(LB) Tutto quanto è possibile dire, è stato detto. Non c’è spazio per aggiungere qualcosa di originale. Condivido l’opinione di uno scrittore algerino (Boualem Sansal) su cui pende una condanna a morte degli integralisti, che spiega perché a suo avviso i drammatici avvenimenti di Parigi non sono semplici atti di terrorismo, per quanto efferati, e nemmeno episodi criminali; quanto piuttosto episodi di un conflitto in corso da tempo e capace di nuove imprevedibili crudeltà. <L’occidente può anche rifiutare l’idea. Ma per gli islamisti la situazione è assolutamente chiara: loro hanno dichiarato guerra all’Occidente>. <Usano armi da guerra, kalashnikov, bombe, razzi. Di che cos’altro si dovrebbe parlare, se non di guerra?> <Io credo che i mussulmani debbano denunciare gli islamisti per salvare la loro religione. Perchè questi islamisti violenti stanno distruggendo l’Islam>. <In verità gli islamisti sono una minoranza che opprime la maggioranza, che vorrebbe vivere serenamente nelle loro patrie di adozione>. Finora l’Italia è stata risparmiata da atti di terrorismo. Forse perché da noi i mussulmani si sono integrati meglio, forse perché i nostri servizi di sicurezza sono più efficienti di quanto normalmente si creda. Sta di fatto che lo scontro fra i due mondi è destinato a durare a lungo, perché non si risolvono i problemi culturali (la modernità dell’Occidente, il Medioevo degli estremisti) con le buone intenzioni, non con le leggi e tanto meno con le armi. Non credo neppure che si risolverà la situazione con le manifestazioni, i discorsi e le vignette, che servono più a noi per incoraggiamento, che non a spaventare loro. L’Occidente, per ora, può fare solo alcune cose pratiche per difendersi: cercare, attraverso il monitoraggio delle cellule terroristiche, di prevenirne le violenze, rafforzare i propri servizi di sicurezza; perseguire e condannare i terroristi.
Ipotesi sul presidente
(Lanfranco Turci, Circolo Rosselli) Il presidente della Repubblica si giudica sempre dopo che si è eletto, e spesso varie figure si sono manifestate diverse da quello che ci si attendeva. La sinistra (largamente intesa) dovrebbe proporre una rosa di nomi che siano di affidabilità democratica. La cosa più importante è riuscire ad evitare il presidente soprammobile che sarebbe l’obiettivo di Renzi e Berlusconi. I candidati dovrebbero provenire dal mondo della politica o, visto il basso livello attuale, da persone esterne, ma molto esperte e sostenibili non per la loro opposizione a Renzi o a Berlusconi, ma per la loro autorevolezza e la loro conoscenza di quel mondo. La Bonino sarebbe un bel nome, ma si scontra con l’avversione verso il mondo radicale e la pregiudiziale di gran parte del mondo cattolico. Io non scarterei nomi come quello di Nadia Urbinati, troppo però impegnata nella battaglia politica anche a breve, o quello di Gustavo Zagrebelsky, che si porta dietro l’esperienza di giudice costituzionale. Occorrerebbe approfondire chi può esserci ancora proveniente da quella esperienza, escludendo comunque Amato che non è un combattente e ha servito già troppe cause. Occorrerebbe scorrere anche l’elenco di ministri che abbiano fatto brevi esperienze di governo con autonomia e credibilità, ammesso che ce ne siano: forse Mattarella. Prodi non passerebbe. Ė troppo divisivo. Credo che non vada a genio né a Renzi né a Berlusconi. E poi anche lui si tirerebbe dietro un suo particolare cerchio magico. Preliminarmente la sinistra deve porsi la domanda se correre con candidati di bandiera o se concorrere a eleggere un candidato accettabile, e dunque avanzare proposte che siano credibili per un più vasto spettro di opinione pubblica. I nomi che ho esemplificato vanno in questa seconda direzione.
Povertà pubblica, ricchezza privata
(Giuseppe De Rita, Corriere) Siamo ormai assuefatti alla massa di valutazioni e previsioni ansiogene che si affollano nel dibattito sul nostro futuro economico con il protagonismo di agenzie di rating, presidenti di organismi internazionali, capi di governo, opinionisti, camionisti di ogni competenza ed orientamento. Gli unici assenti finiscono per risultare i due grandi soggetti presenti e futuri del nostro sviluppo, le imprese e le famiglie. Tuttavia dalla loro silenziosa presenza non si può prescindere, anche perché sono loro che hanno nelle mani una crescente ricchezza finanziaria, anche se non la mettono in movimento. Viene spontanea la citazione di San Bernardino da Feltre, che scriveva: <Moneta potest esse considerata vel rei; vel, si movimentata est, capitale> (La moneta può essere considerata una cosa o, se viene movimentata, capitale). A parte la curiosità di vedere questo termine, “capitale”, usato da un santo veneto mezzo millennio prima di Marx, la citazione serve bene a descrivere la attuale situazione italiana: mettiamo in cantina sempre più ricchezza finanziaria, ma non riusciamo a immetterla nello sviluppo.
Pensiamo anzitutto alle famiglie: stanno negli ultimi mesi tenacemente incrementando il risparmio e la ricchezza finanziaria netta, attraverso la crescita dei depositi bancari, delle sottoscrizioni di polizze vita, dei flussi del risparmio gestito (110 miliardi in più nei primi undici mesi di quest’anno); cosicché a fine anno arriveremo ben più in alto della vetta di ricchezza che avevamo raggiunto nel 2006. Un capitale però, inutilizzato, bloccato dalla paura di cosa ci può portare il futuro. Ma che è anche il sintomo che le famiglie non hanno aspettative e desideri, e non riescono quindi a esprimere una domanda significativa di beni e servizi. Dal canto loro le imprese non vedono opportunità di investimento e si rifugiano anche loro nel risparmio, sempre più propense a diventare finanziariamente autonome e quindi fare a meno delle banche. Hanno quindi aumentato negli ultimi mesi il proprio patrimonio, la propria disponibilità finanziaria, la propria liquidità. Se poi dalla trasparenza dei dati ufficiali si passa a considerare il grande mondo del sommerso (familiare e imprenditoriale) si resta sorpresi dalla forte crescita del lavoro e dei redditi “in nero” e quindi della consistenza del risparmio cash (chi si fa pagare in nero i soldi non li mette in banca) che è gestito in proprio secondo i propri bisogni, e senza molta voglia di rimetterlo in giuoco.
Se i più importanti soggetti dell’economia nazionale (famiglie e imprese, emerse e sommerse) sono quindi titolari sia di una crescente disponibilità finanziaria, sia di una loro difficoltà a immetterla in politiche di sviluppo, allora perché vengono trascurati dal dibattito economico e politico? La risposta implicita è che essi, non avendo né aspettative né opportunità reali, si sono chiusi in se stessi e nel loro statico interesse particolare. Ma forse c’è anche un’altra risposta, cioè che è il dibattito politico li esclude, occupato com’è dallo strapotere di chi ragiona di parametri, di algoritmi, di vincoli di bilancio, di spread, di stabilità: tutti strumenti e saperi statici, lontanissimi dal bisogno di una politica capace di far rivivere i soggetti, le loro ricchezze, le loro aspettative e i loro spazi di opportunità.
Il tema della disuguaglianza
(LB) È la forza delle cose che ha riportato al centro dell’attenzione, non solo italiana, il tema dell’uguaglianza: anzi della disuguaglianza, perché questo è il dato che registra impietosamente il rapido aumento della povertà in gran parte del mondo. La domanda, allora, è se sia possibile ricostruire una società di uguali, o meno disuguali. Nel nostro ordinamento costituzionale esistono appigli consistenti volti in questa direzione e in grado di contrastare l’impressionante crescita della disuguaglianza. L’articolo 3, in particolare, contiene una forza in grado di incidere profondamente sulla realtà odierna. Centro di nuovi conflitti e motore di lotte democratiche che rivendicano un ripensamento degli assetti economici e sociali, il tema dell’uguaglianza sembra aver ricevuto negli ultimi tempi una grande attenzione e spinte sempre più forti. In fondo, se ci pensiamo un attimo e ci stacchiamo dal contingente, la differenza fra l’essere di destra o di sinistra è tutta qui: fra chi accetta la disuguaglianza come una fatto ineluttabile, quasi un disegno divino, e chi invece si rifiuta di accettare supinamente questo stato di cose e intende combatterlo.
Il prezzo della disuguaglianza
(Giovanni Vigo, Sette del Corriere) Due anni fa il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz ha pubblicato un libro che si intitola II prezzo della disuguaglianza, ed è un atto di accusa contro i governi e le istituzioni internazionali che fanno poco o nulla per invertire una tendenza sempre più visibile, la disuguaglianza. Quanta disuguaglianza può sopportare la nostra società? Oppure, qual è la soglia al di là della quale la disuguaglianza rischia di mandare in frantumi la coesione sociale e di annullare la personalità degli individui? Non è la prima volta che le società si trovano di fronte a disuguaglianze così elevate, eppure non si sono mai registrate conseguenze tanto preoccupanti come oggi. Le reazioni sono anche frutto dei tempi, sono il risultato delle nostre aspettative riguardo al futuro. Lo aveva ben compreso Alexis de Tocqueville che nelle sue riflessioni sul viaggio in America scriveva: <Quando la disuguaglianza è legge comune di una società, finisce che le maggiori disuguaglianze non colpiscono l’occhio; quando tutto è all’incirca allo stesso livello, l’occhio è ferito anche dalle più piccole. Per questo il desiderio di uguaglianza diventa sempre più insaziabile a mano a mano che l’uguaglianza cresce>. A dire il vero, oggi la disuguaglianza cresce ma, proprio perché veniamo da un periodo nel quale le disparità si erano attenuate, il desiderio di uguaglianza diventa altrettanto “insaziabile”.
Molti economisti sono concordi nell’addebitare alla disuguaglianza gran parte della crisi che ci attanaglia. Come ha ammonito Branko Milanovic, per individuare le cause delle nostre difficoltà dobbiamo allungare le antenne e trarre qualche lezione dalla storia. <La colpa dell’attuale crisi finanziaria è comunemente addossata a banchieri irresponsabili, alla deregolamentazione finanziaria, al capitalismo clientelare e altre cose del genere. Benché questi elementi abbiano certamente avuto un ruolo, una spiegazione puramente finanziaria della crisi non coglie altre fondamentali cause, Esse risiedono nel settore reale e più esattamente nella distribuzione del reddito tra individui e classi sociali. La deregolamen-tazione… ha esacerbato la crisi, ma non l’ha creata>. Nell’ultimo quarto del Novecento l’1 per cento più ricco degli americani ha visto raddoppiare la propria quota di reddito che è balzata dall’8 al 16 per cento del Pil.
<Questa dinamica – commenta Milanovic – ha rappresentato un’inquietante replica della situazione che esisteva alla vigilia del crollo del ’29, quando la quota detenuta dall’ 1 per cento più ricco del Paese raggiunse il suo livello più alto>. Joseph Stiglitz a sua volta si addentra nei meccanismi dell’economia reale ricordando come <spostare il denaro dal basso verso l’alto fa scendere i consumi, perché gli individui a più alto reddito ne consumano una parte più piccola di chi dispone di un reddito basso… Il risultato è che la domanda totale sarà inferiore a quella che l’economia sarebbe in grado di soddisfare, il che significa che si creerà disoccupazione>. Uno strano paradosso: esistono bisogni, che rispondono talvolta alle esigenze più elementari della vita che non vengono soddisfatti, mentre le risorse di cui un Paese dispone, sono sottoutilizzate.
<C’è una lunga tradizione, che risale a Platone e Aristotele – ci ricorda ancora Branko Milanovic – che considera la forte disuguaglianza come una patologia sociale, perché (secondo Platone) una società ineguale in realtà non è una, ma due società>. Un’esperienza che si è tramandata fino ai nostri giorni perché, superata una determinata soglia che non è possibile definire una volta per tutte, un Paese diventa vittima dell’instabilità politica e sociale che può facilmente degenerare nell’insicurezza o addirittura in una diffusa criminalità. Si è calcolato, per esempio, che circa il 10 per cento della popolazione attiva di Bogotà sia impiegata nel settore della sicurezza. Non è difficile concludere che si tratta di un ambiente poco favorevole all’attività economica e alla crescita. Joseph Stiglitz si è spinto ancora oltre:<fra i costi della disuguaglianza dobbiamo includere una democrazia indebolita, un ridotto senso di equità e giustizia oltre che… una messa in crisi del nostro sistema di identità>.
Il mondo dei paperoni
(Francesco di Frischia, Corriere) Se è vero che nel mondo la ricchezza è concentrata nelle mani di pochi paperoni, questi pochi, nonostante (o grazie?) alla crisi, sono sempre più ricchi. Lo dimostra il fatto che nel 2014 le 400 persone più danarose del Pianeta hanno aggiunto ben 92 miliardi di dollari nelle loro già pingui casseforti, raggiungendo un gruzzolo totale pari a oltre 4.100 miliardi di dollari. La classifica è stilata dal Bloomberg Billionaires Index, aggiornata al 29 dicembre scorso. A realizzare i maggiori guadagni nel 2014 è stato Jack Ma, il fondatore e presidente del colosso cinese dell’e-commerce Alibaba Group: l’anno scorso ha guadagnato addirittura 24,8 miliardi di dollari, collocandosi al ventunesimo posto con un gruzzolo totale di 28,4 miliardi. Nel 2014 a guidare la classifica dei paperoni è di nuovo il fondatore di Microsoft, Bill Gates, con un patrimonio netto di 86,6 miliardi (compresi gli 8,1 accumulati in più rispetto al 2013). Sul secondo gradino del podio ü finanziere Warren Buffet (73,8 miliardi compresi 13 in più). Al contrario l’imprenditore messicano Carlos Slim ha 72,6 miliardi, ma ha perso 1,2 miliardi. Al 4° posto si colloca il primo europeo, fondatore della catena di abbigliamento Zara, lo spagnolo Amancio Ortega, con 61,1 miliardi: ma gli affari sono andati maluccio (meno 5,3 miliardi). Numeri positivi per il cofondatore e Ceo della Oracle Corporation, Larry Ellison (48,8 miliardi). Annata nera, invece, per il fondatore di Ikea, lo svedese Ingvar Kamprad, il cui patrimonio è diminuito di 8,4 miliardi (gliene restano comunque 45 in cassaforte). È solo 13°, mister Facebook Mark Zuckerberg (possiede 34,5 miliardi, ma ne ha accumulati quasi 10 in più rispetto al 2013). E gli italiani? Al 30° posto si piazza Michele Ferrero, proprietario del gruppo omonimo, con un patrimonio netto di 23,6 miliardi, ma ne ha 1,7 in meno rispetto a 12 mesi fa. Poco dopo ecco il numero uno di Luxottica, Leonardo Del Vecchio con 18,9 miliardi (più mezzo miliardo nel 2014).
La forbice della disuguaglianza
(Giuseppe Sarcina, Corriere) Le contraddizioni della politica registrano che, tra giugno e settembre, proprio nei mesi in cui la ricchezza americana tornava a crescere di uno di uno squillante 5%, il presidente Barack Obama perdeva consensi fino a subire una secca e inappellabile sconfessione popolare nelle elezioni di midtem. Ci può essere una spiegazione. I numeri trionfali sulla crescita si riferiscono alla grandezza complessiva: non sappiamo ancora, però, come questa ricchezza in più si sia distribuita tra le diverse fasce dei cittadini. L’America è tra i Paesi che presentano una vistosa polarizzazione fra l’alto e il basso. La discussione ormai storica tra liberisti e neo-keynesiani, o tra repubblicani e democratici, ruota essenzialmente su un punto: esistono meccanismi automatici, spontanei che consentano alla ricchezza, una volta prodotta, di diffondersi in tutta la società? I neo liberisti, traendo ispirazione dal grande caposcuola Milton Friedman, sostengono di sì e lo definiscono il trickle down, il gocciolamento. Sul fronte opposto economisti come Joseph Stiglitz, Paul Krugman e da ultimo, Thomas Piketty, sostengono di no, che il trickle down non funziona. Il governo deve provvedere con interventi correttivi sul piano fiscale e sociale.
Ed è questo il problema. Obama, finora, non sembra essere stato in grado di accorciare la forbice delle diseguaglianze, creando nell’economia un sistema di ridistribuzione del reddito. Il presidente, anche nella conferenza stampa prenatalizia, ha riconosciuto che <occorre fare qualcosa di più per la classe media e per i meno favoriti>. Perché l’area di chi resta ancora escluso dalla “rinascita” (parole di Obama) è più ampia di quanto si possa immaginare. Nei primi 9 mesi del 2014 i profitti aziendali sono aumentati del 5,7%, ma l’incremento dei salari e degli stipendi (anche dei lavoratori qualificati) è stato pari all’1,6%. Meno della metà. E inoltre la limitata lievitazione delle buste paga non è bastata a coprire un tasso di inflazione, che a ottobre era pari all’1,7% (oggi è all’1,3%).
In termini economici tutto ciò ha una spiegazione semplice: i guadagni delle imprese sono legati al contenimento del costo del lavoro e alla feroce competizione sui prezzi. La classe media sta spendendo senza riserve il “bonus petrolio” di cui beneficia l’America. I consumi procurano ingenti extra profitti alle imprese, che hanno ripreso ad assumere, ma con salari sempre più compressi e senza distribuire i dividendi legati all’aumento della produttività. Se questa tendenza non verrà corretta, l’America potrà presto azzerare o quasi il tasso di disoccupazione. Ma se l’amministrazione Obama vuole tenere fede alle promesse e alla sua identità politica, dovrà inventarsi qualche strumento di redistribuzione (fiscale o altro) per evitare che con la ricchezza aumentino anche le disuguaglianze.
I signori del cibo
(La Stampa) Chi sono i signori della tavola, che controllano da soli più del 70 per cento dell’industria alimentare? Parliamo di 450 miliardi di dollari di fatturato annuo e 7.000 miliardi di capitalizzazione, l’equivalente della somma del Pil dei paesi più poveri della Terra. Non sempre sono nomi noti in Italia. Da un secolo la Coca-Cola è il sinonimo di una multinazionale americana, ma solo gli addetti ai lavori conoscono la Mondelez, che un tempo si chiamava Kraft Food. Quasi tutti invece hanno incontrato al supermercato marchi come Toblerone, Milka e Philadelphia, ma non sanno chi c’è dietro a questi marchi. <Sono almeno 500, i marchi riconducibili ai dieci signori della tavola – spiega Roberto Barbieri, direttore generale di Oxfam Italia – sono vissuti dai consumatori come aziende a sé stanti. In realtà fanno parte di multinazionali in grado di condizionare non solo le politiche alimentari dell’Occidente ma anche le politiche sociali dei paesi più poveri>.
Mentre sono 900 milioni le persone che soffrono la fame (dati Onu settembre 2014) e che vivono sotto la tavola del banchetto mondiale sperando nelle briciole, sono 1,4 miliardi gli uomini e le donne che nel mondo hanno il problema del sovrappeso. <Sono due prodotti dello stesso sistema – osserva Barbieri – perché l’80 per cento di coloro che non riescono a sfamarsi vivono nelle campagne e lavorano per produrre cibo divorato dagli obesi>. Oxfam è un’organizzazione che si propone di aiutare le popolazioni povere del pianeta cercando di rendere virtuosi, con campagne e raccolte di firme, i comportamenti delle multinazionali del cibo. Il sistema è quello di fare pressione sull’immagine dei gruppi alimentari in Occidente per spingerli a migliorare le politiche sociali nei paesi produttori. È accaduto con Nestlé, Mondelez e Mars per quel che riguarda i diritti delle donne che lavorano nelle piantagioni di cacao. Si chiede che accada con Coca-Cola e Pepsi per evitare il fenomeno dell’esproprio forzoso delle terre destinate alla canna da zucchero. <Già oggi – spiega Oxfam – sono coltivati a zucchero 31 milioni di ettari di terra, l’equivalente dell’Italia>.
La tendenza alla concentrazione dei marchi è in atto da tempo e riguarda praticamente tutti i settori alimentari. Stiamo naturalmente parlando di multinazionali. Tuttavia ci sono eccezioni, come il latte e il vino. Nel settore vinicolo il blocco alla creazione di grandi gruppi è dovuto a un legame strettissimo con il territorio (ogni collina ha la sua cantina sociale), ma nella birra non è più così da tempo: i tre principali marchi mondiali, i belgi di InBev, i sudafricani di SabMiller e gli olandesi di Heineken, controllano da soli il 60 per cento del fatturato mondiale e raccolgono l’80 per cento degli utili. Analoga concentrazione sta per avvenire nel settore del caffè. <L’esempio della birra – spiega Antonio Baravalle di Lavazza – dimostra che nei settori dell’alimentare la concentrazione delle proprietà fa aumentare i profitti>. Dunque c’è da immaginare che nei prossimi anni i dieci signori che governano le tavole del mondo si ridurranno ancora? <Penso che ci sia un limite alla concentrazione. Fondersi loro non sarà facile. Mi sembra più probabile che ciascuno di quei dieci gruppi assorba nel tempo altri gruppi minori>.
Anche se, a ben guardare la composizione della tavolata, non tutti i signori del cibo hanno la stessa consistenza. Provando a metterli in fila per fatturato, la Nestlé è di gran lunga più grande (90,3 miliardi) della seconda classificata, la Pepsi Cola, (66,5 miliardi). Nonostante il suo valore iconico, come si dice oggi, la Coca-Cola è ben distaccata dalla storica rivale ed è ferma a 44 miliardi di fatturato, scavalcata da Unilever (60) e Mondelez (55). A fondo classifica c’è la Kellogg’s con 13 miliardi di dollari di ricavi annui. Con queste marcate differenze tra i dieci primi in classifica c’è, in teoria, ancora spazio, per i matrimoni. <Ma può anche accadere – spiega Baravalle – che uno dei grandi gruppi decida di liberarsi di qualche marchio perché non lo considera abbastanza globale>. È successo, ad esempio, con la decisione di Mondelez e di Procter&Gamble di cedere i suoi marchi del caffè. Ed è quel che è accaduto negli anni scorsi a Findus, un tempo di Nestlé, poi di Unilever e oggi controllata da un fondo di investimento. Findus continua ad essere un ottimo marchio ma il suo difetto è quello di essere forte solo su alcuni mercati. Un’altra tendenza è quella di rilevare un marchio alimentare locale perché faccia da veicolo alla penetrazione di un grande gruppo in un mercato. Se Unilever, per esempio, deciderà un giorno di acquistare un marchio locale in un paese asiatico, lo farà soprattutto per mettere piede in quel mercato e poterlo affiancare dopo poco tempo con uno dei suoi brand globali.
Dopo altri decenni di (ipotetiche) fusioni e concentrazioni, ci troveremo un giorno a consegnare ad un unico grande fratello le chiavi della dispensa del mondo? Quello di un pianeta in cui una sola grande multinazionale controllerà tutti i marchi alimentari è certamente uno scenario da incubo. Ma come tutti i processi di concentrazione, anche quello del cibo crea inevitabilmente i suoi anticorpi. Succede in politica, dove contemporaneamente alle unioni tra Stati nascono i movimenti separatisti e territoriali; accade, in modo virtuoso, nell’alimentare con il sorgere dei prodotti a chilometro zero, i presidi territoriali, i sistemi di produzione artigianale. Chi decide di resistere alla tentazione di vendere l’azienda alle multinazionali è inevitabilmente portato a valorizzare il suo brand mettendo in evidenza il legame con il terzo mondo dove il rischio della concentrazione dei produttori di alimenti è meno forte. Un po’ per il particolarismo che caratterizza la nostra economia asfittica. Un Paese dominato dal modello per molti aspetti negativo della piccola e media impresa, che nel settore del cibo potrebbe trasformare il difetto in virtù. Lo dimostra uno studio condotto dall’agenzia Next con un questionario rivolto alle aziende alimentari italiane. L’elenco di quelle principali dice che siamo ben al di sotto del livello dei colossi mondiali. L’unica che si avvicina per fatturato è la Ferrero, con 8,1 miliardi di euro di ricavi annui, circa 10 miliardi di dollari, poco meno dei 13 miliardi della Kellogg’s. Le altre sono molto più indietro. La Barilla fattura 3,5 miliardi di euro ed è limitata dal fatto di avere come business un prodotto molto connotato localmente come la pasta. Si contano sulle dita di una mano le altre italiane sopra il miliardo di fatturato: il gruppo Cremonini (3,5) Parmalat (1,4), Amadori (1,3) Lavazza (1), Conserve Italia (1). Immediatamente sotto il livello del miliardo ci sono Acqua San Benedetto, Galbani e Granarolo.
È evidente che i signori del cibo italiano sono molto meno potenti dei commensali della tavolata mondiale. Ci si chiede se i re dell’alimentare, in Italia e nel mondo, hanno politiche comuni, accordi segreti, si mettono d’accordo per decidere che cosa mangeremo nei prossimi trent’anni. L’idea di una Trilateral del cibo, di un supergoverno occulto delle nostre cucine, è forse fantasiosa: <Credo anch’io che messa così possa essere un esercizio di fantasia – premette Baravalle – ma sarei un ingenuo ad escludere che sulle grandi questioni di politica alimentare i grandi gruppi non esercitino, com’è legittimo, le loro pressioni sui politici>. Certo, la discussione delle normative comunitarie sulla etichettatura risente e ha inevitabilmente risentito dei desiderata dei signori del cibo. Ogni particolare in più o in meno da aggiungere sul foglio informativo per i consumatori si porta dietro miliardi di investimenti. Il caso più clamoroso è scoppiato di recente e riguarda gli oli utilizzati finora. E’ sufficiente scrivere che si tratta genericamente “oli vegetali”. Ma se domani i produttori fossero costretti a specificare quali sono quegli oli, quanti avrebbero il coraggio di scrivere che utilizzano l’olio di palma, decisamente più scadente di quello di cocco? i Ogni tanto sedersi intorno a un tavolo e decidere strategie comuni, può essere utile. Anche per i signori del cibo.
Il gioco dei numeri
(Danilo Taino, Corriere) Divertissement di inizio d’anno tra matematici. Per dire che i numeri sono flessibili, che la loro interpretazione è in genere sbagliata e, comunque, la verità è un’altra cosa. Titola un quotidiano: <I sondaggi danno i due candidati spalla a spalla>. Titola invece un quotidiano matematico: <I sondaggi su questa elezione sono inutili>. Dice la tv: <Triplica la vendita di auto elettriche>. Ribatte uno statistico: <La vendita di auto elettriche sale dello 0,4%>. Sui media: <Lo scaricamento illegale fa perdere 300 milioni all’industria discografica> Tra i matematici: <Scaricamento illegale: se non fosse gratuito, probabilmente nessuno lo scaricherebbe>. Un politico dell’opposizione: <Il tasso di disoccupazione passa dal 7,6 al 7,796>; un matematico: <Il tasso di disoccupazione è dalle parti dell’8%: forse sale, forse scende, non abbiamo abbastanza dati per decidere>. Il governo: <I mercati risalgono, dopo le rassicurazioni del ministro per l’Economia>. Il matematico: <I mercati salgono dopo essere scesi>. Un giornale di provincia: <Ondata di calore nella nostra città: una conferma del riscaldamento globale>. Uno scienziato del clima: <Ondata di calore locale: essendo locale, non significa nulla rispetto al riscaldamento globale>.
Il sito www.rudimathematici.com, ci ricorda che i numeri non raccontano tutto: <Si conoscono molte più cose di quante siano state dimostrate>, sosteneva il grande fisico Richard Feynman. E invitava a non contare troppo sulla probabilità: <Non c’è alcuna relazione diretta tra la verità di una proposizione, e la sua probabilità – diceva J. M. Keynes – la probabilità inizia e termina con la probabilità>. In ogni caso, fidarsi poco di chi lancia i dati: <Se vuoi ispirare fiducia, dai molti dati statistici – non importa che siano esatti e neppure che siano comprensibili; basta che siano in quantità sufficiente>. Insomma, chi si occupa di numeri è diverso da noi. Per esempio, la moglie di un programmatore dice al marito: <Vai al supermercato e compra un chilo di pane. Se ci sono le uova, comprane una dozzina>. Il programmatore torna con le uova e 12 chili di pane. Insomma, tenere assieme numeri e logica è complicato.
Citazione
Il buon senso esisteva ancora, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune (Manzoni, I promessi sposi).
lorenzo.borla@fastwebnet.it