E’ soltanto naturale che si continui a riflettere su quanto è avvenuto in Francia, con il vantaggio della vista prospettica. Ho raccolto alcuni commenti secondo me significativi.
(Luciano belli Paci, Circolo Rosselli) Nei dibattiti televisivi di questi giorni ho sentito sovente risuonare l’invito – spesso l’intimazione – a precisare se si sta parlando di guerra o si sta parlando di terrorismo. A me pare invece innegabile che vi siano ambedue le cose, con forti collegamenti tra l’una e l’altra. Da un lato è in corso una guerra che è essenzialmente una guerra civile tra musulmani, anche se poi gli opposti schieramenti sono molto frastagliati e una delle fazioni in campo si dedica appassionatamente anche allo sterminio delle minoranze non musulmane (cristiani, yazidi). I fronti di questa guerra civile, per quanto mobili, sono ben visibili in Siria e in Iraq, abbastanza anche in Libia. Dall’altro lato le medesime correnti islamiste fanatiche che alimentano queste guerre ispirano anche, e talora organizzano direttamente, azioni terroristiche in altri contesti, principalmente nel mondo islamico (di recente in Pakistan e nello Yemen), ma anche in Occidente. Non sempre esiste un legame organizzativo diretto o indiretto, ma come minimo esiste una comunanza ideologica tra i due livelli. Le azioni terroristiche possono servire per intimidire, per dare dimostrazioni di forza non solo ai nemici ma anche ai “concorrenti” (è noto ad esempio che l’Isis è impegnato in una lotta dura, in Siria, per l’egemonia nel campo anti Assad, anche contro le altre fazioni fondamentaliste), e addirittura per compiere “gesta” di emulazione o per accreditarsi. In fondo anche da noi, ai tempi del terrorismo brigatista, c’erano quelli – per esempio gli autori dell’assassinio di Walter Tobagi – che uccidevano per “farsi belli” con le organizzazioni vere. Questo terrorismo, proprio perché non sempre rispondente ad una centrale di comando ed è realizzabile anche con il fai-da-te di lupi solitari o perfino di squilibrati (quello del caffè di Sydney), è molto difficilmente controllabile e può colpire ovunque. Dunque, anche se è certamente necessario e doveroso alzare la guardia contro il terrorismo dovunque, e senz’altro in tutta Europa compresa l’Italia, penso che sia giunto – e da mo’ – il tempo di guardare in faccia alla realtà e di rendersi conto che c’è una guerra che ci riguarda; e che, finché non si riuscirà a spegnere quel focolaio il terrorismo, che ne è soltanto una epifania, continuerà a svilupparsi sempre di più. La guerra è là, simbolicamente e non solo è a Kobane. Che l’Europa abbandoni i Curdi e deleghi, come al solito, gli Usa a sporcarsi le mani anche per noi non è soltanto immorale, è anche terribilmente miope. Ci vorrebbe un novello Rosselli capace di togliere a noi europei la benda dagli occhi: “Oggi in Spagna, domani in Italia”. Oggi a Kobane, domani in Europa. Non contro l’Islam, ma con l’Islam dei curdi, dei musulmani civili, religiosi o laici, sunniti o sciiti, con l’Islam che resiste alla marea nera del califfato e dei tagliagole. Tutti noi ripudiamo la guerra, ma la guerra è già in atto e ci riguarda; fino a quando continueremo a fare finta di niente invece di aiutare i musulmani civili a vincerla anche per noi, noi che davvero siamo tutti Charlie Hebdo?
Alla storia dell’Islam mancano 622 anni
(Alberto Ferrari, Circolo Rosselli) Si è soliti far risalire la nascita della religione islamica all’Egira, ovvero il trasferimento di Maometto dalla Mecca a Medina avvenuta nel 622. Alla storia del mondo islamico, rispetto al mondo cristiano, mancano 622 anni. Quindi il mondo islamico nel 2015 dell’era cristiana si ritrova ad avere “solo” 1393 anni di storia. Se si legge in questo modo la storia del mondo islamico si capisce forse meglio che quanto sta attraversando di drammatico non è molto diverso di quanto attraversava il mondo europeo e cristiano agli inizi del 1400. In quell’epoca in Europa si bruciavano le streghe, vi erano guerre ovunque e persecuzioni religiose. I seicento anni che mancano alla storia del mondo islamico rispetto a quello cristiano sono per l’Europa anche i più importanti, che videro il nascere delle identità nazionali e degli Stati europei, che videro le guerre di religione e poi l’illuminismo. Insomma, tutta quella separazione tra religione e laicità che è alla base della cultura del mondo occidentale, ancora manca nel mondo medio orientale dove non esiste di fatto un solo Stato democratico. Tutto ciò che di drammatico è avvenuto in Europa, sta ora avvenendo nel mondo islamico dove fazioni religiose si scontrano contro il tentativo di creare identità nazionali così come è avvenuto in Europa. Purtroppo oggi con tecnologie più distruttive. Non vi è nulla nel mondo islamico che l’Europa non abbia, purtroppo, già vissuto. Proprio per questo credo che sarebbe ora che di ciò che sta avvenendo nel Medio Oriente e nei Paesi africani mediterranei si facesse un po’ più carico l’Europa più che gli americani, non delegando come al solito, gli Usa a sporcarsi le mani anche per noi. La storia del formarsi della nazione americana è troppo dissimile da quella euro asiatica, cosicché ogni volta che gli americani vi intervengono da soli, creano un mare di problemi. Danni di cui oggi soprattutto l’Europa sopporta le conseguenze, dalle immigrazioni drammatiche gli attentati. Su questo ha ragione Renzi quando nell’intervento recente all’Università di Bologna ammonisce pesantemente l’Europa ad interessarsi di ciò che sta avvenendo nei paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente e non solo ad interessarsi dei decimali dei bilanci europei o delle curvature delle zucchine.
Liberté Egalitè Fraternitè
(Dario Allamano, Circolo Rosselli) La questione islamica è in realtà è una questione politica ed economica. Perchè secondo voi gli Stati Uniti hanno mandato a Parigi una terzo livello a rappresentarli? Ma proprio perchè in questo periodo è in corso una trattativa tra Sauditi e Usa sul prezzo del petrolio che, per non mettere lo shale oil fuori mercato, non può essere venduto a meno di 75 $ barile. Ergo gli Usa non possono inimicarsi l’Arabia Saudita il cui regime monarchico è il maggior finanziatore delle scuole coraniche radicali che formano l’Islam estremista. L’atteggiamento dei media Anglo Americani ha dato copertura a questa vigliaccheria. Se davvero ci fosse da parte del cosiddetto “Occidente democratico” un comune sentire, gli Usa sarebbero stati rappresentati a Parigi in modo più autorevole. Fortunatamente la vecchia e tanto vituperata Europa, nel momento di maggior pericolo, ha capito rapidamente e con chiarezza dove era diretto l’attacco ed ha saputo in tre giorni rispondere nel modo adeguato, in modo civile e politico. Con la manifestazione di Parigi i vecchi politici europei (ma non solo) hanno saputo diventare il centro politico che sa indirizzare lo scontro nel senso giusto. Di fronte all’attacco alla prima parola (liberté) hanno costruito l’alleanza repubblicana, prima in Francia e poi in Europa. I cittadini francesi hanno ben compreso il messaggio veicolato da due atti “forti”: la passeggiata di Hollande a piedi dall’Eliseo al Ministero degli Interni e l’incontro con Sarkozy. Si tratta ora di vedere se la generosa e solidale partecipazione alla manifestazione produrrà degli esiti positivi sulle altre due parole chiave: egalitè e fraternitè. Solo se l’Europa saprà togliere l’acqua dentro cui nuotano i pesci del terrore con adeguate politiche economiche e sociali (a partire dalla definizione della questione palestinese con la soluzione dei due Popoli due Stati) si supererà definitivamente questa fase. I tempi non saranno brevi ma ho l’impressione che ieri si siano messi a posto i primi mattoni.
Il libro di Houellebecq
(Gian Arturo Ferrari, Corriere) C’è un antico vizio tutto francese e russoiano nella tesi di Sottomissione, il romanzo di Michel Houellebecq dove si prefigura un’Europa tra pochi anni serenamente sottomessa all’Islam. Rousseau si era guadagnato la fama nel 1750 con il Discorso sulle scienze e le arti, dove arditamente capovolgeva l’assunto dei buoni accademici di Digione che avevano bandito un concorso per magnificare la purificazione dei costumi prodotta, secondo loro, da scienze e arti. Rousseau aveva invece sostenuto che arti e scienze, ossia per estensione il progresso e la civiltà, corrompono i costumi, in quanto allontanano gli uomini dallo stato di natura, innocente e incorrotto. Questa attitudine insieme provocatoria e foriera di corposi successi è stata poi ripresa infinite volte nella cultura francese: una propensione acrobatica, un buttarsi nel vuoto con una serie di capriole nella speranza di riuscire alla fine ad afferrare il trapezio. E di sicuro oggi il più mortale tra i salti mortali è quello che riguarda l’Islam e per converso l’Europa.
Non è questo l’unico tratto, l’unico marchio di fabbrica francese del romanzo di Houellebecq. Un altro, ancor più accentuato e quasi ridicolo, è l’assoluta certezza che al centro dell’Europa ci sia la Francia, al centro della Francia ci sia Parigi, al centro di Parigi ci sia la Sorbona, al centro della Sorbona ci siano gli studi filosofico/letterari e al centro di questi ultimi ci sia il nichilismo. Un paralogismo (sillogismo fallace) ereditato dritto dritto dal Cyrano, ma praticato dall’autore con un candore inconsapevole, quasi commovente. Non bastano però né la mossetta russoiana nell’assorta contemplazione del proprio ombelico a liquidare le tesi di fondo di Houellebecq, che riguardano l’Europa che c’è e l’islam che verrà. Non bastano soprattutto a velare il suo maggiore, incontestabile, merito. Che è quello di aver messo il dito nella piaga, nei pensieri combattuti che attraversano tutti i giorni le nostre menti, nel tambureggiare quotidiano delle news, nei mille indizi rivelatori o inesplicabili che ci colgono ogni volta di sorpresa. E con quel dito, e in quella piaga, di rovistare a fondo.
La piaga in questione non è con ogni evidenza la profezia (utopia? distopia?) sul nostro futuro prossimo, la prossima dominazione islamica e la nostra altrettanto prossima sottomissione. Bensì il nostro atteggiamento nei confronti dell’Islam o, per essere più precisi, la nostra capacità di comprendere l’atteggiamento dell’islam nei confronti nostri. Certo, la rappresentazione del futuro leader islamico, bonario e pacioccone, delle gioie (saranno poi solo gioie?) della poligamia, della serenità non competitiva è talmente accentuata da apparirci ridicola. Ma non c’è dubbio che l’Islam di Houellebecq sia roseo. Assai diverso comunque da quello che le cronache ci descrivono ogni giorno. E non tanto per le efferatezze, quanto per l’incomprensione, per il muro di risentimento inestinguibile che sentiamo eretto dall’Islam estremo contro di noi. Quasi che noi, noi stessi, fossimo i responsabili di colpe che non abbiamo commesso, di soprusi che non abbiamo esercitato.
Dimentichiamo il colonialismo. I lumi — dice Houellebecq — i lumi, cioè la civiltà nostra ma per lui soprattutto francese, i lumi si sono spenti. Ma per loro, per l’Islam e per tutti gli altri, non si sono mai accesi. Questo è il peccato originale, questa è la colpa terribile degli europei. La falsità. Aver predicato i lumi, i valori universali, un’idea onnicomprensiva di umanità, e aver praticato la schiavitù, il servaggio, l’umiliazione. Questo è il risentimento, questa è l’accusa rivolta all’Europa da tutti, ora anche dal Papa cattolico. Altro che Islam! Se l’Europa avesse forza e dignità (ma la forza di sicuro non ce l’ha e quanto alla dignità lasciamo correre…) saprebbe far fronte, pagare i propri debiti, darsi ima propria identità. Non all’indietro, cercando con il lanternino le radici, ma in avanti, dicendo dove vuole andare. Ma l’Europa non c’è, non c’è più. È ridotta nelle condizioni di uno Stato di Ancien regime, frammentata in staterelli, preda di liti da assemblea condominiale, con la corte (alias le istituzioni europee) in perenne spostamento tra Strasburgo e Bruxelles, come ai tempi di Carlo V, che, infatti, in Belgio era nato. Sarebbe occorsa, e forse ancora occorrerebbe, una grande visione, un’unificazione politica accelerata, contro gli ostacoli non dei popoli, che sono pronti, ma di tutti gli interessi particolari coalizzati. Purtroppo la politica, il senso della politica come sintesi ultima della realtà, la maggiore invenzione della sua storia, è forse quel che l’Europa ha perduto. Se così fosse — e Dio non voglia — avrebbe ragione Houellebecq. Resterebbe solo la sottomissione.
Renzinomics
(Michele Salvati, Corriere) E’ invalso l’uso di aggiungere il suffisso nomics al nome del capo dell’esecutivo per indicare la sua politica economica adottata in un Paese. Così, ad esempio, si parla di Obanomics per gli Stati Uniti e Abenomics per il Giappone. Possiamo parlare di Renzinomics per l’Italia? Possiamo farlo senz’altro: siamo all’inizio del 2015, è passato quasi un anno dalla nomina di Renzi a presidente del Consiglio e i tratti di fondo della sua politica economica dovrebbero essere evidenti. Per valutarli, però, è necessaria un’avvertenza. In tutti i Paesi democratici il rispetto degli equilibri politici e la necessità di un continuo consenso elettorale pongono forti limiti a quanto è possibile fare al fine di perseguire un disegno efficace di politica economica, e in questo non c’è differenza di principio con l’Italia, ma solo di intensità e di contingenza storica. Ma gli Stati Uniti e il Giappone, per limitarci agli esempi di più sopra, sono Stati pienamente sovrani, in grado di adottare le politiche monetarie e fiscali che ritengono opportune.
Non è così per l’Italia. I trattati e gli accordi della moneta unica, nonché le decisioni prese dalle istituzioni europee preposte alla loro attuazione, creano per gli Stati membri vincoli che uno Stato sovrano non conosce: c’è una pallina in più che il giocoliere nazionale deve tenere sospesa in aria, non solo il disegno di politica economica e il consenso politico interno, ma anche il rispetto degli accordi presi e una strategia per interpretarli in modo favorevole ai suoi interessi. E purtroppo le traiettorie si intersecano, le palline rischiano di urtarsi e cadere a terra. In questo contesto difficile, il governo non è riuscito a dare agli italiani un quadro convincente di quanto andava facendo, in parte per fretta e improvvisazione, ma soprattutto perché una narrativa seria avrebbe dato del nostro Paese un’immagine assai più cupa di quanto Renzi riteneva conveniente dare ai cittadini. Tuttavia, se si valutano i provvedimenti presi e quelli abbozzati — la Renzinomics, appunto — la narrativa emerge e con essa una consapevolezza adeguata della gravità dei problemi in cui siamo immersi.
Emerge la critica alle prescrizioni di austerità tedesche, e un orientamento assai più vicino ai suggerimenti d’oltreatlantico: il tutto nella fedeltà al progetto europeo e nel rigetto di suggerimenti demagogici di uscita dalla moneta unica. Ma emerge anche la consapevolezza dei guasti che affliggono la nostra economia e dunque della necessità
di un programma, ambizioso e di lunga lena, di riforme strutturali, sia perché lo richiede comunque una ripresa dello sviluppo su basi solide, sia, nell’immediato, come strumento di negoziazione in Europa. Al di là dello stile di leadership, c’è una evidente continuità tra ciò che fa Renzi e ciò che Monti e Letta hanno fatto o dichiarato di voler fare: la “piccola” differenza è che l’attuale governo può investire nel suo disegno una forza politica assai maggiore dei governi precedenti.
Quattro, mi sembra, sono i pilastri della Renzinomics. 1. Interventi a sostegno di domanda e consumi (i tanto criticati 80 euro ne sono un esempio) cui far seguire politiche a sostegno degli investimenti (riduzione Irap e politiche fiscali nella stessa direzione). 2. Riforma della Pubblica amministrazione e cambiamento della composizione della spesa pubblica, sia per aumentare l’efficienza e l’efficacia della prima, sia per liberare risorse da utilizzare a sostegno della ripresa economica e a difesa dei ceti più deboli. 3. Una revisione profonda del mercato del lavoro (Jobs act), per renderlo più efficiente e adatto alla competizione internazionale, ma anche più equo se si troveranno risorse adeguate. 4. Riforme elettorali, istituzionali e costituzio-nali. Per materia queste non fan parte dell’economia e dunque della Renzinomics. Ma lo scopo è ottenere un governo più durevole ed efficace, in grado di affrontare un compito di ricostruzione economica del Paese che dovrà estendersi ben oltre questa legislatura.
Ognuno dei pilastri, e delle singole misure che contengono, sono stati criticati, non di rado a ragione. Ma si è trattato quasi sempre di critiche a singoli alberi, non alla foresta, non al disegno complessivo e all’interazione tra le sue parti, alle tre esigenze che il governo deve soddisfare congiuntamente: una politica economica improntata alla riparazione dei guasti strutturali del Paese, un continuo consenso politico, delle condizioni di forza per ottenere un indirizzo orientato allo sviluppo in Europa, il tutto con le deboli risorse economiche e organizzative di cui il governo ora dispone. Soddisfarle tutte e tre insieme implica che nessuna delle tre, presa singolarmente, è soddisfatta al massimo grado: è questo che talora dimenticano i critici a singole misure. Il presidente del Consiglio, archiviato l’incidente sul decreto fiscale, dovrà affrontare la difficile prova dell’elezione del capo dello Stato e poi un lungo periodo di attesa per ultimare la prima tappa del disegno riformistico che ha impostato, un periodo in cui il consenso che gli arride è quasi sicuramente destinato a calare, a meno di ima improbabile ripresa dell’occupazione. Se la ricostruzione della Renzinomics che ho abbozzato è corretta, a me sembra condivisibile quanto basta per augurargli di poterla continuare… senza troppi incidenti.
A proposito di Jobs act
(Dario Allamano, Circolo Rosselli) Le norme che hanno dato vita al sistema di contratti a tutele crescenti sono a prima vista molto interessanti. Per la prima volta, dopo un ventennio di contratti a definizioni crescenti (20, 30, 40 tipologie di contratti), determinati dalle leggi Treu e dalla legge Biagi, il Governo Renzi ha ridefinito la normativa attorno a tre tipologie contrattuali: 1. Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. 2. Il contratto a tempo determinato. 3. Il contratto di collaborazione professionale. Tutto ciò è un bene perché rende più chiaro il rapporto di lavoro, ed è stato indotto da un sistema produttivo lasciato a se stesso, senza il supporto di una qualsivoglia politica industriale e senza sicurezze sul futuro delle produzioni, per cui gli imprenditori in questi ultimi anni hanno approfittato largamente delle tante forme contrattuali esistenti ed hanno scelto di non impegnarsi con contratti lunghi. Le imposte ed i contributi sociali hanno inoltre favorito le forme contrattuali diverse dal tempo indeterminato. Con la Legge di Stabilità il Governo ha quindi provveduto a ridefinire imposte e contributi per gli assunti a tempo indeterminato per i primi tre anni di lavoro, e ad una modifica dell’Irap, dalla cui base di calcolo saranno detratti il monte salari e stipendi dei lavoratori a tempo indeterminato. Anche questo atto è utile, rende più “interessanti” i contratti a tempo indeterminato rispetto agli altri. Ma il complesso della manovra, ovvero nuove forme contrattuali più nuova imposizione fiscale, è utile per aumentare il numero degli occupati stabili?
A questa domanda ha tentato di dare una risposta un’analisi del Centro Studi Uil che ha messo in evidenza alcune incongruenze determinate da combinato disposto delle nuove norme sul lavoro. È abbastanza chiaro che il calo di imposte e contributi sui contratti a tempo indeterminato produrrà quasi certamente uno spostamento dell’occupazione verso questa forma di contratto. Siccome però il Governo rende più facili i licenziamenti, nel caso dei lavori dequalificati, per i quali sinora si utilizzavano i contratti “a tempo”, è verosimile che assisteremo ad un processo che avrà questo andamento: 1. Assunzione a tempo indeterminato. 2. Stabilità del posto del lavoro per i primi tre anni. 3. Licenziamento facilitato grazie alle nuove norme. 4. Assunzione, in caso di necessità, di altri lavoratori con un contratto a tempo indeterminato. 5. Ritorno al punto 2 ecc.
È comunque un miglioramento rispetto alla fase attuale, ma si tratterà sempre di assunzioni instabili di lavoratori la cui formazione, più che mai necessaria in questi anni, sarà limitata allo stretto necessario, e che subiranno un calo drastico del salario differito (pensione) a causa del calo dei contributi. Il tutto è determinato dallo stato di necessità, un tentativo finanche generoso per far calare la precarietà; ma se al termine dei tre anni di “transizione” non ci sarà una ripresa delle attività produttive si tornerà al punto di partenza, in un eterno gioco dell’oca. Dalla lettura combinata delle varie norme che il Governo Renzi ha messo in cantiere in questi mesi per “rilanciare l’occupazione” si trae l’impressione che si tratti di una scommessa che si basa su due fattori, che non saranno però governabili: 1. Il fattore C, inteso proprio nel senso di “fondo schiena”. 2. Il fattore D, inteso nel senso di Mario Draghi. Il fattore C ha in questo momento due variabili potenzialmente molto positive per l’Italia: 1. Il calo drastico del petrolio che potrebbe innescare un calo virtuoso dei costi energetici, utili per ridurre i costi della produzione. 2. Il calo altrettanto drastico del cambio euro-dollaro, ormai al disotto di 1,2 dollari per 1 euro, che potrebbe favorire le esportazioni verso gli Usa, che al momento sono l’unico mercato in crescita.
Entrambe le variabili dipendono da scelte esterne all’Italia. Il fattore D è al momento incerto; tuttavia genera una speranza, che Draghi attivi a fine gennaio interventi pesanti di acquisto dei titoli dei “debiti sovrani”, liberando in questo modo risorse utili per finanziare le imprese e far ripartire la locomotiva economica europea. La politica monetaria della Banca centrale europea ha però dei limiti: potrà forse superare l’opposizione tedesca per gli acquisti dei titoli, ma non potrà supplire a lungo alla mancanza di una politica economica europea, mentre per un solido rilancio dell’occupazione nel vecchio continente sarà sempre più necessaria una Politica industriale europea condivisa, che ridefinisca la ripartizione delle produzioni tra i vari Stati. Altrimenti tutto resterà nello stato precario in cui è oggi. Si apre comunque un anno molto interessante sul piano sia economico che politico.
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La Panda rossa
(Repubblica) C’è una storia, inedita in alcuni significativi dettagli, che aiuta a capire la metamorfosi che sta invadendo Roma e la sua opinione pubblica: è la storia della Panda rossa di Ignazio Marino. Appena il suo proprietario arriva in Campidoglio, nell’estate 2013, senza por tempo in mezzo, viene vandalizzata. Pubblicamente non se ne sa nulla. Il prefetto “per motivi di sicurezza” dispone che l’auto continui ad essere parcheggiata negli stalli protetti riservati al Senato, del quale Marino era stato componente fino a qualche settimana prima. Mentre la Panda per qualche mese resta al sicuro, nel frattempo il marziano a Roma – tra qualche scivolata amministrativa e una quotidiana dose di narcisismo – propone una raffica di novità oggettivamente destabilizzanti per il “sistema-Roma”. Marino chiude una delle più grandi discariche della terra, Malagrotta, di proprietà di Manlio Cerroni, monopolista da decenni (successivamente arrestato); viene imposta una scadenza agli interminabili lavori della Metro C; oltre cento delibere di cementificazione dell’agro sono cancellate; impone alla florida Acea una nuova governance e da quel momento l’azienda ha un boom in Borsa; licenza l’Ad dell’Ama Franco Panzironi (poi arrestato); chiede ai sindacati di rivedere il salario accessorio per i dipendenti comunali, una richiesta che probabilmente è all’origine dell’assenteismo organizzato del 31 dicembre. E la Panda rossa? Sull’onda di una campagna dell’Ncd romano l’auto viene sfrattata dal Senato perché il sindaco e la sua famiglia, dicono al Viminale, non corrono più pericoli. La Panda, nel frattempo guidata dalla moglie, resta senza permesso Ztl e i vigili iniziano a notificare le multe prima all’Anagrafe e poi all’autoparco del Comune. Sorprendente- mente, mai a casa Marino. Per conto di queste multe il consiglio comunale chiede al sindaco di riferire “urgentemente” in aula. Sullo scandalo di Mafia-Capitale nessun partito ha notificato analoga richiesta.
Autostrade
(Michele Serra, L’Amaca) La lobby (mai parola fu più calzante) dei concessionari delle autostrade ha ottenuto dal governo Renzi esattamente quanto dai governi precedenti: proroghe riguardo agli impegni (contrattuali) di innovazione e miglioramento del servizio, e in cambio zero garanzie di non aumentare le tariffe. Detto che, a queste condizioni da Paese dei Balocchi (i quattrini li voglio subito e il prezzo lo decido io, per il servizio abbiate pazienza), chiunque sarebbe capace di fare il gestore autostradale, la vera domanda è: ma perché a me nessuno ha mai concesso neanche mezza proroga, mezzo sgravio, mezzo aiuto? Perché nel mio caso, ovvero i milioni di casi di imprese individuali o piccolissime o piccole, vige la regola opposta, e cioè scadenze implacabili quando devo rispettare i miei impegni con lo Stato, zero possibilità di chiedere requie quando il momento è negativo? Ma allora è vero che più sei grosso più sei assistito, e più sei piccolo più è difficile avere voce in capitolo. Il solo vero cambiamento, in questo Paese, sarebbe che lo Stato guardasse con gli stessi occhi e parlasse con la stessa voce alla potente lobby come al singolo contribuente. Buon anno a tutti, perfino ai gestori delle autostrade.
I robot
(La Stampa) Sono tra noi, lavorano con noi, regolano i destini collettivi. E non si fermeranno più. Sono i robot, ma non nella versione antropomorfa che viene subito in mente. E’ invece più corretto parlare di “intelligenza artificiale”. Già, perché questi aiutanti sono sempre più dei software avanzati che vengono utilizzati in tanti settori strategici. Per esempio in biomedicina per diagnosi che nessun medico potrebbe fare, negli algoritmi dei motori di ricerca per anticipare le nostre richieste, al servizio del marketing per esplorare i bisogni dei consumatori. Sono scenari diversi da quelli presentati alla fiera dei robot di Tokyo, dove i “cuccioli meccanici” facevano le coccole al padrone. L’intelligenza artificiale punta alla sostanza piuttosto che all’esibizione. È questa filosofia che è emersa al simposio dell’Associazione Italiana per l’Intelligenza Artificiale a Pisa. Al centro l’economia e la società, con un interrogativo che sa di fantascienza: toccherà fi cervelli artificiali prendere le giuste decisioni al posto degli umani che stanno fallendo, in politica e in economia? <L’informatica è la scienza dei Big Data che ci forniranno informazioni sempre più raffinate sulla mente e sulle relazioni sociali: è da questo bagaglio di dati che si creeranno software intelligenti per affiancare l’uomo nelle decisioni più difficili> Tra molte speranze e qualche paura.
Citazione
Io un riscatto lo pagherei comunque, fosse pure per Salvini (Jena)
lorenzo.borla@fastwebnet.it