SCHIAVITU’, RIVOLUZIONI E TIRANNIA

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I GLADIATORI – di Arthur Koestler (Recensione)

La Rivolta degli Schiavi

Anche Arthur Koestler, come tanti altri fra i migliori autori liberali, dopo aver pure lui militato nel partito comunista, va ad integrare il prestigioso elenco dei critici del marxismo; autori che analogamente, dopo essersi resi conto delle troppo numerose ambigue contraddizioni, hanno abiurato a quella deleteria perversa dottrina. E proprio loro, conoscendo il collettivismo intimamente da dentro, dopo averlo vissuto in prima persona, delusi e scandalizzati, vi si sono ribellati con concreta cognizione di causa. Così, con altrettanta determinazione – nonostante le tendenze contrarie dell’epoca – si sono coraggiosamente esposti per denunciare la tanta inconcepibile ipocrisia. La delusione di Koestler è stata tale che per poco non rinunciava alla propria vita. Fortunatamente, superando quella crisi, invece di abdicare all’esistenza, ha saputo esprimere in modo lodevole tutto il suo disinganno nei suoi famosi romanzi allegorici, censurando in maniera eloquente l’utopica ideologia ed i suoi più cinici promotori.

Nato a Budapest da genitori di origine ebraica da madre viennese, aveva proseguito i propri studi proprio a Vienna ed ancora prima di concluderli, nel 1926 a 21 anni decide di partire per fare un’esperienza nei kibbutz in Palestina, attuando pure come corrispondente per giornali tedeschi. Tuttavia, non adattandosi alla rinuncia culturale europea, era rientrato in Germania per consolidare la propria carriera giornalistica, dove a Berlino nel 1931 si iscrive segretamente al partito comunista, pur senza rinunciare ai suoi più spontanei ideali liberali. Nel 1932 avrà l’occasione di visitare buona parte dell’Unione Sovietica, fatto che lo turberà enormemente. Viene inviato in Spagna, come corrispondente durante la Guerra Civile, ma dopo pochi mesi i franchisti lo arrestano e lo salva dalla condanna a morte l’intervento degli Inglesi. Nel frattempo, comincia ad alimentare forti dubbi nei confronti del collettivismo e si rifugia a Parigi. E dopo aver conosciuto da vicino le vicende della Repubblica di Spagna, associandole anche ai metodi praticati dai sovietici, così come lo stesso George Orwell, ne rimane profondamente colpito ed in coincidenza della dura repressione in atto nell’ Unione Sovietica, dopo aver attivamente collaborato all’organizzazione anche in Francia, ma con sempre minor entusiasmo, non riuscendo a sciogliere i suoi dilemmi delle sue coerenti inclinazioni, intererrompe definitivamente la sua partecipazione comunista; così, anche lui insieme agli altri dissidenti, verrà duramente sentenziato all’ostracismo, mentre per la delusione sfiora perfino il suicidio.

Carico da quelle amare esperienze vissute, da quel momento in poi non cesserà più di dedicare il suo straordinario talento come scrittore, in un ampio repertorio, per condannare quella dottrina imbottita di pura retorica teoria alla quale aveva onestamente aderito, depositando in modo ingenuo, la sua fede nell’egualitarismo, convincendosi in fine che dalla funesta Rivoluzione Bolscevica, come da tutte le altre sanguinose rivoluzioni, non potevano nascere da tali tragedie solo ambiguità, ingiustizia, violenza, repressione, discriminazione, abuso, arbitrarietà, intollerante cinismo, miseria e addirittura angosciosi lutti.

Ad analoghe conclusioni, a proposito della Rivoluzione Francese, prima di lui, erano già giunti in numero espressivo altrettanti eminenti autori, fra i quali Edmund Burke, Benjamin Constant ed Alexis de Tocqueville. Mentre alla risoluta censura della Rivoluzione Russa si assoceranno Albert Camus principalmente con il suo capolavoro L’UOMO IN RIVOLTA, George Orwell con due celebri ed encomiabili opere, LA FATTORIA DEGLI ANIMALI e 1984 (in cui si rivela la nota figura del Grande Fratello) e François Furet che oltre a condannare la Rivoluzione Francese – da ex militante pentito pure lui – ne avrà anche per il delittuoso modello russo, con la sua confessione IL PASSATO DI UN’ILLUSIONE. E così, sul tema, non poteva mancare all’appuntamento nemmeno KOESTLER che vi dedicherà la sua famosa trilogia: I GLADIATORI (1939) – oggetto di questa recensione -, seguito da BUIO A MEZZOGIORNO (1941) ed ARRIVO E PARTENZA (1943), opere che gli varranno non solo notorietà internazionale – mentre gli costerà l’amicizia dei vecchi compagni marxisti – ma, in compensazione, lo unirà ancora di più a Camus co-autore del saggio REFLECTIONS SUR LA PEINE CAPITALE. E le sue numerose opere promuoveranno Koesler con tanto di merito, ad un riconosciuto ruolo fra i migliori ostinati autori a sostegno dei principi delle legittime libertà individuali.

L’allegoria de I GLADIATORI è, dunque, il romanzo storico che ritratta la vana illusione della celebre e paradigmatica rivolta dei gladiatori capeggiata da Spartaco, ai quali si aggiungeranno molti schiavi, fino a formare un esercito che, subito nelle prime battaglie, riesce ad infliggere vergognose sconfitte ai potenti Romani, al punto di conquistare ampie zone del Meridione peninsulare, incutendo timore addirittura alla poderosa Roma, condizionata dall’inaudita incompetenza e dall’ormai diffusa dissolutezza. Così, in poco tempo, l’eroe dei rivoltosi diventa l’idolo della liberazione e l’estrema speranza degli oppressi che a poco a poco formano un esercito di oltre centomila individui, in grado di minacciare lo stesso avvenire allo stesso cuore del grande Impero.

Ormai, consapevole della propria forza, il condottiero Spartaco fonda la sua ideale Città del Sole, diventandone il tribuno, dove non esiste più la proprietà e dove tutto è di tutti; e fintanto che dispone delle provviste necessarie alla sussistenza, tutto si svolge armonicamente; ma all’improvviso, tutto cambia appena cominciano a scarseggiare i viveri, ottenuti da una parte dalle depredazioni realizzate durante le conquiste e dalle invasioni delle città conquistate e distrutte, e dall’altra tramite gli accordi estorti alla vicina città, minacciata dal ricatto di una possibile invasione che, pur di mantenere la pace, per la salvaguardia della propria libertà, accetta di continuare a fornire le scorte delle vettovaglie per questi nuovi “inquilini” forzati, ora, in regime di crescente penuria, le cose degenerano. Infatti, quando anche questa esaurisce le proprie risorse, non riuscendo più a sostenere tutta quella moltitudine, l’equilibrio della comunità egualitaria cessa. Allora, comincia a barcollare l’idillio e dopo tutta una serie di vicissitudini, divergenze e confronti interni, segue la scissione con conseguente punizione degli indisciplinati mediante crocifissione. Ed ecco che il grande utopico ideale giunge al suo epilogo con i Romani già meglio preparati ed alimentati che sconfiggono definitivamente i rivoltosi massacrandoli quasi tutti, mentre ai sopravvissuti, a quel punto, non resta che un’amara conclusione e capiscono – seppur troppo tardi – l’inutilità della rivoluzione prima di essere in migliaia inchiodati lungo le strade di ritorno delle truppe romane: in fondo, piuttosto di quelle dolorose agonie, stavano molto meglio quando erano ridotti in dichiarata schiavitù.

Del resto, oggi sappiamo come i regimi collettivisti, nel tentativo di realizzare la loro chimera, hanno fatto uso di sanguinose repressioni, tragici delittuosi stermini, generando mortali carestie, mentre allo stesso tempo, nel mondo libero, si sviluppava l’abbondanza. Questa è, dunque, una delle numerose opere da leggere e da raccomandare. Ed anche se si tratta di romanzo, esso si basa su fatti storici che, in mancanza di dati più precisi, l’autore nel suo racconto arricchisce non solo con la creativa immaginazione del grande scrittore, ma avvalendosi pure delle esperienze vissute personalmente come testimone dei metodi più oppressivi e disumani. Koestler, così, proporziona un’eloquente lezione al pari di tanti altri egualitari pentiti, come pure Karl Popper tanto per citare una delle più lucide menti del secolo scorso; personaggi degni ma che si erano lasciati sedurre dall’ideale equivoco, ma abbastanza coerenti che dopo aver creduto per un certo periodo all’ utopica illusione hanno saputo riconoscere il proprio inutile abbaglio, mentre altri come Sartre hanno preferito far finta di ignorare la tragedia.

La genesi di questi romantici ideali ha origine nella sinistra filosofia di Platone, visioni teorizzate poi dalle fantasiose tesi di Tommaso Campanella, di Rousseau dai positivisti e finalmente dallo stesso Marx, inducendo all’equivoco una miriade di ingenui idealisti ed altrettanti intellettuali mancini “impegnati” a credere per vedere, alcuni dei quali, nemmeno ai nostri giorni, riconoscono i propri inganni, quando altri ex compagni più onesti, delusi dalla cruda pragmatica realtà di concrete testimonianze raccolte, vissute e subite dal vivo, hanno sentito di dover cambiare strada, denunciando le farse. Fra questi ci sono anche figure di prestigio come Ignazio Silone, André Gide, André Malraux, Raymond Aron – che agli uomini di cultura indottrinati dedicherà l’ottimo saggio L’OPPIO DEGLI INTELLETTUALI – e perfino il nostro più recente e noto romantico, ben intenzionato idealista sognatore Tiziano Terziani talmente, affascinato dalla rivoluzione del presunto messianico “genio” dell’ingegneria sociale – Mao Dzedong – quando i suoi fedeli aguzzini riserveranno all’irriverente dissidente un’inattesa gratuita vacanza al fresco, dove meditare in totale isolamento, prima di essere definitivamente espulso dalla celestiale Cina; lui che aveva visto anche gli orrori perpetrati dal satrapo dei Khmer Rossi – Pol Pot – poi apprenderà anche le verità dei gulag sovietici al momento in cui quel castello di sabbia, non aveva resistito. Del resto, come il grande liberale della Scuola Austriaca ed amico di uno dei più brillanti pensatori del secolo scorso – Hayek -, nel lontano 1922 Ludwig von Mises con il suo “profetico” saggio SOCIALISMO aveva anticipato che, economicamente parlando, il modello leninista non avrebbe potuto sostenersi, spiegandone le inevitabili ragioni. Ragione per cui anche il bravo Terziani aveva dovuto cedere all’arresa e ricredersi.

Conseguentemente, come tanti altri che, per un certo tempo, hanno candidamente creduto alle leggende teoriche che promettevano un mondo più felice per tutti in un avvenire – puntualmente rimandato ad un eterno domani -, attraverso le quali una certa letteratura aveva tentato esaltare, dipingendo il mito del cosiddetto Paradiso del Proletariato che, in realtà, dopo il fallito delirante esperimento si era alla fine rivelato, al drammatico presente, come un autentico tragico infernale incubo.

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