Nutro “the utmost respect” per Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella. Ma, si sa, i figli sono piezz’e core anche per uomini integerrimi. Per carità: magari i rampolli di cotanti padri sono in gambissima di per loro, non andrebbero penalizzati solo per un fatto di nascita; e comunque non si può sottovalutare l’effetto educativo della vita in famiglia, in tali famiglie. Però, viene da chiedersi: come mai non li troviamo medici in Africa con “Medecins sans frontieres”; oppure esploratori al Polo Nord, ma tutti ben sistemati e rimpannucciati nei gangli del potere romano… Aggiungo: come mai tutti così appassionati del diritto e di vita giuridica, in un Paese dove gli eccessi giuridici della vita pubblica, non c’è chi non veda che sono un danno…
(Paolo Bracalini, Il Giornale) Nella Roma della Casta si ereditano anche potere, status, relazioni. Poteva non essere brillante la carriera del “principe ereditario” Giulio Napolitano, figlio del ben due volte presidente della Repubblica (già presidente della Camera, già ministro dell’Interno, già a capo della corrente “migliorista” del Partito comunista)? Il cognome, diciamo, può aiutare. Spesso, però, può essere addirittura ingombrante, un ostacolo per chi sceglie, come ha fatto Napolitano jr, strade diverse da quelle paterne, non la politica ma la giurisprudenza, l’accademia. Bisogna dire che, nonostante l’ingombro del cognome, Giulio Napolitano se l’è cavata benissimo. Perché l’università dove Giulio Napolitano è ordinario di Diritto pubblico, l’ateneo Roma Tre, è anche nota come “l’università dei Ds”, e anche perché lo storico rettore Guido Fabiani è cognato di Giorgio Napolitano, avendo sposato la sorella della moglie Clio. Dunque, lo zio di Giulio Napolitano. Collega d’insegnamento, tra l’altro, è sua cugina, Anna Fabiani, figlia del rettore. E allora? Se uno è bravo, dovrebbe non essere preso solo per il cognome che porta?
Incarichi importanti fin da subito. Nel 2003, poco più che trentenne, Giulio Napolitano diventa consulente legale della giunta comunale di Roma, guidata da Walter Veltroni. In effetti non può distrarsi un attimo che lo nominano in qualche comitato, board, commissione. Nel 2007 Nomisma, società di consulenza bolognese fondata da Romano Prodi, deve scegliere il nuovo comitato scientifico, chi chiama a farne parte? Napolitano jr, ma anche Filippo Andreatta, cioè Andreatta jr, economista e vicepresidente della fondazione Arel, quella di Enrico Letta. E proprio la fondazione lettiana fu galeotta per l’amore sbocciato tra Napolitano jr e l’attuale ministra Marianna Madia. Diverse le foto che li ritraggono insieme nella tribuna vip dell’Olimpico, per seguire l’amata Lazio, o sulla spiaggia di Capalbio, ritrovo della potente sinistra. <Con lui ho cominciato una storia sentimentale quando suo padre Giorgio era ancora un ex illustre dirigente del Pci. Poi… beh, sono stata a cena, sul Colle, ma una sola volta> racconta, un po’ infastidita della curiosità per una storia passata, la ministra Madia. Che, per coincidenza astrale, ha finito con l’avere come capo del legislativo al suo ministero, il figlio del successore di Napolitano al Colle, cioè Mattarella jr. Ed entrambi, Napolitano jr e Mattarella jr, siedono nel Comitato direttivo dell’Irpa (cioè Istituto di ricerche sulla pubblica amministrazione), insieme a Sabino Cassese, amico di Napolitano Giorgio. E così, tra i referenti del Master in diritto amministrativo dell’Università Sapienza, diretto da Mattarella jr, tra i docenti c’è proprio Napolitano jr. Un piccolo mondo.
La vulgata è che Napolitano jr abbia l’influenza, nel nuovo assetto di poteri tutti di marca Pd, per promuovere anche carriere e nomine, non solo proprie, ma pure altrui. Sotto il governo Monti, arriva al governo l’amico e co-autore di numerosi volumi, Andrea Zoppini, come sottosegretario alla Giustizia. Al Lavoro invece, come viceministro, Michel Martone, anche lui habitué, come Giulio Napolitano, di VeDrò, un’altra creatura di Enrico Letta. Poi nelle nomine delle partecipate del Tesoro, di cui è consulente, per molte, lo studio Zoppini. Fino addirittura alla chiamata a Palazzo Chigi proprio di Enrico Letta – ma forse è una leggenda – con cui Napolitano jr ha grande consuetudine avendo fatto il suo consigliere giuridico per anni. Realtà e non leggenda, invece, sono gli altri innumerevoli incarichi ricevuti da Napolitano jr. Specie nello sport, sua passione, ricambiata dalla passione dei vertici sportivi per la sua professionalità. Lo chiama il Coni, lo chiama la Federcalcio, lo chiamano a far parte della Camera di conciliazione e arbitrato per lo sport, poi della Commissione per la riforma della disciplina delle società sportive, poi di quella per “Roma 2020”. Ma non solo sport, le consulenze gli spuntano da ogni dove. Nel 2009 viene nominato nel board di Telecom Italia, su indicazione dell’Agcom, l’autorità per le comunicazioni. Materia di cui si intende Napolitano jr, avendo scritto lui come consigliere giuridico, insieme a Zoppini (futuro sottosegretario di Monti), il disegno di legge di Enrico Letta sul riordino delle authority presentato due anni prima. PS. C’è un secondo principe ereditario, di nome Giovanni. Che fa? Giovanni Napolitano è dirigente dell’Agcom, l’Authority della concorrenza, dove lavorano anche Anna Marra, figlia di Donato Marra segretario generale del Quirinale con Napolitano, e Giovanni Calabrò, figlio del presidente dell’Agcom.
Bernardo Giorgio
(Gian Maria De Francesco, Il Giornale) Ogni padre sarebbe orgoglioso di un figlio come Bernardo Giorgio Mattarella, figlio di Sergio, presidente della Repubblica. Maturità classica con 60 sessantesimi e menzione dai Padri Gesuiti dell’Istituto Gonzaga di Palermo (lo stesso frequentato dal quirinalizio genitore), 110 e lode in Giurisprudenza, Master of Laws a Berkeley (California) e ordinario di diritto amministrativo poco più che trentenne all’Università di Siena, condirettore del Master in management della Pa della Luiss di Roma. A quasi 47 anni Bernardo Giorgio è una vera autorità tra gli amministrativisti e il fatto che porti un cognome tanto prestigioso si può dire che sia un fatto secondario giacché il suo curriculum vitae parla a suo nome: oltre 300 pubblicazioni valgono molto di più dei titoli accademici. Il caso ha, però, voluto che Mattarella jr non abbia assistito da spettatore “esterno” all’insediamento del padre alla più alta carica dello Stato. Bernardo Giorgio infatti, fa parte a pieno titolo dell’establishment romano in quanto organico al governo Renzi giacché è il po dell’ufficio legislativo del dipartimento della Funzione pubblica. È un uomo di punta dello staff del ministro Marianna Madia. Va detto che Bernardo Giorgio è in aspettativa dal suo incarico universitario ed è bene ricordarlo: non cumula incarichi e prebende. Dal padre non ha ereditato solo la passione per il diritte, ma anche la sobrietà.
D’altronde la giovane e inesperta Madia, che si sta occupando della riforma della Pubblica amministrazione, non poteva fare proprio a meno di uno dei cervelli del diritto amministrativo italiano. Mattarella jr conosce molto bene i segreti di Palazzo Vidoni: vi è entrato giovanissimo nel 1993 al seguito del suo mentore, Sabino Cassese, che lo incaricò di collaborare ai lavori della commissione che doveva redigere il Rapporto sulle condizioni della Pa. Vi è ritornato a più riprese. Nel 2006 elaborò, assieme al giuslavorista liberal Pietro Ichino, il disegno di legge per l’istituzione di un’Authority per la valutazione dei dipendenti pubblici. Fu lui a svolgere quel lavoro per conto del premier Prodi e dell’allora ministro Nicolais. Lavoro cestinato dalla sinistra radicale per la quale i travet sono tutti uguali e intoccabili. E anche Renato Brunetta lo volle con sé sia per lo studio della class action nei confronti della Pa e anche per l’elaborazione della Carta dei doveri. Da lì, fondamentalmente, non s’è più mosso anche se il primo vero grande incarico è quello attuale.
Eppure in Italia non ci si mette nulla a restare vittima delle malelingue. Negli anni scorsi è stato accusato di essere un figlio di papà visto che aveva ottenuto un incarico retribuito per insegnare alla Scuola superiore della Pubblica amministrazione. Molto più recentemente non gli si perdona la vicinanza ai poteri forti di quella intellighenzia italiana che si riunisce nella associazione Astrid (Fondazione per l’analisi, gli studi e le ricerche sulla riforma delle istituzioni democratiche e sull’innovazione nelle amministrazioni pubbliche. Hai capito? A proposito, chi paga le spese? Noi, naturalmente) di Franco Bassanini, ex senatore, ex ministro e oggi presidente della Cassa depositi e prestiti. Oltre a lui vi siedono Tiziano Treu, Francesco Merloni, l’ex presidente della Consulta Valerio Onida, Giovanni Maria Flick, il viceministro De Vincenti e anche il figlio dell’ex capo dello Stato, Giulio Napolitano.
La lingua parassita
(Paolo Nori, Libero) Ascoltando il messaggio del nuovo presidente al Parlamento, m’è venuto in mente di quando, nel 2007, ho fatto l’attore. Avevo un regista che mi ha fatto vedere che avevo dei gesti parassiti, cioè gesti che vivevano su di me senza che me ne accorgessi e mi ha detto che in scena, quando recitavo, quei gesti parassiti li avrei dovuti eliminare. Dopo, a ripensare a quella cosa che mi aveva detto il regista, mi sono accorto che quando parlavo, e quando scrivevo, davo voce a delle espressioni parassite, che vivevano su di me senza che me ne accorgessi: Ho provato a fame una lista, e ho trovato che se uno era ricco, era sempre sfondato, se aveva la barba, era sempre folta, se c’era un fuggi fuggi, era generale, se si parlava di acne, era giovanile, se c’erano delle tecnologie, erano nuove, se c’era un nucleo, era familiare, se c’era un’attesa, era dolce, se c’era una marcia, era funebre, oppure nuziale, se c’era un andirivieni, era continuo, se c’erano delle chiacchiere, erano oziose, se c’era un errore, era fatale, se c’era un delitto, era efferato, se c’era un’impronta era indelebile. E mi son detto che quando usavo queste espressioni a me sembrava di parlare, in realtà io non parlavo, ero parlato, cioè non dicevo quel che volevo dire io, dicevo quel che voleva dire la lingua (parassita).
In rete, su un sito dove ogni tanto scrivo delle cose (www.paolonori.it), con l’aiuto dei lettori del sito ho provato a allungare questa lista di espressioni parassite e ho trovato che: se c’è un quadro, è allarmante, se c’è uno stupore, è infantile, se c’è uno sciopero, è generale, se c’è una folla, è oceanica, se c’è un lupo, è solitario, se c’è un cavallo, è di Troia, se c’è una botte, è di ferro, se c’è un terrorista, è islamico, se c’è un porto, è delle nebbie, se c’è un silenzio, è di tomba, se c’è un ombra, è di dubbio, se c’è una morsa, è del gelo, se c’è una resa, è dei conti, se c’è una verità, è sacrosanta, se c’è una salute, è di ferro, se c’è una svolta, è epocale, se c’è un genio, è incompreso, se c’è un ok, è del senato, se c’è uno sciame, è sismico, se c’è un consenso, è informato, se c’è un secolo, è scorso, se c’è una dirittura, è d’arrivo, se c’è un pallone, è gonfiato, se c’è un cervello, è in fuga, se c’è una repubblica, è Ceca, se c’è un battesimo, è del fuoco, se c’è un dispiacere, è vivo, se c’è un carattere è cubitale.
Tornando al discorso del presidente della Repubblica, nei primi minuti, se c’era un saluto, era rispettoso, se c’era un pensiero, era deferente, se c’era un momento, era difficile, se c’era una carta, era fondamentale, se c’era un Consiglio, era superiore (e per giunta della magistratura), se c’era un’unità, era nazionale, se c’era una prova, era dura, se c’era un’Unione, era europea, se c’erano dei diritti, erano fondamentali, se c’era un popolo, era italiano, se c’era un bene, era comune, se c’era un capo, era dello Stato, se c’era un garante, era della Costituzione, se c’era un arbitro, era imparziale. E lì mi sono fermato e mi sono chiesto <Ma come mai, ne parlano tutti così bene?>.
L’agonia del Centrodestra
(Marcello Veneziani, lettera al Corriere) Da uomo di destra da una vita, non posso tacere il mio disagio davanti a questa lunga, indecorosa agonia del centrodestra in Italia. A parte le debolezze intrinseche sin dalle sue origini, compensate da un largo successo popolare e da un’offerta articolata di partenza, il centrodestra ha cessato di avere una linea politica almeno da quando è caduto il governo Berlusconi nel 2011. Ha cominciato a sbandare, via via perdendo pezzi da ogni versante, pezzi tutti trattati come “traditori”, ha sostenuto e poi attaccato il governo Monti, il governo Letta, il patto con Renzi, la rielezione di Napolitano al Quirinale e non ha più espresso una coerente linea politica, fino a rimbalzare da un Matteo all’altro. Tutti sanno che Berlusconi è stato il leader che ha saputo confederare forze diverse e ha saputo portarle alla vittoria e al governo, resistendo a formidabili attacchi. Straordinario impresario in campagna elettorale, gran seduttore di consensi, meno efficace come uomo di stato e leader di governo, Berlusconi è stato la causa principale della nascita e del successo del centrodestra in Italia; ma oggi è il principale ostacolo alla sua rifondazione.
La monarchia popolare di Berlusconi si è tradotta in monocrazia egocentrica. Alleati ed eredi di ieri diventano da un giorno all’altro carogne o portatori di derive autoritarie non per quel che fanno rispetto al Paese, ma rispetto a Berlusconi medesimo. E’ umanamente comprensibile l’amarezza e le cicatrici che porta dentro di sé Berlusconi, nessun leader politico è stato così avversato come lui, anche fuori dalla democrazia e dal rispetto umano; ma non si può ritenere che le istanze, gli interessi, i valori di un’area civile, politica e culturale variegata, che va dai liberali ai conservatori, dalla destra nazionale e sociale ai cattolici moderati e non progressisti, possano essere cancellati nel nome di una fedeltà cieca e suicida a un leader e al suo regno. Non sono mai stato berlusconiano e tantomeno antiberlusconiano, ho ritenuto per anni il centro-destra – con tutti i suoi limiti – l’inevitabile riferimento per chi proviene da una storia e una cultura di destra e ho difeso Berlusconi dai massacri mediatico-giudiziari. Ma ora è necessario che il re abdichi.
Non so se sia davvero finito, come ripetono da decenni gli osservatori, sappiamo che Berlusconi è capace di rinascite e comunque detiene ancora il maggior appeal elettorale in quell’area: ma non esprime più una posizione che rappresenti quel mondo, non rappresenta più gli umori del Paese, non ha espresso eredi e ha lasciato disperdere una classe dirigente; la solitudine cresce intorno a lui e alla sua cerchia, il suo consenso è in ritirata e le prospettive di agibilità politica sono ridotte a zero. E la competizione con Renzi è perdente perché il renzismo è omeopatico nei confronti del berlusconismo, trattandosi di un berlusconismo politically correct e in versione giovanile. Non è questione di separare moderati e radicali, e tantomeno di auspicare estremismi o populismi di ritorno; quell’area, in tutte le sue varianti, ha oggi bisogno di nuove sintesi politiche, nuove leadership, nuove strategie. Urge un disegno organico per l’Italia, una strategia lungimirante e una motivazione forte. Costi quel che costi, è tempo di anteporre agli interessi immediati, emotivi e personali l’interesse nazionale, politico e culturale. Non possiamo vivere una democrazia con un leader-premier al centro e una costellazione di oppositori che ruotano in periferia. Questa non è una democrazia, ma un sistema solare.
La sinistra può far cose di destra
Ma non viceversa
(Ernesto Galli della Loggia, Corriere) L’azione finora svolta da Matteo Renzi rappresenta il massimo di capacità manipolatrice. Con qualche mal di pancia, perché di certo in contrasto con molte sue premesse, la sinistra renziana, infatti, può fare liberalizzazioni, riformare la Costituzione, cancellare privilegi nel mercato del lavoro, prendere di petto i sindacati, invocare inchieste e castighi sui vigili fannulloni di Roma, dare un’immagine di sé insomma (non importa che poi la realtà sia talvolta un’altra) diversa da quella sua tradizionale; e così facendo ricevere un gran numero di consensi pure dal centro e dalla destra. Che cosa invece è stata capace di fare di analogo in senso opposto, nei suoi anni d’oro, la Destra?
Certo, ha pesato molto la leadership berlusconiana, i cui limiti sono divenuti presto evidenti. Specialmente la sua scarsa determinazione e la sua inettitudine a tenere insieme la maggioranza e a guidarne l’azione di governo. Che infatti è apparsa fin da subito priva di un riconoscibile orientamento generale, di un qualunque disegno, sfilacciata in mille provvedimenti dettati dall’emergenza o da puri interessi particolari. La conclusione è stata che nei loro lunghi anni di governo, Berlusconi e i tanti che erano con lui non sono riusciti a trasmettere al Paese l’idea di che cosa potesse voler realmente dire un programma politico di destra, quali principi – se mai c’erano – essa mirasse a realizzare. Tanto meno – figuriamoci! – Berlusconi e i suoi (anche quelli che poi lo hanno abbandonato) sembrano aver mai pensato di spingersi su una strada programmatica che potesse apparire “di sinistra”.
Questo è forse il principale problema che il tramonto dell’ex premier lascia in eredità alla sua parte. Se la Destra vuole tornare ad essere elettoralmente competitiva, deve prefiggersi una linea che sia riconoscibilmente alternativa a quella della Sinistra, naturalmente, ma che al tempo stesso sappia interpretare anche alcune esigenze di fondo dell’elettorato di quest’ultima. Ciò sarà possibile, io credo, ma solo a una condizione. Una condizione che si spiega con la storia particolare del nostro Paese e delle sue culture politiche. Tra le quali quella liberal/democratica nei fatti si è sempre mostrata fragile, poco radicata e soprattutto incapace di sorreggere vaste ambizioni. Altrove sarà diverso, è certamente diverso, ma in Italia – come del resto in molti altri Paesi dell’Europa continentale – una sostanziale contaminazione della Destra moderata con punti programmatici diversi dai propri, i quali guardino verso sinistra, è possibile solo se la Destra riesce a integrare dentro di sé, stabilmente – non già in modo estrinseco sotto forma di fragili accordi di vertice che lasciano il tempo che trovano – la cultura del cattolicesimo politico.
Berlusconi ha pensato che fosse sufficiente un’alleanza con le gerarchie ecclesiastiche all’insegna di una strumentale condivisione di “valori irrinunciabili” (a lui e al suo ambiente peraltro del tutto estranei). Ma evidentemente non di questo si tratta. Bensì di fare i conti con quel lascito di idee e di propositi che vengono da una lunga storia e che hanno alimentato un’esperienza che è stata decisiva per la vicenda della democrazia italiana. Altrimenti, per una Destra che oggi miri a contrastare l’egemonia renziana l’alternativa è una sola: quella di puntare spregiudicatamente su un massiccio smottamento ideologico-emotivo delle masse (popolari e non) verso particolarismi anarcoidi, verso forme di xenofobia e di antieuropeismo radicali. È la via attuale della Lega: una via tenebrosa e senza ritorno.
Riflessioni storiche
(Elirs, Circolo Rosselli) Ci si chiede perché il nostro disamoramento nei confronti della politica, che è evidentemente il risultato non di un singolo episodio, ma di una lunga sequenza storica di errori anche colpevoli. Voglio raccontare i “rospi” che gli italiani hanno dovuto ingoiare nel corso della loro storia recente? Per esempio: che faceva D’Alema quando il referendum contro il finanziamento dei partiti, vinto in forma plebiscitaria, fu stravolto con una nuova legge che lo ripristinò ingannevolmente cambiandone solamente il nome in “Rimborsi elettorali”? Che faceva l’oggi “pensionato d’oro” Bertinotti, all’epoca in cui fu approvato il “decreto salvabanche”, cui seguì l’accusa dell’avvocato Taormina che le banche “avevano pagato i partiti”, mentre milioni di lavoratori furono costretti a pagare sui mutui tassi di interesse al 20% dichiarati usurai dalla legge? Che faceva Prodi quando, con l’introduzione dell’Euro, i cittadini furono lasciati in preda ai mercanti e ai profittatori? Ciò che costava 1000 lire diventò un euro; stipendi, salari e risparmi dimezzati… Tale fenomeno non si registrò, per esempio, in Germania. Che dire infine del finanziamento ai partiti, arrivato a 2/3 miliardi, a fronte di 560 milioni di spese elettorali? Come si poteva pensare che tutte le malefatte e i privilegi non sarebbero venuti “al pettine”, anche se in ritardo? Che la “balena bianca”, una volta perduto lo slancio dello spirito evangelico di molti dei suoi fondatori, una volta mandato alle ortiche il programma di Camaldoli e gli insegnamenti di Dossetti, di La Pira, di Romolo Murri, e di tanti credenti nel “bene comune” e nella “dignità della persona umana”, abbia corrotto l’intero sistema, trovando terreno fertile tra quanti non avevano bisogno di “incoraggiamenti”. Se l’Italia è ridotta così anemica e sul ciglio del baratro; se il debito pubblico è arrivato alle stelle; se il capitalismo col suo liberismo sfrenato e senza controlli ha fabbricando “titoli tossici” e ha riportato l’Occidente ai tempi del ’29; se la grande finanza ha prostrato interi continenti; se i ceti politici delle nazioni colpite, correndo ai ripari sono stati costretti a chiedere ulteriori sacrifici al popolo bue e al mondo del lavoro; la responsabilità non si può non individuare in primis con i ceti politici dominanti e quanti, insediandosi sugli scranni del potere e delle amministrazioni nazionali e periferiche, hanno accumulato beni e ricchezze. Non vigendo qui la regola delle verifiche patrimoniali nei confronti dei profittatori di regime, assistiamo purtroppo ai fenomeni gattopardeschi degli stronzi riusciti a galleggiare anche “dopo la tempesta”, magari salendo sul “carro dei vincitori”. I furbastri, arrivisti e arrampicatori, riescono bene sempre con le loro manovre gattopardesche e camaleontiche. Alcuni parlamentari, per distrarre l’attenzione dai problemi reali, sollevano il polverone della reintroduzione delle preferenze. Irresponsabil- mente: in Calabria si è arrivati “all’assassinio politico” per una manciata di preferenze mancate; in Calabria il giudice Gratteri sostiene che il 20/30% degli eletti, viene eletto con i voti della mafia. Basterebbe questo per eliminare anche l’attuale preferenza delle regionali. Come non capire che il voto al partito, all’associazione, al movimento, è sempre preferibile a quello al singolo candidato, col quale si creano rapporti di contiguità, di dipendenza, di devianza, di baratto, di scambio, della logica del do ut des? Il voto dato al partito chiama come interlocutori i responsabili di tutto il partito. E se vi sono delle “riserve” sul sistema dei “nominati”, si tratta comunque del “male minore”. Salvo che non si abbia il coraggio di introdurre un parziale sorteggio nell’assegnazione dei seggi, magari cominciando dal basso (comuni e regioni). Se la proposta lascia perplessi, faccio notare che i fondatori della democrazia nell’antica Grecia la praticavano ampiamente; alcuni studiosi hanno condotto una ricerca e pubblicato i risultati col titolo “Democrazia a sorte”, dimostrando scientificamente quali vantaggi il sorteggio produrrebbe. Un’ulteriore prova dei vantaggi del sorteggio è venuta dalle 20 votazioni del Parlamento per l’elezione dei giudici della Consulta. Sarebbe bastato un sorteggio tra una rosa di nomi (5/7), per l’elezione in una sola seduta.
L’Islam
(Marcello Favareto, lettera a La Stampa) Registro il notevole significato storico del discorso del presidente d’Egitto Al Sisi, all’università Azar del Cairo, pronunciato ben prima dei fatti Parigi. E’ la dichiarazione ufficiale sulla necessità di una nuova lettura del Corano. <È inconcepibile che l’ideologia che abbiamo santificato, renda tutta la nostra nazione islamica una fonte di pericolo, uccisioni e distruzione in tutto il mondo. Mi riferisco non alla religione, ma all’ideologia – il corpo di idee e testi che abbiamo santificato nel corso dei secoli, al punto che metterli in discussione ora è diventato molto difficile. Si è arrivati al punto che questa ideologia è ostile al mondo intero. È concepibile che 1,6 miliardi di musulmani vogliano uccidere una popolazione mondiale di sette miliardi, per vivere da soli? Ciò è inconcepibile>. Questo dimostra che per isolare il fondamentalismo assassino ci vuole una rilettura dei testi, che si liberi da quella che Al Sisi chiama <ideologia, non religione>; ma anche che – fatte salve le sincere dichiarazioni pacifiche di numerosissimi musulmani, forse la maggioranza – è, nel profondo, convinta che il Corano insegni la guerra santa. C’è da augurarsi che questa rilettura avvenga rapidamente ed estesamente, ma sembra evidente che l’ostacolo da superare sta proprio nel Corano. Ci sono almeno otto Sure che parlano in modo esplicito di guerra santa. Ne cito solo una: <Il vostro Signore vi renderà vittoriosi e ciò per uccidere ed umiliare i miscredenti, i quali saranno così i perdenti in questa e nell’altra vita>. C’è da temere che non sia solo una questione di interpretazione che ha generato la corrente ideologia, come pensa il generale Al Sisi. È il fondamento che va riformato. L’Islam avrebbe bisogno di un nuovo profeta che, come Gesù fece con la legge ebraica, dica <Voi avete udito ciò che fu detto agli antichi: ma io vi dico…>
L’uomo e il Neanderthal
Quante volte ci è capitato di pensare, specie ascoltando i 5Stelle, questa è la prova vivente del contatto fra l’uomo e il Neanderthal… Ebbene, si dimostra che la promiscuità fra Sapiens e Neanderthal c’è stata, e le prove sono emerse.
(Edoardo Boncinelli, Corriere) L’albero genealogico della nostra specie è tutt’altro che lineare. Anzi, è dubbio che sia un albero. Sappiamo da qualche tempo che le specie “quasi umane” che hanno popolato la terra negli ultimi centomila anni, sono più di una. Più che di un albero, si tratta cioè di un cespuglio. Ancora cinquantamila anni fa le specie esistenti erano almeno quattro: l’Homo sapiens, i Neanderthal, quelli che prendono il nome dall’isola di Flores e i cosiddetti Denisoviani. Di queste quattro specie siamo rimasti solo noi; perché gravi malattie hanno colpito le altre, o perché le abbiamo progressivamente sterminate. Ma l’analisi del nostro genoma rivela che esso contiene tratti di Dna presumibilmente presi dal genoma dei Neanderthal a seguito di accoppiamenti diretti fra le due specie. Il problema era: si sono mai trovati contemporaneamente nello stesso luogo esseri umani e Neanderthal? Altrimenti la ricostruzione è puramente ipotetica. Ora sembra di sì. Una recentissima scoperta in una zona del Medio Oriente individua resti fossili di Homo sapiens vicini a resti di Neanderthal. Questo è avvenuto circa 55.000 anni fa in un luogo archeologico chiamato Manot Cave e la scoperta è riportata dall’ultimo numero della rivista Nature.
La nostra specie ha avuto origine in Africa orientale più o meno 200.000 anni fa; a un certo punto alcune tribù si sono spostate dall’Africa all’Eurasia. Qui la datazione si fa più complessa, perché dipende essenzialmente dalla domanda se stiamo parlando dell’Europa o del Medio Oriente. In entrambi i posti i nostri sembrano aver trovato i Neanderthal che preesistevano, mentre 40.000 anni fa di loro non c’è più traccia. In questo moto di espansione i nostri antenati hanno travolto e sterminato tutti i concorrenti più diretti, restando gli unici padroni del campo, fatta eccezione per fasce territoriali molto ristrette, come l’isola di Flores in Indonesia, dove la locale specie di piccoli umani si è conservata fino a tempi relativamente recenti. Parallelamente agli studi sul materiale fossile, sono state condotte analisi e comparazioni sui genomi delle diverse specie ogni volta che è stato possibile. Il nostro genoma conserva frammenti tipici di quello dei Neanderthal: ci devono essere stati perciò ripetuti accoppiamenti, ma per fare questo i nostri antenati e i Neanderthal devono aver vissuto fianco a fianco per qualche tempo: finora non c’erano prove di un fenomeno del genere, mentre adesso ci sono.
Due sono gli aspetti rilevanti di tale scoperta, sul piano conoscitivo e su quello culturale. Per quanto riguarda il piano conoscitivo, non ci dovrebbero essere più limiti alla formulazione di ipotesi, e alla relativa ¡ verifica sperimentale – tanto archeologica quanto genetica – del nostro cammino nel mondo a partire dalla nostra culla nelle diverse regioni dell’Africa fino all’Oceania e alle Americhe. Sul piano culturale, è estremamente interessante notare come sono cambiate e come stanno cambiando le idee sulla nostra origine. Per prima cosa ci dobbiamo considerare animali fra gli animali, prodotto della selezione naturale, con i suoi alti e i suoi bassi, le sue espansioni e le sue contrazioni di popolazioni e le immani lotte per la sopravvivenza che stanno in tutti i libri di testo, ma non nella nostra testa. Specie compaiono, specie si espandono, specie si accoppiano e si accoppano, specie scompaiono e specie rimangono dominatrici, anche se nessuna è mai stata dominatrice, nel bene e nel male, come la nostra. Noi siamo insomma gli ultimi frutti di una lunga storia, che è tutto fuorché lineare. Altro che creati separatamente e ad hoc!
Citazioni
Franco Di Marco mi manda due massime che riporto volentieri:
Alcuni uomini vedono le cose per come sono e chiedono: “Perché?” Io oso sognare cose che non sono mai state e dico: “Perché no?” (George Bernard Shaw)
La ragione ha un bel gridare, essa non può assegnare il valore delle cose… (Blaise Pascal)
E aggiungo una piccola accaduta realmente che mi manda Massimo Scialla:
A Taliban suicide bomber, stopped and searched by police in Pakistan, was found with a metal shield around his penis. Asked about the purpose of this protection, his response was: <I want to keep my penis intact after the explosion, so as not to have sexual problems when I get my 72 virgins in heaven!> Just wondering: is this the true interpretation of a dick-head?