(Pier Luigi Vercesi, Sette del Corriere) Il 2 luglio scorso, il Consiglio regionale della Toscana ha approvato all’unanimità un documento di 3.500 pagine che, in poche parole (!) attribuisce ai vigneti la causa di molti mali ambientali ed esorta, anzi programma, il ritorno alla pastorizia, ovvero ai prati lasciati incolti affinché il pastore errante e le sue greggi possano pascolare liberi e felici, senza recinzioni e, magari, trovare ispirazione per sogni idilliaci e moderne poesie bucoliche. Sulla salvaguardia del territorio non si transige e nemmeno sulla tutela delle biodiversità, ma il documento, nonostante contenga circa il doppio delle parole utilizzate da Lev Tolstoj per Guerra e pace, non fissa percentuali, non fa distinguo, non stabilisce regole, mette semplicemente sul banco degli imputati… il vino! Sembra una guerra, anzi una batracomiomachia tra personaggi mitologici, ovvero Bacco in Toscana e gli arcadici. Peccato sia realtà. Possibile che nemmeno un consigliere regionale si sia posto il problema delle conseguenze di tale documento? Da oggi i funzionali ligi alle direttive dovranno negare l’autorizzazione a chi intende impiantare nuove viti, anzi creeranno le condizioni affinché i vigneti diminuiscano. Gli enti pubblici, l’Europa in primis, saranno portati ad accantonare qualsiasi forma di promozione del settore. E le banche, già guardinghe nel concedere finanziamenti, perché dovrebbero rischiare soldi in un business che la Regione Toscana giudica in modo così severo? P.S. Buone notizie su un altro fronte: pare che i francesi siano molto preoccupati per il fatto che la Toscana li surclassa nella produzione di formaggio pecorino…
Il beneficio del dubbio
(Alan Friedman, Corriere) In questi giorni non sono mancate polemiche sulle riforme proposte dal governo italiano e sull’operato del presidente del Consiglio. Una parte di questa controversia riguarda il tentativo di modernizzare il mercato del lavoro in Italia attraverso una riforma che ha fatto scatenare una resistenza feroce da parte della Cgil e da una minoranza del Pd. A mio avviso il dibattito sul Jobs act, più di altre riforme di vasta portata finora proposte dal governo, rappresenta la vera prova del nove per un Paese che deve cambiare, non solo in termini di norme e leggi ma anche in termini di testa, di mentalità. In altre parole, vedremo nei prossimi mesi, da qui a Natale, la capacità dell’Italia di entrare a pieno titolo nel XXI secolo e diventare più competitiva: uno sforzo che si compie in un contesto internazionale in cui solo chi si presenterà con un sistema moderno di regole potrà sperare di creare posti di lavoro e stimolare la crescita. Chi non sarà all’altezza risulterà perdente nella gara economica tra le nazioni.
Il presidente del Consiglio sta spingendo per una trasformazione molto ambiziosa, quasi violenta. E sta provando a realizzarla in un Paese abituato da decenni a cercare delle scorciatoie e a evitare i veri cambiamenti, in favore delle mezze misure o della parvenza di riforme, che definirei gattopardesche. Intendiamoci: non esiste una singola riforma che rimetterà l’Italia sul binario della crescita e dell’occupazione. Siccome l’Italia non ha fatto le riforme che gli altri Paesi come la Germania o il Regno Unito e siccome si trova ora in una fase prolungata di recessione, stagnazione e elevata disoccupazione, non ha alternative. Il Belpaese è arrivato ai tempi supplementari.
In Italia siamo arrivati alla stessa situazione del regno Unito (venti anni fa) e della Germania (dieci anni fa). Senza la riduzione di sprechi e di spese pubbliche che ci permette di tagliare in modo radicale l’Irpef e l’Irap, il Paese non ha futuro. Ma al di là della riforma del fisco, ci vuole una riforma della giustizia, della pubblica amministra-zione e soprattutto del mercato del lavoro, un mercato che tende a tutelare soltanto gli insider che hanno già un posto, e non chi deve ancora entrarci. Secondo me il trambusto sull’articolo 18 è un artificio non solo per qualche sindacalista che teme di perdere rilevanza, ma anche per gli ultrà della minoranza del Pd che non hanno mai digerito la loro sconfitta nelle primarie dell’anno scorso e che non riescono ad accettare il fatto che il mondo è cambiato.
Il presidente del Consiglio avrà tanti difetti. Si possono criticare alcune delle sue scelte, si può lamentare la raffica dei suoi annunci mentre si aspetta che il Parlamento approvi le sue riforme. Ma a mio avviso sarebbe prematuro scaricare l’unico leader politico che si è mostrato disposto a rischiare di schiantarsi contro un muro pur di portare avanti una trasformazione dell’economia italiana e che in questo momento vanta un consenso popolare elevato. Nel bene o nel male Renzi incarna una voglia di discontinuità che è condivisa da milioni di italiani e che è anche una necessità per il bene del Paese. Non sono politicamente schierato in Italia, ma vorrei concedere il beneficio del dubbio all’operato del governo Renzi perché credo che il cambiamento sia inevitabile in un Paese che non ha altra scelta, che non ha alternativa. Il cambiamento è inevitabile.
La testimonianza
Che il presidente Napolitano testimoni o meno in viva voce (per iscritto lo ha già fatto) ai giudici di Palermo, non è un tema che mi interessi. Ma questo articolo di Michele Ainis è così gradevole che non posso fare a meno di riportarlo.
(Michele Ainis, Corriere) Ci hanno messo un anno (meglio tardi che mai), però alla fine i giudici di Palermo hanno sciolto la riserva: Napolitano sarà testimone al processo sulla trattativa Stato-mafia. Non coatto, ma volontario; e non potrebbe essere diversa-mente, dal momento che il Codice di procedura penale (articolo 205) distingue la posizione del capo dello Stato da quella degli altri vertici delle nostre istituzioni. Il presidente della Consulta o del Consiglio, come d’altronde i due presidenti delle Camere, se rifiutano di deporre in un processo, subiscono l’accompagnamento coattivo; lui no, il codice lo esclude espressamente. Dunque la sua testimonianza è sempre spontanea, non obbligatoria. Ma evidentemente la Corte d’assise di Palermo non si cura dei dettagli. Non se ne cura nemmeno il presidente, dal momento che si è subito dichiarato disponibile. Potremmo rallegrarcene: dopotutto stiamo celebrando il trionfo del principio d’eguaglianza, con il primo cittadino trattato come tutti gli altri cittadini. Ma invece no, c’è un retrogusto amaro in quest’ultima vicenda. C’è il sospetto che la ricerca della verità sia diventata ormai un pretesto, peraltro espresso nel peggior giuridichese possibile. Nella sua lettera del 31 ottobre scorso, Napolitano aveva già messo nero su bianco ciò che aveva da dire; ma adesso i giudici vogliono ascoltarlo per acquisire quel , magari con l’aiuto d’un interprete. Come a dire che la sua testimonianza scritta ai loro occhi suona reticente, sicché vogliono sottoporla alla prova dell’orecchio. A noi, non è che la verità non ci stia a cuore. Ne avremmo fame e sete, sulla strage di piazza Fontana, su quella di Bologna, su Ustica, sul delitto Moro, sulle troppe pagine stracciate della nostra storia nazionale. La magistratura italiana fin qui non ci ha saziato, però meglio il digiuno che un’abbuffata di bugie. E meglio l’apatia, che una guerra permanente fra poteri pubblici e privati, se ciascuno usa la propria competenza per affermare la propria potenza. Succede spesso, ora impiegando lo schermo dell’art. 18 per regolare i conti con i sindacati, ora sventolando la privacy per ridurre al silenzio i giornalisti, ora con l’abuso dei decreti e dei voti di fiducia per addomesticare il Parlamento. Ma in Italia la vera rivoluzione sarebbe questa: che ciascuno torni a fare il suo mestiere, senza impadronirsi di quello altrui.
Tengo famiglia
(Michele Serra, l’Amaca) È quasi introvabile, in Italia, uno sguardo comune sulle cose pubbliche, è rarissimo chi riesca a mettere tra parentesi la propria funzione e la propria appartenenza. Il politico è per l’autonomia della politica, il magistrato per il primato della legge, il giornalista per la libertà di pubblicare tutto (chi si ritrova sbattuto in prima pagina lo è un po’ di meno), il militare è a favore delle spese militari, l’imprenditore preferisce che si investa nei lavori pubblici, chi fa parte di un ordine professionale lo difende, chi ne è escluso lo considera una casta di privilegiati, e così via. Nessuno è mai davvero al di sopra dei propri interessi e/o dei propri pregiudizi: ma da noi si esagera. Il risultato è la micidiale prevedibilità dì dichiarazioni e comportamenti, fino al paradosso di un De Magistris sindaco che dice le cose che facevano imbufalire il De Magistris piemme. Se fosse un alpino, De Magistris amerebbe la grappa, se fosse epatologo la odierebbe, se fosse una rockstar farebbe un concerto rumorosissimo, se fosse l’inquilino di fronte lo denuncerebbe per disturbò della quiete pubblica.
Fabrizio Barca su Matteo Renzi
(Huffington Post) . Parola di Fabrizio Barca, ex ministro della Coesione Territoriale e ora impegnato in giro per l’Italia a promuovere il suo progetto Luoghi ideali: un tentativo di ricostruire dal basso il tessuto del Partito democratico. Intervistato da Huffington Post, Barca risponde, a partire inevitabilmente dal Pd, . Barca critica la guida dell’attuale presidente del Consiglio: <C’è bisogno di una gestione democratica, che oggi nel Pd non c’è>. Sul durissimo editoriale di Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera però l’ex ministro si schiera dalla parte del premier: . Critico con il presidente del Consiglio, invece, sull’intervento annunciato dal governo sul Lavoro: . Barca parla anche del rapporto con il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan: . Giocavate a calcetto insieme? Frequentavate le stesse ragazze? <No, studiavamo insieme>.
Il modello tedesco del lavoro
(Michele Salvati e Marco Leonardi, Corriere) Se si accetta che la nostra legislazione sul lavoro abbia bisogno di una revisione profonda, noi sosteniamo che sia opportuno adottare il modello tedesco. Perché adottare il modello tedesco? Risposta: perché ci conviene. Perché in ogni caso, sia che l’austerità europea si attenui, sia che persista, e persino in presenza di forti turbolenze negli assetti istituzionali dell’Unione, avere un mercato del lavoro che funziona bene è meglio di averne uno che funziona male. In un contesto globalizzato, in cui tutti i Paesi avanzati sono comunque soggetti a forti pressioni competitive, fra i sistemi di legislazione del lavoro, quello tedesco è un buon compromesso tra flessibilità e garanzie, tipico di un Paese dell’Europa continentale con un welfare sviluppato e con sindacati forti. È un sistema che mantiene un filtro giudiziario al licenziamento, che però non interferisce con le motivazioni economiche addotte dall’imprenditore e solo opera, e può condurre al reintegro, se il lavoratore e i sindacati dimostrano che le motivazioni economiche sono un pretesto che nasconde motivi incostituzionali.
È un sistema dove esiste una indennità automatica: all’atto del licenziamento l’impresa è tenuta a offrire una indennità di un mese di salario per ogni anno di lavoro e, se il lavoratore l’accetta, perde il diritto di rivolgersi al giudice. Ed è un sistema dove i centri per l’impiego funzionano decentemente (con centomila addetti) e dove all’indennità di disoccupatone fanno seguito misure assistenziali, molto modeste, ma di durata indefinita. Tutto si tiene, nel mercato del lavoro, e una riforma del solo articolo 18 serve poco se non è accompagnata da una revisione di altre parti della legislazione del lavoro e del welfare.
Pochi i punti fermi. Il primo è che l’Italia ha un tesso di occupazione, in particolare quello femminile, troppo basso per permettersi un welfare generoso. Il numero degli occupati è all’incirca uguale a quello degli inattivi o disoccupati, e in più gli occupati hanno i pensionati sulle loro spalle. Il primo obiettivo è dunque quello di aumentare l’occupazione, con ogni mezzo. Il secondo punto fermo è che l’Italia ha un numero considerevole di occupati in lavori autonomi, il 23%, contro un 13% di Francia e Germania: il secondo obiettivo è dunque eliminare gli impedimenti che ostacolano il ricorso al lavoro dipendente. Oggi il problema non sono gli ostacoli contro i contratti a termine, dove siamo più o meno in linea con gli altri grandi Paesi europei, ed è la Spagna il caso abnorme Da noi il grande problema è quello delle partite Iva fasulle. Sono loro la fonte dei veri precari del XXI secolo, senza diritti né minimi salariali, privi della possibilità di accumulare contributi pensionistici e spesso costretti all’evasione: è una piaga che dev’essere eliminata.
Il terzo punto è che l’occupazione si favorisce più con le politiche salariali che con l’abolizione dell’articolo 18, pur necessaria. Quando arrivò la crisi del 2007/2009 la Germania si ritrovò con un sistema di relazioni industriali tali che la metà delle imprese e dei lavoratori contrattavano i loro salari al di fuori dei contratti nazionali di categoria e con un sistema di ammortizzatori sociali chiaro e ben funzionante. La combinazione di orari e salari flessibili, di un forte legame tra salari e produttività, ha fatto uscire dalla crisi il Paese meglio di come vi era entrato. Dunque, sarebbe opportuno che nella riforma fosse compresa anche la materia contrattuale.
Contro la retorica del declino
(Fernando Vianello, il manifesto) In un articolo comparso su il Sole24Ore nel 2007 Innocenzo Cipolletta propone un semplice ragionamento, illustrato da un esempio numerico che proverò a riformulare per renderlo meno indigesto al lettore. Un’economia produce due sole merci, diciamo due tipi di automobili: una utilitaria, venduta a 100, e una Ferrari, venduta a 2000. Si producono 10.000 utilitarie e 50 Ferrari. Se ora, restando costante l’occupazione complessiva, un certo numero di lavoratori viene spostato dalla produzione delle utilitarie (il cui numero, supponiamo, si dimezza) alla produzione delle Ferrari (il cui numero, supponiamo, raddoppia), è evidente che il numero complessivo di automobili diminuisce; e che diminuisce, a parità di tecniche impiegate, la produttività del lavoro, se quest’ultima è definita come il rapporto fra il numero delle automobili prodotte e il numero dei lavoratori. Altrettanto evidente è, tuttavia, che la produzione in valore risulta aumentata.
Il ragionamento di Cipolletta presenta un evidente punto di contatto con una serie di studi sulle esportazioni italiane. La perdita di quote di mercato, così spesso indicata come la prova irrefutabile del “declino” industriale del Paese, è molto forte quando le esportazioni siano calcolate in volume (il numero di automobili dell’esempio), ma risulta allineata agli standard europei quanto le esportazioni siano calcolate in valore, tenendo così conto dell’innalzamento dei valori unitari conseguente ai miglioramenti qualitativi dei beni esportati e al riposizionamento degli esportatori su segmenti più alti del mercato. , ha affermato il governatore della Banca d’Italia nella recente lezione tenuta alla Società italiana degli economisti, Questa è una storia ben nota, ripetuta ad nauseam, dai teorici del declino industriale.
Ma le cose stanno davvero così? Un banchiere che gode di un invidiabile punto di osservazione, Pietro Modiano, ha affermato: Non sempre le grandi classificazioni sono utili per giudicare il carattere (arretrato o avanzato) del modello di specializzazione di un paese: ad esempio sia le utilitarie che le Ferrari dell’esempio cadono nella medesima categoria di beni “a tecnologia matura”: se dunque si passa dalle prime alle seconde, il modello di specializzazione non se ne accorge. Invece i componenti di un iPod prodotti da un’oscura impresa sudcoreana, che si appropria di una quota risibile del valore aggiunto complessivo, finiscono dritti nella categoria hi-tech.
Per quanto riguarda il “nanismo” delle imprese italiane, va registrato il completo abbandono di ricerche relative ai “sistemi” di imprese. E cioè sulle complesse relazioni di collaborazione che legano fra loro imprese appartenenti alla stessa filiera, relazioni attraverso le quali il problema del coordinamento dell’attività produttiva viene risolto in modi non meno efficienti di quelli propri delle grande impresa. Per sapere cosa succede nell’industria occorre (può parere una banalità) studiare l’industria, come hanno fatto i teorici dei distretti industriali e come fanno, per le medie imprese, gli autori dell’indagine Mediobanca. Chi segue questa strada si accorge facilmente che la struttura industriale italiana, pur dominata dalle piccole e medie imprese, mostra uno straordinario dinamismo e una forte capacità di innovare e di competere sui mercati internazionali.
Piketty: basta con la dittatura del debito
(Anais Ginori, Repubblica) Thomas Piketty è in testa alla classifica degli economisti che proprio non amano l’austerità. . Di questo tratta “Il capitale del XXI secolo”, appena pubblicato in Italia da Bompiani, il libro con cui Piketty analizza l’esplosione delle disuguaglianze e un capitalismo basato sulla rendita finanziaria più che sul lavoro. Un bestseller mondiale a sorpresa, incensato da Paul Krugman, che addirittura mette Piketty sulla rampa di lancio per la candidatura al Nobel.
racconta l’economista francese nel modesto ufficio alla Paris School of Economics. . A sorpresa, però, Piketty non crede che il vulnus dell’eurozona sia economico, ma politico. La sua proposta è:
Cominciamo dal debito pubblico. Smettiamo tutti di pagare?
Quale soluzione allora? . Più flessibilità sui deficit, come chiedono François Hollande e Matteo
Renzi?
Cosa significa per lei unione politica? Quali paesi dovrebbero far parte di un eurogruppo ristretto? <Francia, Italia, Germania, Belgio, Olanda, Spagna. Serve un gruppo pilota per dimostrare che l’integrazione delle politiche di bilancio è possibile>
Mario Draghi ha salvato l’Europa? . L’uscita dall’euro è un pericolo?
L’ottimista
George always tried to look on the bright side of things. He would constantly irritate his friends with his eternal optimism. No matter how horrible the circumstance, he would always reply . To cure him of his annoying habit, his friends decided to invent a situation so terrible that even Frank could find no hope in it. On the golf course one day, one of them said <George, did you hear about Frank? He came home last night, found his wife in bed with another man, shot them both and then turned the gun on himself!>. <That`s awful> said George . asked his angry friend . replied George
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