di Salvatore Italia
Democrazia
Le democrazie rappresentative – come la nostra – sono state spesso definite come “governi di opinione”, proprio ad esaltare il ruolo essenziale dell’opinione pubblica nel processo formativo delle decisioni di governo. *1
Insomma è come dire che questo aggregato collettivo è il vero timoniere della politica nazionale.
A metterla così ci sentiremmo tutti piuttosto sollevati, soprattutto in un’epoca come la nostra dove lo strumento di connessione politico-istituzionale dei partiti sembra essere saltato.
Non importa che il partito abbia abdicato alla sua funzione costituzionale – essere ponte tra i cittadini e i luoghi delle decisioni sovrane – perché l’azione di governo sarà sempre e comunque legata al buon timoniere del pubblico intendere.
Davvero? Siamo sicuri che sia così?
Vediamo, anzitutto, cos’è questa opinione pubblica.
“Opinione” è un’idea leggera: non si richiede al popolo episteme *2 (questa è virtù dei delegati, o dovrebbe), ma doxa, ossia un generico sapere, un intendimento sufficiente.
E “pubblica”, ad indicare da una parte la sua dimensione collettiva e dall’altra l’oggetto della stessa, ovverossia fatti che attengano alla respublica.
In brevis la democrazia rappresentativa per funzionare – cioè essere strumento di autogoverno – presuppone un’opinione pubblica pienamente e liberamente (in)formata, o meglio (in)formata sui temi su cui si dovrà decidere.
Ma esiste in Italia la condizione di sapere per decidere? Perché tutto dipende da questo.
La questione investe l’attuale fonte principale di informazione: la televisione con i suoi TG e programmi “d’approfondimento”. Giornali, libri e web seguono a lunga distanza.
TV & Auditel
In Italia quando si parla di televisione si pensa subito a Berlusconi. Vogliamo non farlo per una volta? Già, perché il discorso sulla libertà di informazione in quanto tale ha risposte plurime e molto dipende dalla parte politica a cui la domanda si pone. Anche se poi la soluzione praticata da entrambe sembra essere la stessa: opportunamente ignorarla.
Conviene anche a noi fare orecchie da mercante e obliterare – sia pure con un sorriso amaro – questo punto interrogativo. Del resto dietro a questo problema se ne nasconde un altro altrettanto grave: quello della qualità dell’informazione.
Incidentalmente si dica, che il problema della qualità potrebbe sussistere stante anche la massima libertà personale del cittadino di auto-informasi, ovvero in presenza sin’anche di un regime a concorrenza perfetta.
Se è vero che un sistema a concorrenza pura degli operatori del mercato televisivo si tradurrebbe in piena libertà degli utenti, è altrettanto vero che la libertà di scelta potrebbe non significare anche qualità nella scelta.
Questa curiosa congiura si cela nello strumento di misura della concorrenza. Inadeguatamente scelto ci mostrerà una falsa rappresentazione della realtà, mistificando la stessa gara dei competitor radiotelevisivi.
Il riferimento è per gioco forza all’Auditel, che può essere considerato il vero reo del basso livello culturale della nostra televisione. Dico “gioco forza”, perché sembra esistere solo l’Auditel sul mercato italiano! Insomma, a misurare la concorrenza radiotelevisiva sarebbe un’azienda in odore di monopolio. Il problema non sembra essersi risolto neppure a seguito delle correzioni successive all’approvazione del disegno di legge Gentiloni *3 che, prevedendo la ripartizione del capitale sociale dell’azienda tra le major operanti nel settore televisivo, ha di fatto aiutato il consolidamento della sua posizione dominante..
Ma, al di là di questa “bizzarra incongruenza”, è il sistema di campionamento statistico ad essere davvero paradossale.
5163 famiglie brandizzate Auditel, che passano la loro giornata a vedere la televisione, sarebbero davvero il campione su cui stabilire cosa guardano 56.904.890 italiani? Ma siamo seri.
Esistono diversi tipi di pubblico: giovani, anziani, passando da finemente dotti a vergognosamente incolti e ancora belli, brutti, alti e bassi.
Insomma, diverse le persone che stanno davanti al video e diversi i loro gusti televisivi, le loro esigenze. Di tutto questo l’Auditel non tiene assolutamente conto producendo una statistica indifferenziata. È evidente che se la bontà di un programma dipende solo dal suo ascolto, non possiamo poi lamentarci che lo standard qualitativo sia basso, del resto lo stiamo chiedendo a 5000 famiglie quantomeno sui generis.
Se questo è vero per i programmi televisivi tout court intesi, lo è altrettanto per i telegiornali, anch’essi sottoposti alla gara auditel.
Quest’ultimi in una ridicola rincorsa all’audience annegano la vera informazione in una serie di “notiziette”, affossando la loro natura di massima fonte di video-sapere politico.
Il problema a questo punto, però, diviene grave non perché la TV è sciatta e noiosa, ma perché questo modello televisivo mette in crisi la democrazia, nel suo fare e disfare l’opinione pubblica.
Abbiamo, infatti, visto che la formula della sana e (in)formata opinione pubblica è “sapere per decidere”. Ma sapere cosa?
Le news dell’ultima avvincente crime-story? Come sarà la moda quest’autunno? L’ennesimo colpo di testa di Paris Hilton, ammesso che ne abbia una?
Paradossalmente per decidere di politica bisognerebbe sapere di politica, ossia di respublica.
Far vedere la cruda immagine di un omicidio, la famiglia che piange per la sciagura, o ancora le gambe dell’ultima promossa al rango di velina, conviene. Non solo perché secondo l’Auditel alza lo share, ma anche perché non c’è bisogno di commento. Qui la notizia parla attraverso l’immagine.
Mentre descrivere le conseguenze di un disegno di legge presentato dal governo, o del referendum popolare richiede capacità di analisi, di argomentazione. E sia detto, non tutti sono all’altezza di farlo. Eppure è proprio di questo che abbiamo bisogno, di altezza dell’informazione.
Un possibile cambiamento
Il video-sapere non può essere ostacolato da improbabili sistemi di campionamento, o dal raggiungimento della massima quota di telespettatori. La video-informazione ha un ruolo fondamentale nella costituzione dell’opinione pubblica e questa è strettamente funzionale alla stessa democrazia.
Occorre cambiare. Ma da dove iniziare?
Anzitutto, pur conservando l’indagine a campione, si potrebbe modificare il relativo parametro statistico. In particolare si tratterebbe di passare dal dato aggregato ed indifferenziato (attualmente fornito dall’Auditel) ad uno etero-composto (età, livello di studi, reddito, sesso, ecc.), in tal modo otterremo immediatamente due primi significativi effetti: dati più verosimili e la possibilità di conoscere con più esattezza chi guarda cosa.
Si tratta di scavalcare l’età giurassica dello share assoluto, per passare all’apprezzamento differenziato per categorie di utenza.
Ciò consentirà di individuare spazi per programmi “più impegnativi”, che altrimenti sparirebbero inghiottiti da un indice di ascolto negativo.
Ma, il vero balzo in avanti potrebbe stare nell’eliminazione dello stesso sistema di campionamento.
La meccanica del campione rappresentativo soffoca l’individualità dei gusti e delle scelte, rispondendo ad una logica dirigistica e dogmatizzante.
Occorre, viceversa, privilegiare il singolo individuo attraverso la creazione di profili definiti dalla stessa utenza radiotelevisiva.
L’auto-costituzione di profili personali è forse la risposta più consona all’obiettivo e la meno invasiva della riservatezza personale del telespettatore. Accounts liberamente formati dallo stesso video-utente e arricchiti progressivamente dalle sue scelte televisive, da sondaggi e quant’altro permetta di confezionare una soluzione mediatica ad hoc.
La tecnologia lo permette. Gestire milioni di profili è complesso, ma ha anche enormi vantaggi, non da ultimo economici. Del resto è noto che l’utente finale della tv è l’impresa commerciale, alla quale la rete televisiva vende pacchetti di ascolto, quindi l’adozione di un modello in grado di individuare, sia pure tendenzialmente, preferenze ed interessi del fruitore mediatico, non potrebbe che avvantaggiare tutte le aziende del settore.
Limitazione di libertà derivante da compressione della privacy?
Forse, ma personalmente tra la condanna ad una progressiva cieca ignoranza e il far sapere ad altri cosa mi piace, preferisco di lunga la seconda.
Vantaggio economico per imprese e canali, più alto livello d’informazione, opinione pubblica più tonica, democrazia più sana.
Note
*1 fra tutti Dicey, Ldectures on the relation between law and public opinion in England during the nineteenth century, 1905.
*2 Epistéme: (dal greco επιστήμη) scienza, o conoscenza esatta delle cose.
*3 Disegno di Legge 1825 – Disposizioni per la disciplina del settore televisivo nella fase di transizione alla tecnologia digitale – presentato il 16 ottobre 2006 dal Ministro Gentiloni.
http://www.comunicazioni.it/normativa/pagina23.html
http://www.comunicazioni.it/binary/min_comunicazioni/normativa/ddl1825.pdf