(LB) Se andiamo alle radici della scelta di essere di sinistra, impegnarsi con la sinistra, militare nella sinistra, credo che la ragione fondante consista nel rifiuto di ingiustizia e disuguaglianza. Chi è di sinistra vuole più giustizia e meno disuguaglianza. Questo dovrebbe essere, da una parte, il discrimine con la destra; dall’altra il cemento identitario, unificante, di chi si qualifica di sinistra. La sinistra, idealmente, dovrebbe coincidere con il Partito socialista delle origini, che raccoglieva tutte le istanze. Ma la caratteristica precipua della sinistra, nel corso della Storia del nostro Paese, è quella di essere disunita. Perché all’interno della Sinistra ci sono sempre state formazioni più o meno a sinistra secondo una gamma di sfumature, non del grigio, ma del rosso e dell’arancione (mi sembra sia stato Pietro Nenni a dire che per quanto uno sia puro, ci sarà sempre qualcuno più puro che ti epura…). Così si spiega come mai il Partito socialista nato nel 1892, e formalmente unito fino al gennaio 1921 (per quanto già diviso al suo interno da correnti in forte contrasto tra loro), abbia poi subito nel corso della storia una serie di scissioni (che non starò a ricordare); per finire in questi giorni, ancora una volta, con la ventilata scissione della sinistra del Partito democratico. Quale è il nocciolo della questione? Il nocciolo della disputa, in definitiva, consiste in quali misure si dovrebbero adottare per trasformare la presente società in una più giusta e meno diseguale: dalla rivoluzione al riformismo. Ma vorrei anche cogliere un aspetto minore, particolarmente arzillo in questo momento. Una delle risposte potrebbe essere che – consideriamola una debolezza umana – è più stimolante, sfidante, eccitante, azzuffarsi furiosamente con il proprio vicino di banco, prendergli la temperatura di sinistra, discutere su sottigliezze quisquiglie e pinzillacchere, fargli la morale con aria ispirata dall’iperuranio dei puri e dei duri; che non fronteggiare i veri nemici, che ovviamente sono la destra, la disuguaglianza, l’ingiustizia, la concentrazione della ricchezza, la finanza speculativa, la conservazione, la casta, i parassiti di Stato, i privilegiati, i monsignori, gli evasori fiscali, i difensori del liberismo nelle sue forme più spinte… In un articolo recente su Micromega Paolo Sylos Labini scrive: <Io credo che le vere riforme dovrebbero essere altre: la lotta ai paradisi fiscali, il divieto di costituire società offshore, il contrasto al sistema bancario ombra, la costituzione di agenzie di rating pubbliche internazionali per contrastare il potere enorme di questo oligopolio del rating che può mettere in ginocchio gli Stati, il divieto di emettere strumenti finanziari sui mercati non regolamentati>. Poco di questo sta facendo il Governo, ed è questa una delle critiche che io farei a Renzi…
A sinistra del Pd
(Giovanni De Luna, La Stampa) Nel 1994 Rifondazione comunista rappresentava il 10% dell’elettorato. Da allora, quel 10% è andato sgretolandosi fino a configurarsi oggi come una costellazione di piccoli partiti rinchiusi nel ghetto di un’opposizione impotente. E’ il prezzo pagato a una sorta di coazione a ripetere che ha sempre portato a raccogliere le bandiere lasciate cadere dagli altri senza mai trovarne di diverse, e spesso mutuando dagli altri le derive personalistiche, la frammentazione in correnti, un modo narcisistico e autoriferito di far politica. Per anni è sembrato che il problema fosse quello di trovare una leadership autorevole. Le esperienze in questo senso, da Bertinotti a Vendola, sono fallite; il loro tentativo non è andato oltre la soglia di una “narrazione” seduttiva, ma incapace di incidere sulla realtà. C’è stata poi la stagione disastrosa dei leader chiesti in prestito alla magistratura: il flirt con Di Pietro, l’abbraccio a De Magistris, gli entusiasmi per Ingroia. Ora tocca a Landini, alla Fiom e alla Cgil, con un trasporto che ricorda quello per Cofferati e i tre milioni di manifestanti che affollarono Piazza San Giovanni. Ma ha un senso guardare alla magistratura e al sindacato come ad ambiti in cui si forma oggi una leadership politica? Il sindacato degli anni ‘70 fu quello che allargò la sua sfera di intervento dalla tutela del salario alla contrattazione complessiva di tutte le condizioni del lavoro, estendendo il suo raggio d’azione fino a interagire con il governo sulla scuola, la sanità, i trasporti, la casa. In quegli stessi anni la magistratura finalmente spezzò la continuità che aveva legato i suoi apparati ai codici del fascismo, aprendosi all’applicazione della Costituzione e ampliando gli spazi della nostra democrazia. Quel sindacato fu sconfitto nel 1985, con il referendum sulla scala mobile, perdendo, da allora in poi, rappresentanza e rappresentatività; la magistratura, in questi anni, è stata chiamata ad esercitare un ruolo di supplenza nei confronti di una classe politica inadeguata, fino ad assumere un ruolo improprio, con uno straripamento che ha funzionato come un vero e proprio boomerang per la sua credibilità. In questa coazione a ripetere è come se la fine del Novecento abbia provocato un lutto mai elaborato. Il Pd ha semplicemente rimosso quel passato. L’altra sinistra, in quel passato è rimasta invischiata, limitandosi a contemplare attonita le macerie (Stato, Partito, Lavoro, tutti con la maiuscola) su cui si era fondata la sua tradizione novecentesca, incapace di trovare alternative alla dissoluzione di quella forma partito. Così, in attesa che si sviluppino le potenzialità intraviste nell’esperienza della lista Tsipras, si prospetta l’eventualità del vecchio gioco delle scissioni e delle fusioni. Non un presagio rassicurante per il futuro.
Purezza e riformismo
(Francesco Piccolo, Corriere) La sinistra italiana è a un bivio. Seguire per strade sconosciute Renzi e il suo gruppo nato e cresciuto alla Leopolda, oppure restare ancorata al vecchio gruppo che sa difendere tanti diritti fondamentali ma non sa pensare niente di innovativo? La sinistra italiana degli ultimi venti, anzi trenta anni, è stata reazionaria e ha inseguito il mito della purezza, e cioè degli ideali da difendere senza nessuno sconto. Questi due elementi sono stati fondamentali per godere in modo masochistico del terzo, e cioè la propensione alla sconfitta. Soltanto con la sconfitta la purezza è difendibile, soltanto con la sconfitta non si mettono alla prova le idee e quindi si conservano intatte, come sotto i ghiacciai. Quindi, la sconfitta è stata salvifica per questo, ed è stato il punto di identificazione di varie generazioni.
Secondo questi canoni, Renzi non è di sinistra: cerca di applicare al suo governo i caratteri del riformismo e quindi è disposto a rinunciare alla purezza; con questo intento ha avuto risposte elettorali vincenti. Un inciso però va fatto: il riformismo progressista e in collaborazione con altre forze politiche è stata l’ultima grande strategia politica di questo Paese, e l’ha immaginata Berlinguer. Fanfani ne era il più fiero oppositore ed è grazie a lui che la sinistra è stata allontanata per decenni dal governo del Paese; e poi, sia altrettanto chiaro, Berlinguer non avrebbe governato con chi è dalla parte opposta del Parlamento. Quindi anche i giovani della Leopolda fanno un po’ di confusione.
Per essere di sinistra bisognerebbe essere progressisti, bisognerebbe accogliere il presente e avere voglia di prendersi la responsabilità di guidare il Paese — e questo comporta sia cadere in errore sia collaborare con chi ci sta. Di conseguenza, per essere di sinistra, bisognerebbe non essere come è stata la sinistra negli ultimi 30 anni. Ecco cosa sta succedendo alla sinistra italiana: c’è qualcuno, al suo interno (o meglio, al suo posto), che dimostra l’inconsistenza di ciò che era diventata. E allora cosa deve fare? Deve opporre resistenza al cambiamento un po’ troppo disinvolto e un po’ troppo guascone di Renzi? O deve seguirlo sopportando gli eccessi, casomai contribuendo a spostare la barra e verso la via migliore? La questione è se imboccare davvero la strada del riformismo; e cioè fare e non invocare riforme. Perché le risposte nella pratica sono sempre negative? Com’è possibile che ogni proposta di riforma riesca ad acquietare la sinistra e l’intero Paese solo se alla fine non se ne fa nulla? (Ed è ovvio che non stiamo entrando nel merito di ognuna, adesso).
L’Italia ha una doppia anima reazionaria. È reazionaria perché è conservatrice: una larga parte del Paese non vuole cambiare nulla (non vuole nemmeno che tutto cambi affinché nulla cambi; non vuole cambiare e basta); ed è reazionaria perché è vittima, a sinistra, del sentimento di sconfitta dei rivoluzionari. La rivoluzione non c’è stata, oppure è stata sconfitta. E tutti i reduci e i postumi della rivoluzione sono diventati reazionari: poiché il cambiamento non è stato radicale, ogni forma di cambiamento è insufficiente. È questa la frase che sentiamo sempre in questi mesi per le varie proposte: insufficiente. Sentiamo anche: peggiorativa, sia chiaro. E quando è peggiorativa, bene, se ne può discutere, si può combatterla; ma quando è insufficiente, bisognerebbe mettere in atto la vera rivoluzione in questo Paese: fare riforme insufficienti. Forse, il riformismo è esattamente questo: attuare una serie di riforme che riempiano man mano la distanza tra il punto di partenza e un punto di arrivo soddisfacente. In mezzo, c’è un cambiamento che avrà un cammino sempre meno insufficiente. La sinistra italiana ha davanti queste due strade, e deve scegliere se ritornare nella sua riserva rassicurante o se partecipare in modo attivo e propositivo alla guida del Paese, in un governo che cammina con varie stampelle fornite da altri (almeno fino alle prossime elezioni). È vero, Renzi spaventa per la sua avventatezza; ma la sinistra reazionaria spaventa (da molto tempo) per la sua mancanza di idee.
Disuguaglianza
(Federico Fubini, Affari e Finanza) In Italia nemmeno la crisi è uguale per tutti. E tra il 2008 e il 2014 il nostro Paese si è sempre più allontanato da quel paradiso in terra dell’uguaglianza che è la Scandinavia. Tanto da piazzarsi solo al 24esimo posto (su 28 membri) nella classifica della giustizia sociale nell’Unione europea. Questo risulta da un voluminoso studio della Bertelsmann Stiftung, una fondazione privata tedesca che è un accreditato pensatoio economico-sociale. Un dato, quello della giustizia sociale, molto delicato. E sul quale l’Ocse invita a grande cautela perché è capace di mettere in pericolo la legittimazione e la stabilità politica di una comunità. Peggio dell’Italia, per i ricercatori della Bertelsmann, si comportano solo Ungheria, Bulgaria, Romania e Grecia. Primi della classe, invece, risultano Svezia, Finlandia, Danimarca, Olanda e Repubblica Ceca nell’ordine. E gli altri “grandi”? La Germania è settima, la Francia 12esima, il Regno Unito 16esimo, la Spagna 2lesima. Tanto per marcare le differenze, in una scala “scolastica” da uno a dieci, la Svezia è in testa a quota 7,48; la Germania si ferma a 6,55; la Francia è a 6,12; il Regno Unito non arriva alla sufficienza (meritando 5,94) ma comunque si situa oltre la media Ue di 5,60. All’Italia un poco lusinghiero voto di 4,7 con la Spagna (che riesce leggermente meglio) a 4,85 e il fanalino di coda Grecia a 3,57. La ricerca si focalizza su sei indicatori principali, variamente declinati: la prevenzione della povertà, l’educazione, l’accesso al mercato del lavoro, la coesione sociale, la salute, la giustizia intergenerazionale. Ebbene, in nessuno di questi l’Italia raggiunge la sufficienza e solo per la salute fa meglio della media europea, ma con una tendenza pericolosa al peggioramento. Mentre per la giustizia intergenerazionale si ritrova alle spalle giusto la Grecia.
La patrimoniale
(Salvatore Salzano, Circolo Rosselli) Siamo tutti d’accordo che la lotta all’evasione fiscale potrebbe portare ingenti entrate, e così anche una intelligente politica di riqualificazione della spesa pubblica. Ma servono anche segnali forti di una inversione di rotta nel modo in cui si ripartisce la ricchezza del paese. E’ infatti evidente che la crisi sta concentrando la ricchezza in sempre meno soggetti e questo fatto si traduce inevitabilmente in problemi di domanda e di base imponibile. Io quindi proporrei un ragionamento che punti, in aggiunta alla lotta all’evasione e alla riqualificazione della spesa, anche a ridistribuire la ricchezza del paese. Il meccanismo che propongo lo spiego con questo esempio. Il valore del patrimonio immobiliare privato italiano nel 2012 è di 5000 mld di euro, mentre il gettito Irpef del 2012 è di 228 mld di euro. A partire da questi dati, io introdurrei una patrimoniale (chiamiamola Imu o Ici così sembra meno ideologica!) dello 0,7% (il famoso 7xmille corrispondente a molte attuali aliquote Imu) senza esonerare alcuna abitazione, neanche le cucce dei cani, per evitare il proliferare dei soliti prestanome a cui intestare immobili. In questo modo si riuscirebbe ad ottenere un gettito di 35mld di Euro, e, va sottolineato, certi, in quanto gli immobili sono censiti e quindi facilmente “aggredibili” (come si dice in gergo). Adopererei quindi circa 16 mld di euro dei 35 recuperati con la patrimoniale per ridurre del 7% l’Irpef a tutti. La riduzione dell’Irpef annullerebbe, di fatto, l’imposizione patrimoniale per i possessori di una o due case, quindi, per questa via, di fatto le prime case sarebbero tutte esentate, e anche qualcosa di più, mentre si aumenterebbe l’imposizione fiscale su grandi possessori di immobili (in primis Banche, assicurazioni, chiesa, immobiliari, ma anche tanti evasori che hanno investito nel mattone le loro ricchezze…) Restano disponibili poco meno di 20 mld per mettere in atto molte delle cose di cui parlavano Riccardo Achilli e Lanfranco Turci, e inoltre, va sottolineato, questa azione contiene già al suo interno una lotta all’evasione e una redistribuzione di ricchezza. Ovviamente andrebbero tenute presenti alcune situazioni marginali (ad esempio i pensionati al minimo che magari vivono in una casa con alto valore catastale e che quindi, a causa del basso reddito, non avrebbero un grande sconto fiscale) sulle quali intervenire caso per caso, lasciando ad una collaborazione fra Comuni e Finanza gli accertamenti e gli eventuali interventi integrativi. Questo potrebbe ridurre di due o tre miliardi (non di più, considerato che esonerare l’IMU per le prime case costò 4 Mld) il gettito disponibile, ma resterebbero comunque ingenti risorse disponibili. Lo so benissimo che in un sistema fiscale onesto l’imposta più giusta sarebbe quella progressiva sui redditi, ma, a fronte di tanto sommerso e di una evasione alle stelle, usare solo le imposte dirette e indirette e lasciare del tutto intatti i patrimoni rischia di portare ad una imposizione addirittura regressiva.
La sinistra francese
(Massimo Nava, Corriere) Con l’acqua alla gola, nel mirino di Bruxelles, fustigato da Berlino, Francois Hollande ha finalmente trovato il coraggio di annunciare qualche misura eccezionale per ridurre la spesa pubblica e riordinare un modello di servizi e sovvenzioni sociali che <a forza di proteggere troppo, non protegge più niente>. Un modello di sprechi, abusi, privilegi corporativi, pioggia di balzelli e sussidi che si risolvono in una voragine per le casse dello Stato e in un peso fiscale insostenibile, soprattutto per la parte dei francesi che le tasse le paga. Ma il riformismo strutturale – nuovo mantra delle democrazie europee in recessione – dipende in minima parte dalla determinazione più o meno conclamata di chi governa. Ogni annuncio, ancora prima di trasformarsi in decisione, suscita un’ondata di proteste e chiusure in tutte le direzioni: nelle ultime settimane sono insorti farmacisti, ricercatori, avvocati e notai, piloti, impiegati dei tribunali e sono sul piede di guerra tutti quanti sarebbero toccati da misure di liberalizzazione di servizi e tariffe.
Ad opporsi al riformismo strutturale non sono soltanto le categorie penalizzate e loro rappresentanze: il che è comprensibile. Storcono il naso gli enti locali, ovvero le istanze più vicine ai cittadini, costretti a fare i conti con i tagli della spesa pubblica. Protestano le opposizioni. E s’incrina la coesione della maggioranza, fino a minacciare la tenuta del governo. La decisione più recente – quella che riduce i bonus fiscali per i figli a carico e taglia in proporzione al reddito le sovvenzioni per i servizi alla famiglia – dimostra come il riformismo strutturale, se messo davvero in pratica, sia indigesto per tutti gli schieramenti politici. Non ci è riuscito Nicolas Sarkozy che ha finito per fare lievitare in modo drammatico il deficit delio Stato. E incontra enormi ostacoli il suo successore, Hollande.
La nuove regole sulle allocazioni familiari – che contraddice una promessa elettorale – mette in discussione un principio universale dello Stato francese che, fino ad oggi, ha garantito prestazioni, servizi e sovvenzioni per numero di figli indipendentemente dal reddito. Le allocazioni saranno ridotte della metà oltre i 6000 euro di reddito mensili, e del 75% oltre gli 8000. Il disagio è notevole, se si considera che il ceto medio ha già subito aumenti d’imposte: è stato calcolato che un nucleo con 7500 euro di entrate mensili pagherà un conto (fra tagli di sovvenzioni e aumenti di imposte) di circa 3000 euro all’anno. Il malumore nella sinistra è palpabile e comprensibile. Le misure del governò socialista cominciano a contraddire scelte che fino ad oggi sembravano andare nella direzione opposta: tasse per i ricchi, salvaguardia del modello francese, nell’attesa fiduciosa di un ciclo positivo dell’economia.
Ma è più emblematico il coro di disappunto e critiche da parte della destra e di organi di stampa come Le Figaro o Le Point che non perdono occasione per denunciare l’immobilismo di Hollande, la voracità dello Stato assistenziale, l’incompatibilità del modello francese con i patti europei, le regole di Bruxelles e la competitività internazionale. Alcuni argomenti non mancano di suggestione. Hollande metterebbe fine a un principio di uguaglianza di prestazioni che è alla base della concezione dello Stato francese. Le classi medio alte – si sostiene – pagano già più tasse e quindi concorrono in misura maggiore all’universalità delle prestazioni pubbliche. Si sostiene anche che di questo passo le classi più abbienti finiranno per pagare di più per mettere i figli nella scuola pubblica e che si aprano le porte verso una privatizzazione di servizi, quali appunto asili e scuole.
La destra inglese
(Lucio Caracciolo, Repubblica) Da tutto il Regno Unito, Londra viene vista come un vortice che aspira e consuma le ricchezze nazionali. Gestita da un’oligarchia tanto opaca da nutrire le più cupe teorie del complotto, da una élite incarnata dai gentlemen di Westminster (il Parlamento) e di Whitehall (l’Amministrazione), con ramificazioni intellettuali a Oxbridge (ovvero Oxford&Cambridge, sinonimi di intelligenza e di eccellenza accademica) e connessioni globali con i traders della City, oggetto di leggende gotiche da far invidia agli gnomi di Zurigo. Contro questa Londra si è scatenata la voglia di autogoverno non solo della Scozia, del Galles e dell’Irlanda del Nord, ma anche di regioni come lo Yorkshire e la Cornovaglia, eccitate dalle promesse devoluzioniste di quello stesso establishment da cui si sentono manipolate.
Per rispondere all’eventuale (teorica) disintegrazione del Regno Unito si è pensato alla proclamazione dello Stato di Londra: centro della rete finanziaria mondiale, e mega paradiso fiscale. Nell’epoca della finanza elettronica, degli scambi algoritmici in tempo reale, perché non sognare di fare della City il centro di gravità permanente dei movimenti di capitale su scala globale? Non sono solo fantasie. Le sirene della City sono all’opera per sedurre i gestori dei fondi cinesi e islamici, insieme agli oligarchi russi – che Cameron vorrebbe trattenere sulla piazza di Londra malgrado il regime di sanzioni con cui l’Occidente intende castigare l’intervento di Putin in Ucraina – mandarini e sceicchi, detentori di un incommensurabile tesoro liquido, contribuirebbero a globalizzare la clearing house (ovvero la controparte automatica di tutti i contratti stipulati in un mercato, al fine di limitare il rischio di inadempimento) installata nella patria della sterlina, ma specialista nel mercato dell’euro.
Progetto di ardua attuazione che molto deve a una visione geopolitica di moda nell’Occidente intristito dal declino, in debito di futuro. L’idea è che il mondo in gestazione non apparterrà più agli Stati nazionali o alle loro costellazioni, come l’Unione europea, ma alle città globali che gestiranno la ricchezza finanziaria. La dimensione territoriale conterà quasi nulla. Basteranno pochi chilometri quadrati in cui impiantare superbi grattacieli dotati di ogni diavoleria tecnologica, nel cuore di una vibrante metropoli multietnica. In questa prospettiva la devolution non è una tragedia. E’ il penultimo grido della deterritorializzazione dell’impero britannico, condizione necessaria al suo rilancio in maggiore potenza, come assicurano i teorici della nuova geopolitica virtuale. Anzi risorgerà dalla City, di qui irradiandosi quale superhub della finanza globale. Il segno del comando non sarà più il possesso di colonie, ma il controllo delle nervature finanziarie che disegnano le architravi del potere reale perché impalpabile. L’ultimo standard della potenza, il marchio liquido dell’impero globale.
Non aprite quella porta
Filosofia, neurofisiologia e sistema giuridico
Il filosofo Giovanni Reale, deceduto a Luino il 15 ottobre, una settimana prima di morire ha rilasciato una intervista su un tema assai complesso relativo al rapporto mente-cervello.
(Mirella Serri, La Stampa) <Tempo fa ho letto su un giornale tedesco la notizia di un processo in cui l’avvocato difensore sosteneva la tesi che l’imputato, nato in Sardegna, non era responsabile dei suoi atti dal momento che un certo tipo di aggressività era una componente naturale del suo cervello, rintracciabile nel Dna di un sardo>. Il professor Giovanni Reale, tra i maggiori filosofi contemporanei, non ha dubbi. Quella inquietante notizia che viene dalla Germania è per lui il segnale che è urgente mettere un punto fermo nella discussione che oggi coinvolge l’intellighenzia europea e d’oltreoceano – sul rapporto tra le ultime frontiere della neurofisiologia, della filosofia e del sistema giuridico. Ieri un articolo su La Stampa, presentando un libro del neurofìsiologo Piergiorgio Strata (Il rapporto mente-cervello da Cartesio alle neuroscienze), metteva in guardia: <Non aprite quella porta>. I recenti approdi di Strata mettono in opposizione frontale le teorie scientifiche sulla mente, che deriverebbe interamente dall’attività biochimica del cervello, con una secolare riflessione filosofica in favore del libero arbitrio.
Professor Reale, le acquisizioni dei neuroscienziati mettono in crisi le cattedrali della filosofia e del sistema giuridico. E’ possibile? <Per carità! Chi ha detto che i risultati raggiunti dalle scienze sono verità incontrovertibili. Un esempio? Mi ricordo che ero allievo di liceo e arrivò un prof di scienze con tre i libri sottobraccio. Ognuno di questi dava una spiegazione diversa di cosa è il calore. Dunque la verità scientifica non e un dogma o una conquista assoluta. Come per la geometria euclidea, è un altro esempio, la somma degli angoli interni di i un triangolo è di 180 gradi. E’ forse un asserto valido per tutti i tipi di geometrie? Assolutamente no. Ricordiamoci che per Karl Popper, la scienza non procede verificando in positivo idee precedenti, ma falsificandole. Avanza cioè per paradigmi mutando i quali cambia tutto quello che si è detto>.
Volontà e libertà sono reperti del passato? <Dostoevskij, che è anche un filosofo, diceva che il bene e il male – lo dimostra con I fratelli Karamazov – derivano solo dalla libertà. Durante una conferenza in una sala gremita un docente di matematica intervenne e disse che la verità si raggiungeva solo con la matematica e le sue formule. “Ma lei quando litiga o parla con sua moglie usa formule matematiche?” gli chiesi. Il prof se ne andò indignato e il moderatore, il giornalista Armando Torno, mi spiegò che era appena uscito da una separazione familiare molto dolorosa. L’uomo non deve essere vittima di quello che costruisce e alla scienza non deve chiedere né poco né troppo>.
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Meglio due sinistre che nessuna (Jena)
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