bengasi valgono quanto i cittadini di New York, o di Roma, o di Parigi, o di Mosca, o di Londra. Di conseguenza, non si può consentire che siano massacrati da un pazzo sanguinario. Terzo principio: ogni popolo deve liberamente scegliere i propri governanti. Inutile, quindi, chiedersi chi prenderà il potere se Gheddafi cade. Prenderà il potere la classe politica che i Libici sceglieranno». Confermo, parola per parola.

Ho il sospetto, ma è qualcosa di più di un sospetto, che quanti da noi erano amici di Gheddafi, abbiano scientemente operato affinché la situazione in Libia non si stabilizzasse e prevalessero le tendenze disgregatrici e centrifughe, fino all’attuale caos.
Esistono tecniche di disinformazione dell’opinione pubblica. Una di queste riguarda un avventuriero che, operando tra Iraq e Siria, si è autoproclamato “califfo”. Anche in Libia sventolerebbero le bandiere nere di cotanto “califfo”. La nostra ignoranza di Occidentali non ci consente di comprendere che questo avventuriero, dal punto di vista della religione islamica, è un bestemmiatore. E ciò vale tanto per i Sunniti, quanto per gli Sciiti. Le bandiere nere contraddistinguevano il Califfato della dinastia degli Abbasidi. Peccato che bisogna fare un salto indietro nel tempo, fino al nostro Medio Evo, perché quel Califfato durò, fra alterne fortune, dal 750 al 1258. Dall’ottavo al tredicesimo secolo. Oggi viviamo nel ventunesimo secolo e qualcosa, nel frattempo, è successa. Peraltro, i Califfi Abbasidi erano fini politici, abituati a navigare fra le difficoltà, che cercavano di comporre con l’arte diplomatica. Richiamo soltanto alcuni episodi. Nel decimo secolo si costituì un altro Califfato, detto Fatimide (dal nome della figlia del Profeta Maometto), che controllava il Nord Africa e l’Egitto, e che era espressione di Sciiti ismailiti. Una situazione simile a quella che si verificò nella Chiesa Cattolica quando si contrapponevano un Papa ed un antipapa. Nell’undicesimo secolo i Turchi Selgiuchidi, provenienti dall’Asia centrale, si stabilirono, prima nel territorio oggi rivendicato dal sedicente “califfo”, tra Mossul nell’attuale Iraq ed Aleppo nell’attuale Siria, poi continuarono ad espandersi in Anatolia e sulle rive del Mediterraneo. Il Califfo di Baghdad fece buon viso, perché i Turchi Selgiuchidi si proclamavano Sunniti, e nel 1055 riconobbe al loro condottiero la dignità di sultano. Fortunatamente per il Califfato, in seguito i Selgiuchidi spezzettarono i propri possedimenti fra una pluralità di sultanati e di emirati. Alla fine dello stesso undicesimo secolo, nel novembre del 1095, Papa Urbano II fece appello ai principi cristiani affinché, in alleanza con l’Imperatore bizantino (al tempo, Alessio I Comneno), riconquistassero la Terra santa e Gerusalemme. Le Crociate non furono il frutto di fanatismo religioso: ma di lucida intelligenza politica, considerato che la comunità islamica appariva divisa fra due califfati contrapposti e che i Turchi rappresentavano un ulteriore fattore di destabilizzazione. Il Califfato Abbaside, che ne aveva viste tante, fu travolto dai Mongoli nel 1258.

Nel sedicesimo secolo i sultani ottomani, a partire da Selim I, conquistatore della Siria e dell’Egitto, si proclamarono difensori dell’Islam e rivendicarono a sé il titolo di “califfi”, con l’assenso dello Sceicco di Medina. Ma ormai il titolo non aveva più lo stesso significato, di massima Autorità, insieme religiosa e politica, che aveva avuto nel 632, quando alla morte del Profeta Maometto, fra i membri più eminenti della sua stessa tribù di Arabi (i Quraish, o Coreisciti, della Mecca) fu eletto un successore.
La soluzione dei problemi della Libia può essere trovata soltanto in una logica di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente e del Nord Africa. Protagonisti di questa stabilizzazione, affinché funzioni e sia duratura devono (“devono”, non possono) essere la Lega Araba, che andrebbe rilanciata e valorizzata, la Turchia e l’Iran. Se questi soggetti politici trovano tra loro un’intesa, il sedicente “Stato islamico dell’Iraq e della Siria” (ISIS) si polverizza l’indomani.
Quel che manca all’Europa, quindi all’Italia, è una visione strategica che orienti la politica estera. Quanti pensano non al petrolio, ma alla pace, comincino a considerare la Turchia, l’Iran, l’Egitto e con esso la Lega Araba, necessari interlocutori e potenziali alleati.

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