La bocciatura della risoluzione palestinese

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La storia della proposta di risoluzione palestinese al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che propone di completare i negoziati con Israele entro il 2015 e il ritiro di Israele dai Territori palestinesi entro il 2017, è davvero curiosa. Presentata dalla Giordania, a nome di tutto lo schieramento arabo, essa il 30 dicembre scorso non ha raggiunto il quorum necessario di 9 voti favorevoli su 15, fermandosi a 8, con 5 astensioni e 2 contrari (USA e Australia). Tra i favorevoli due Stati europei, Francia e Belgio, mentre gli inglesi si sono astenuti. Decisivo è stato il cambiamento di fronte della Nigeria, paese islamico il cui voto favorevole veniva dato per acquisito, e che invece è passata tra gli astenuti. Il paese era stato oggetto di forti pressioni diplomatiche israeliane e statunitensi.

L’esito del voto ha quindi consentito agli USA di non ricorrere all’arma del veto, necessario se la risoluzione fosse passata. Una opzione che essi preferivano evitare, per non scontentare gli alleati arabi coalizzati contro l’ISIS.

Va sottolineato, tuttavia, come per la prima volta gli USA non abbiano fatto riferimento ad un uso automatico del veto, di fronte a proposte di risoluzioni relative a quel conflitto, rinviando ad una approfondita analisi di metodo e di contenuto, cosa che non esclude quindi un diverso e più positivo atteggiamento rispetto a proposte più bilanciate e accettabili. Una svolta profonda, con possibili forti conseguenze. Se avessero aspettato solo alcuni giorni, i palestinesi si sarebbero trovati con una composizione del Consiglio di sicurezza molto più favorevole, riuscendo sicuramente ad ottenere la maggioranza. Perché hanno voluto precipitare così le cose?

Ancora più strana è la vicenda del testo di quella risoluzione. Il testo iniziale presentato era un testo molto cauto, e su alcune questioni nodali, come quella di Gerusalemme, riportava formulazioni molto moderate, come “Gerusalemme capitale condivisa dei due stati”; anche sui rifugiati si faceva espresso riferimento alla formulazione del Piano Arabo di Pace, che parla di “Soluzione equa e condivisa del problema dei rifugiati”.

Ma poi si levava all’interno del campo palestinese una ventata di critiche, primo tra tutti il leader incarcerato in Israele, Marwan Barghouti, che denunciava l’assenza di ogni riferimento esplicito a Gerusalemme Est, così come la mancata riaffermazione del diritto al ritorno dei rifugiati. Così, la leadership palestinese decideva di modificare in alcuni punti il testo presentato, introducendo anche un riferimento esplicito a Gerusalemme Est come capitale dello Stato palestinese. Così facendo si dava soddisfazione ai critici interni, ma sicuramente si rendeva più difficile il voto favorevole di alcuni membri, a cominciare dagli inglesi che pure avevano presentato una proposta di risoluzione diversa insieme a francesi e tedeschi.

Secondo alcuni analisti, l’accelerazione impressa dal Presidente palestinese Abbas non è stata casuale: egli ha potuto così dimostrare ai suoi critici la sua fermezza, mettendoli a tacere, e consentire agli Stati Uniti di non porre il veto, lasciandosi le mani libere per successivi passi, come una già preannunciata riproposizione della risoluzione al nuovo Consiglio di Sicurezza, o, come già fatto in questi giorni, l’adesione al Trattato di Roma insieme ad altri 20 trattati internazionali. Quel Trattato consentirà ai palestinesi di adire la Corte Internazionale di Giustizia de L’Aia, e di citarvi per crimini di guerra gli Israeliani. Un passo che fino all’ultimo gli USA hanno provato ad impedire, e che gli stessi negoziati portati avanti dal Segretario di Stato USA John Kerry, fino al fallimento dello scorso aprile, prevedevano espressamente di sospendere.

La reazione israeliana non si è fatta attendere, con il blocco del trasferimento alla ANP di una tranche di circa 120 milioni di dollari di tasse e contributi riscossi dagli israeliani per conto dei palestinesi, in base al Trattato di Parigi del gennaio 1994. Una misura criticata come inutile e dannosa dallo stesso Presidente israeliano Reuven Rivlin, che ha ricordato come un collasso dell’ANP sarebbe un grande guaio per Israele e soprattutto per le sue casse, facendo ricadere su di esso il mantenimento della popolazione palestinese sotto occupazione.

La realtà è che gli Stati Uniti con il loro pressing hanno voluto evitare che, alla vigilia delle elezioni israeliane del 17 marzo, Netanyahu potesse ancora una volta fare ricorso al vittimismo, di fronte ad una risoluzione ostile approvata dal Consiglio di Sicurezza. A questo orientamento avrebbero contribuito, come da lui stesso dichiarato, alcuni incontri con l’ex Presidente israeliano Shimon Peres e con la stessa Tzipi Livni, ex Ministro degli Esteri di Israele e ora in una lista comune insieme al leader labourista Herzog.Per questo gli USA hanno lavorato ad affossare l’iniziativa palestinese e a fermare almeno fino a dopo le elezioni quella francese.

Ma chiunque sia il leader scelto dalle elezioni come Premier di Israele, questi si troverà di fronte questi stessi nodi irrisolti, e probabilmente di fronte ad una rinnovata iniziativa francese (se non, più auspicabilmente, europea) che potrà avere caratteristiche più organiche e bilanciate rispetto a quella presentata dai palestinesi, prestando maggiore attenzione agli stessi problemi di sicurezza di Israele: una risoluzione, dunque, su cui gli stessi Stati Uniti potrebbero convergere, o almeno non opporsi.

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