VITTORIO CHIUSANO: LIBERALE

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Vittorio Caissotti di Chiusano (1928 – 2003), uno dei principi del foro italiano, appartenne a una nobile famiglia piemontese legata al Risorgimento. Altri hanno delineato la sua figura di avvocato, protagonista di importanti processi, che si inserisce nella galleria dei grandi penalisti italiani, da Carnelutti a De Marsico, ma egli merita di essere ricordato anche come liberale di radicate convinzioni, che sarebbe stato un degno sindaco di Torino sull’onda dei grandi sindaci liberali del primo Novecento, da Sambuy a Rossi di Montelera, per non citare i Sindaci del secolo precedente.

Chiusano accettò nel 1985 invece di essere semplice consigliere comunale del PLI di cui capeggiò la lista e di cui fu capogruppo, seguendo la tradizione di uomini come Luciano Jona, Mario Allara, Vittorino Zignoli, Giorgio Cavallo, che diedero lustro al gruppo liberale al Comune di Torino.

Può risultare interessante analizzare il suo pensiero liberale anche se i suoi scritti in materia sono pochi, mentre le sue scelte e le sue battaglie (in primis quella per una giustizia che tutelasse la libertà e la dignità del cittadino) sono numerose ed importanti.
Non era certo un liberale dottrinario e si può dire che egli intendesse essenzialmente il liberalismo come un metodo, secondo la concezione di Nicola Matteucci.

Ma ci sono alcuni punti fermi del suo liberalismo che vanno ricordati. Egli rifiutò sempre ogni forma di giacobinismo e di manicheismo settario,ricollegandosi ,anche per ragioni famigliari, alla storia del Risorgimento, al liberalismo di Cavour (che fu per tanti anni anche consigliere comunale di Torino ), di Giolitti e del vecchio Piemonte sabaudo. Non aveva nulla da spartire con quello che Dino Cofrancesco ha definito il Gramscian-azionismo torinese che certo ha avuto figure di spicco meritevoli di rispetto, ma che sicuramente sono state molto lontane dal pensiero liberale, malgrado alcuni equivoci che hanno contribuito a creare confusione.

Non è mia intenzione, certo, fare l’esame del sangue per stabilire i veri e i falsi liberali, per usare un’espressione di Dario Antiseri e di Giuseppe Bedeschi: sarebbe sicuramente una posizione illiberale, anche se in parte giustificata quando ci sia gente in circolazione che, senza neppure aver studiato al CEPU, si autodefinisce liberale, senza sapere di cosa stia parlando. La babele “liberale” lo sta a dimostrare.

E’ certo che a Torino esiste e in parte sopravvive un evidente equivoco non rimosso che si riferisce a Piero Gobetti e al gobettismo: l’esperienza e l’idea della “Rivoluzione liberale” che appare un evidente ossimoro. Diceva anni fa un gobettiano negli anni della sua giovinezza, come Carlo Dionisotti, che i liberali rifiutano la rivoluzione come metodo e come fine e che, anzi, lavorano perché esista o si affermi una società democratica in cui il rispetto delle regole consenta a ciascuno di ritrovare le sue ragioni di cittadino in un clima di libertà responsabile. Circa la rivoluzione,ricordava un altro ex gobettiano di grande tradizione liberale, Manlio Brosio, che i rivoluzionari sono geneticamente illiberali, come dimostra la storia da Rousseau in poi.

Brosio giustamente vide dei limiti vistosi del pensiero immaturo, in nuce, del giovane Gobetti, nel suo operaismo, nella sua infatuazione per Gramsci, nel vedere la Rivoluzione d’ottobre come rivoluzione di libertà. Inoltre, andrebbe ricordato anche il suo astioso ed antistorico giolittismo che gli impedì di comprendere, come capitò a molti intellettuali del suo tempo e non solo, l’età giolittiana come una delle pagine migliori della storia italiana, dopo la stagione cavouriana.

Nel 1988 un mio elzeviro su “La Stampa” ripescò dalla polvere dell’ingiusto oblìo Filippo Burzio, uno studioso liberale di grande rilievo.
Da quell’articolo nacque una mia conferenza voluta da Chiusano al suo Rotary e da quel primo incontro nacque l’idea di riscoprire Burzio,dedicandogli un Centro studi di cui Chiusano fu naturaliter presidente.

Organizzammo nel 1991 un convegno alla Scuola d’applicazione di Torino per il centenario di Burzio. Chiusano volle che l’autore della prefazione agli atti fosse chi scrive.

Abbiamo avuto occasione tra di noi mille volte di parlare di Burzio, del suo liberalismo in pieno dissenso con Gobetti con cui ebbe anche dure polemiche sui temi che ho precedentemente indicato.

Chiusano, non a caso, contribuì in maniera determinante a far riscoprire Burzio che comunque era frequentatore abituale della sua famiglia. E condivideva l’antigobettismo dello studioso piemontese. Mi invitò a tenere una conferenza su Gobetti e Burzio che volle introdurre personalmente nell’Aula Magna della Scuola d’applicazione di Torino. Io mi ero preparato in modo adeguato con citazioni di Gobetti e di Burzio con lo scopo preciso di valorizzare i giudizi di ques’ultimo a discapito di quelli piuttosto fragili e quasi emotivi del giovane torinese che fu vittima del fascismo e della sua violenza.

Sapevo che avrei fatto discorsi che avrebbero trovato il consenso di Vittorio. I miei appunti avevano anche il conforto di Manlio Brosio e di Vittorio Badini Confalonieri. Ma non aprii quella cartellina zeppa di note e di appunti. Si sedette infatti in prima fila la nuora di Piero Gobetti con cui avevo cordiali rapporti. Non me la sentii di aprire la polemica.

Parlai, come disse Chiusano alla fine, a braccio, edulcorando il tema fino a renderlo banale e del tutto inoffensivo; anzi, mi sfuggirono anche degli elogi, sia pure contenuti, che non era mia intenzione concedere. Caddi anch’io, sia pure parzialmente, in una certa vulgata, citando a memoria il libro di Paolo Spriano.
Oggi, voglio riprendere quelle idee e citare quell’episodio. E’ un qualcosa che devo a Chiusano, che del liberalismo aveva la visione ”demiurgica” di Burzio ed era assai distante da certe ambiguità che snaturavano il liberalismo fino ad annullarlo.
PIER FRANCO QUAGLIENI

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