(Piero Ignazi, Repubblica) Con la riforma costituzionale di recente approvata, anche il Senato italiano, come le Camere alte francesi tedesche e olandesi, diventa un organo ad elezione indiretta: non saranno più i cittadini ad eleggere i senatori ma saranno i consiglieri regionali e delle grandi città a nominare i loro rappresentanti a Palazzo Madama. Con questo passaggio il Senato si uniforma ad uno standard europeo nella sua composizione e modalità di elezione. Va invece nella direzione opposta quanto alla nuova attribuzione di funzioni e poteri.
In Francia, infatti, il Senato, anche in virtù di un processo di selezione che prevede una vera e propria elezione dei senatori da parte di collegi elettorali molto ampi, ha conquistato maggiore incidenza nel processo legislativo. In Germania, la riforma costituzionale del 2006 ha ridefinito le funzioni tra le due camere: ha affidato più poteri ai Lander in modo che i loro rappresentanti in Senato non siano più sollecitati a fare ostruzionismo sulle norme federali che in qualche misura potrebbero investire le competenze dei Lander stessi. In sostanza, per lasciare al Bundestag più incisività nella sua azione legislativa sono state aumentate le sfere di autonomia e le capacità di intervento dei vari Lander.
In questo quadro diventa quindi molto più importante di prima la ridefinizione della legge elettorale per la Camera dei deputati (il cosiddetto Italicum). È ben più rilevante perché, una volta sottratta ai cittadini la possibilità di eleggere i senatori, non si può ridurre la loro capacità di scelta anche per quanto riguarda i deputati. E le liste bloccate sono esattamente una coartazione di questa capacità. Il rimedio invocato da alcuni per ridare voce ai cittadini ed eliminare il “parlamento di nominati” consiste nel reintrodurre le preferenze. In realtà, la memoria corta degli italiani ha cancellato i guasti prodotti dalle preferenze per quarant’anni: corruzione e spese folli, frammentazione correntizia e clientelismo. Meglio evitare quel ritorno al passato.
L’unica, vera, alternativa virtuosa allo stato dei fatti (e degli accordi), e cioè l’uninominale, preferibilmente a doppio turno come in Francia, scardinerebbe l’impianto proporzionale e premiale della riforma. Ma Berlusconi non vuole. E allora, visto che l’altro giorno il patto del Nazareno è stato saldamente imbullonato, ci terremo un sistema elettorale in cui i cittadini non hanno piena potestà di scelta dei loro rappresentanti nemmeno per la Camera dei Deputati. Questo è l’esito imprevisto e problematico della riforma del Senato: riducendo l’elezione diretta dei parlamentari ad una sola camera e lasciando ai partiti totale discrezionalità nella selezione dei candidati, senza introdurre regole vincolanti per tutti come, ad esempio, le primarie, la legittimità della classe politica viene ulteriormente intaccata. In tempi di antipolitica l’Italicum non è il sistema migliore che si possa escogitare.
Sulle preferenze
(Angelo Panebianco, Corriere) Solo un Paese afflitto da amnesia storica può discutere sul serio della possibilità di reintrodurre le preferenze. Sarebbe come voler rimettere in piedi il commercio delle indulgenze mentre ancora non si sono smaltiti tutti gli effetti della riforma luterana. Colpevolmente immemori di che cosa siano state, e di quali funzioni svolgessero, nella cosiddetta Prima Repubblica, i politici sembrano davvero intenzionati a ripristinarle. Se non fosse che ci andrebbe di mezzo l’intero Paese verrebbe voglia di limitarsi a osservarli con curiosità mentre meditano questa singolare forma di suicidio collettivo.
Le preferenze non sono affatto, come pensano gli ingenui e come recita una propaganda interessata, un modo per <dare al cittadino la possibilità di scegliere>. Le cose funzionano assai diversamente. Le preferenze sono lo strumento mediante il quale i candidati, e gli eventuali gruppi di interesse nazionali o locali che li appoggino, entrano in competizione con gli altri candidati del loro stesso partito. Con le preferenze, alla lotta (esterna) fra i partiti viene in larga misura sostituita la lotta (interna) fra i candidati del medesimo partito. Questa distorsione permanente del gioco democratico indotta dalle preferenze non è l’unica conseguenza grave ma è certamente la più grave.
Però, dicono i nostalgici della Prima Repubblica, in Italia abbiamo avuto le preferenze per decenni, fino ai primi anni Novanta. Vero, ma si davano allora due condizioni che non esistono più. La prima condizione era rappresentata dal fatto che il sistema politico era bloccato, non c’era possibilità di alternanza (i comunisti non potevano vincere). In un sistema privo di alternanza, con i democristiani e i loro alleati ininterrottamente al governo, le preferenze funzionavano da surrogati. Non potendoci essere vera competizione per il potere fra maggioranza e opposizione, le preferenze servivano soprattutto a garantire competizione (e alternanza) fra le correnti e i gruppi interni ai partiti di governo.
Ma c’era anche una seconda condizione che oggi non esiste più (anche se fra i politici attuali ci sono diversi aspiranti suicidi che preferiscono ignorarlo): il voto di scambio non era reato. Nessuno poteva essere penalmente perseguito per voto di scambio. E le preferenze erano per l’appunto il principale meccanismo di raccolta del voto di scambio. Ma davvero, reintroducendo le preferenze, volete fare un così grande piacere a tutti quelli che godono quando vedono politici inquisiti o, meglio ancora (dal loro punto di vista), in galera? Il voto di scambio, all’inizio però con forti limitazioni (riguardava allora solo il caso dei rapporti mafia-politica), è diventato reato in Italia nei primi anni Novanta. Ma la legge Severino sulla corruzione, approvata ai tempi del governo Monti, ne ha ora allargato notevolmente l’ambito di applicazione.
Chiunque parli oggi di preferenze farebbe bene a leggere con attenzione quella legge. Soprattutto i partiti con vocazione governativa, i partiti che hanno ottime probabilità di andare al governo, dalle preferenze dovrebbero tenersi alla larga. Quanto tempo dopo le elezioni comincerebbero a fioccare gli avvisi di garanzia per i politici entrati in Parlamento con un bel gruzzolo di preferenze? I leader nazionali, certamente, prenderanno tante preferenze “spontanee” e nessuno li accuserà di voto di scambio. Così come accadrà a qualche esponente di movimenti di protesta. Ma che dire delle seconde, terze e quarte file dei partiti di governo, di quei tanti signor Nessuno che risulteranno molto bravi nell’organizzazione del consenso?
Una opinione sulla spesa pubblica – Nicola Rossi
Mi riferisco a una recente intervista a Stefano Fassina del Corriere. Fassina ha ragione: le scelte relative alla dimensione della spesa pubblica sono essenzialmente politiche (e hanno molto a che fare con la nostra idea degli spazi di libertà individuale). Alcuni, e Fassina è fra questi, preferiscono livelli elevati di spesa pubblica e quindi (presto o tardi, anche) di pressione fiscale. Altri, me compreso, non hanno dubbi nel considerare preferibile, tanto ai fini dell’efficienza quanto a quelli dell’equità, la soluzione esattamente opposta. Ci sono buoni motivi per pensare, e il caso italiano sembrerebbe un esempio particolarmente calzante, che chi opta per la prima soluzione debba necessariamente accontentarsi di tassi di crescita più contenuti. Sarebbe una posizione politicamente legittima purché, di fronte a tassi di crescita prossimi allo zero, non si giochi poi a scaricabarile. Con buona pace degli esponenti del centrodestra che ne fanno parte, il Governo in carica è sorretto da una maggioranza eletta sulla base di un programma che può, al massimo, contemplare una <riqualificazione e una riallocazione> della spesa pubblica, ma certo non un ridimensionamento della presenza dell’operatore pubblico nell’economia e nella società italiane. Non può quindi destare alcuna meraviglia la vaghezza con cui l’esecutivo ha affrontato e affronta i temi della revisione della spesa e dei corrispondenti tagli di imposte. Anche su questo punto, dunque, Fassina ha ragione: non ha alcun senso chiedere che la sinistra faccia la destra. Ci sono parecchi motivi per pensare che a sinistra gli elettori non gradirebbero. Chi ritiene che una presenza eccessiva dell’operatore pubblico, tanto in termini di spesa quanto di attività controllate dal settore pubblico, sia alla radice di molti dei nostri problemi non ha che una strada: lavorare perché, quando sarà il caso, prevalga nelle urne una diversa maggioranza. Quel che però è difficilmente accettabile nell’argomentazione di Fassina è il tentativo di dare una veste scientifica a quella che, si è detto, è una legittima posizione politica. Per diversi motivi. Primo, a livelli di spesa pubblica identici, possono corrispondere servizi pubblici di qualità e quantità radicalmente diversi. Nel caso italiano una spesa pubblica rilevante appare incapace di garantire livelli uniformi e accettabili dei servizi per i quali vogliamo che uno Stato esista. Quel che emerge dall’ottimo lavoro di Carlo Cottarelli non ha bisogno di commenti. Livelli di spesa pubblica comparabili a quelli prevalenti in altri Paesi possono facilmente rivelarsi abnormi se incapaci di tradursi in benefici di entità almeno corrispondente per (tutti) i cittadini. Secondo, la quota di spesa pubblica sul Pil tende a crescere al crescere del livello di benessere. Nel corso dell’ultimo quarto di secolo l’Italia si è purtroppo significativamente impoverita e, di conseguenza è del tutto comprensibile, anche se ad alcuni può non piacere, che la quota di spesa pubblica sul prodotto si attesti su livelli significativamente più bassi. Molto semplicemente, non possiamo più permetterci molte delle cose alle quali ci eravamo abituati (anche perché oltre a esserci impoveriti abbiamo fatto di tutto per indebitarci fino al collo). Terzo, l’idea che il Fondo monetario internazionale abbia sostituito riferimenti più tradizionali nel Pantheon della sinistra è piuttosto divertente: mentre è certamente vero che l’impatto delle politiche fiscali non è indipendente dalle condizioni in cui le stesse vengono attuate, a stare alle quantificazioni dello stesso Fmi sembrerebbe più che probabile che tagli di spesa (soprattutto se alla spesa per trasferimenti) siano più raccomandabili rispetto ad aumenti della pressione fiscale, soprattutto in presenza di condizioni di vulnerabilità sul fronte del debito.
Indebitati e morosi
(Massimo Gaggi, Sette) Solo sei anni fa gli americani hanno rischiato il tracollo finanziario per il comportamento spericolato delle banche e per l’eccessiva propensione all’indebitamento dei suoi cittadini. Da allora il sistema creditizio si è fatto più prudente mentre molti americani hanno ricominciato a risparmiare. Ma, anche se l’emergenza dei mutui subprime è ormai rientrata, una recente indagine ha scoperto che più di un terzo della popolazione a basso reddito (77 milioni di americani) è alle prese con le società di recupero crediti. Ora: oltre che con le case, gli americani si sono indebitati massicciamente in molti modi, prestiti scolastici, acquisto di automobili, carte di credito eccetera. Un indebitamento medio di 5200 dollari, che sembra poco, ma moltiplicato per 77milioni fa 400 miliardi di dollari. Il problema più grave si trova negli stati del Sud: dall’Alabama alla Georgia, passando per Florida e Texas, i cittadini morosi sono più del 40% del totale. Ma il record di debiti scaduti spetta al Nevada: 47% degli abitanti non riescono a far fronte ai loro impegni. Che sia colpa di Las Vegas, la città più importante dello Stato?
Qualche speranza c’è
(Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini, Repubblica) Tutto è pronto: nel mese di settembre “la madre di tutte le riforme” diventerà realtà. Ormai è scattato il conto alla rovescia per il più grande piano di investimenti pubblici che l’Europa abbia mai concepito. Dopo anni di paralisi, i Paesi dell’euro hanno deciso di fermare il declino economico e politico del vecchio Continente. Finalmente si è preso coscienza che la riduzione del debito pubblico e la stabilità del sistema bancario dipendono dall’espansione dell’economia e cioè dalla crescita del reddito e dell’occupazione. All’inizio di settembre il Fondo Salva Stati metterà a disposizione dei paesi della moneta unica 500 miliardi di euro che erano congelati in investimenti finanziari a basso rischio.
Questi fondi saranno associati a quelli della Bei per finanziare gli investimenti in infrastrutture, istruzione e ricerca, energia verde e una domanda pubblica per veicoli ecologici, materiali biodegradabili, ristrutturazione del patrimonio edilizio, efficienza energetica, salvaguardia e risanamento del territorio. Si stima che le risorse pubbliche metteranno in movimento un ammontare equivalente di investimenti privati: il totale potrebbe superare 1.000 miliardi di euro. L’impatto sull’occupazione sarà di milioni di nuovi posti di lavoro che genereranno nuovi consumi trainando l’espansione della produzione e gli investimenti delle imprese private e il credito bancario ricomincerà ad affluire nell’economia reale amplificando la ripresa. Più in generale, la nuova domanda pubblica farà crescere la fiducia nel Vecchio Continente e farà cambiare le aspettative dei consumatori, delle imprese e del settore finanziario.
La Commissione Europea avrà un ruolo fondamentale poiché dovrà gestire i fondi concedendoli ai governi che presenteranno i progetti d’investimento, mentre il Parlamento Europeo dovrà vigilare affinché i soldi siano utilizzati correttamente e valuterà l’impatto degli investimenti sul reddito e sull’occupazione. La Banca Centrale Europea si preoccuperà di garantire il funzionamento dei canali di trasmissione della politica monetaria mantenendo i tassi d’interesse ai minimi per tutti i Paesi della moneta unica. Siamo di fronte ad un colossale piano di “lavori pubblici” come quelli che furono realizzati ai tempi del New Deal di Roosevelt, nella Germania nazista e, in tempi recenti, dall’Amministrazione Obama, che nel 2009 varò un piano di stimolo pari a circa 800 miliardi di dollari. Grazie a questo massiccio e tempestivo intervento di stampo keynesiano, accompagnato da una intelligente politica monetaria espansiva della Federal Reserve, gli Stati Uniti sono usciti rapidamente da una crisi finanziaria che rischiava di trascinarli nel baratro. Il piano europeo di investimenti pubblici rappresenta il compimento del grande progetto politico rivolto a costruire un’Europa solidale e federale come l’avevano immaginata i Padri fondatori.
Ostacoli agli investimenti Ue
(Elio Veltri, Circolo Rosselli) Quali sono gli ostacoli e le deficienze politiche, burocratiche e amministrative, tali da impedire che gli investimenti della Ue destinati al nostro Paese vengano utilizzati correttamente e tempestivamente? Iniziamo dalle deficienze del governo: oltre 700 decreti leggi sono inattuati perché, mentre il premier si occupa del Senato, la burocrazia di palazzo Chigi e dei ministeri competenti non ha il tempo e la voglia di scrivere i decreti attuativi, sapendo di poterlo fare perchè Renzi è in altre faccende affaccendato. E poi le lentezze organiche, che determinano tempi lunghissimi per qualsiasi investimento: tre anni in qualsiasi paese europeo e almeno dieci in Italia. Ma non è finita. La corruzione e la criminalità organizzata faranno certamente il loro mestiere e si impadroniranno di una parte di quei soldi. Questo non vuol dire che non bisogna impegnarsi negli investimenti cofinanziati dall’Unione. Ma temo che i risultati non saranno significativi e nemmeno tempestivi. Tuttavia, per decisione dell’Eurostat, dal 2014 nel Pil bisogna computare anche i proventi del traffico di droga, della prostituzione e del contrabbando di tabacchi. Quindi possiamo contare sul fatto che il nostro Pil avrà un aumento significativo (in più di un senso).
Economia criminale
(LB) Ho un paio di quesiti cui non so rispondere, per cui li scrivo nella speranza che qualcuno sia in grado di farlo. Prima domanda: assumendo, come pare, che il nostro Pil sia di circa 1600 miliardi; assumendo, come pare, che esso comprenda anche l’economia sommersa, ovvero quella che non paga tasse e contributi (che secondo varie fonti ammonta al 17% del Pil, cioè a 272 miliardi); ricordando che secondo l’Istat i nostri occupati sono attualmente circa 22 milioni; la domanda è: questi 22 milioni di “ufficialmente occupati”, comprendono i lavoratori del sommerso o no? Seconda domanda: per disposizione europea da quest’anno nel calcolo del prodotto interno lordo (Pil) dovranno essere incluse voci come le spese in ricerca e sviluppo, spese militari (da specificare) e soprattutto il conteggio della economia illegale (droghe, contrabbando di tabacco e prostituzione). Ebbene, a quante persone, non certo incluse fra gli occupati ufficiali, l’economia criminale dà lavoro? Insomma viene il dubbio che fra i sommersi, e i malfattori, gli occupati siano ben di più che non i 22 milioni ufficiali.
Genetica – Homo sapiens
(Edoardo Boncinelli, Corriere) Dopo l’arrivo dall’Africa dei nostri antenati nel continente euroasiatico, tra centomila e cinquantamila anni fa, si sono trovate a convivere su questo pianeta quattro forme diverse di essere umano, di cui conosciamo oggi il genoma. Piuttosto che un albero genealogico della nostra specie, è esistito un “cespuglio”, formato dalle diverse linee dei nostri possibili antenati. Questo è noto e accettato da tempo. Ma le scoperte più recenti dimostrano che individui di una data linea si sono incrociati con quelli di un’altra, creando un groviglio genetico. Che cosa siamo allora noi? Evidentemente il prodotto di una evoluzione bizzarra e fantasiosa. In Africa si sono formate un certo numero di linee umane che in migliaia di anni si sono spostate, alcune nell’Africa stessa, altre in Europa, altre in Asia, e di lì, molto dopo, in Oceania e nell’America del Nord e del Sud. Alcune di queste linee si sono dimostrate chiaramente interfertili, capaci cioè di generare incroci vitali e sani, e i loro prodotti si sono diffusi un po’ dovunque. Attenzione però: noi che amiamo chiamarci sapiens, abbiamo fatto fuori tutte le altre linee umane. Tuttavia portiamo nel nostro genoma pezzi e bocconi del genoma di quelle altre linee, traendo il meglio, forse, da tutte.
Do not fix it
Gli inglesi, notoriamente pragmatici riguardo le cose da fare, sono sospettosi della teoria. La loro massima è: <If it’s not broken, do not fix it> (Se non è rotto, non aggiustarlo). In questo sono assai diversi dai loro dirimpettai, i francesi, di cui si racconta questo aneddoto: alla Conferenza di pace di Dayton (sulla Jugoslavia), in risposta alla proposta anglosassone di sciogliere la Confederazione jugoslava che collassava, il rappresentante francese disse: <E’ vero che questa proposta in pratica potrebbe funzionare. Ma funzionerà in teoria?>
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