Tratto da: Lo Zibaldone di Lorenzo Borla – numero 355.
Si trovano ovviamente in questi giorni, nei giornali e in rete, migliaia di commenti al risultato elettorale. Semplificando molto, si tratta di un elenco delle virtù di Renzi e dei difetti di Grillo, per spiegare la grossa bufala presa da tutti i sondaggi sulla distanza di punti fra i due. E mille altri commenti. Fra i tanti articoli, ne ho scelto un paio: un Gramellini che supera se stesso (gli articoli di Gramellini, oltreché incisivi, sono misericordiosamente brevi), uno dell’analista Ricolfi che invece è lungo perché ovviamente analizza i dati. Ma per sparigliare un po’ le carte, e per ragioni personali (abbiamo fatto tutti il militare a Cuneo), per prima cosa ho inserito una intervista all’editore Nino Aragno sul fatto che la ultraconservatrice provincia di Cuneo abbia votato Pd e Sergio Chiamparino.
La provincia “granda”
(Bruno Quaranta, La Stampa) <Il dono che farò a Chiamparino, appena avrò occasione di incontrarlo, sarà il Memoriale per stabilire le Regole generali per l’amministrazione di un’azienda agricola a vigneto nelle Langhe, di Luigi Einaudi>. Nino Aragno è un imprenditore agricolo del cuneese, che è diventato editore di libri piuttosto rari e ricercati. Si parla ovviamente delle elezioni regionali in Piemonte e del governatore eletto, Sergio Chiamparino. <Per intanto atteniamoci alla Costituzione: presidente, non governatore (che è una invenzione lombarda, di Formigoni). La svolta che si è largamente imposta ha anche il respiro della lingua, il recupero di un alfabeto ad hoc, contro ogni forzatura>. Come editore Nino Aragno (medaglia d’oro ai benemeriti della Cultura e dell’Arte) dal 1999 ad oggi ha via via edificato un cenacolo dove siedono Croce e Gentile, Sainte-Beuve e Bobbio, Flaubert e Goethe, Jemolo e Arpino, Curtius e Swift. Insomma, ha una certa idea dell’Italia, una certa idea dell’Europa. Perché Chiamparino, ex comunista, ha prevalso nella bianca Provincia Granda? <I cuneesi sono gli epigoni dello Stato sabaudo, sensibili, sensibilissimi, alla buona politica, alla buona amministra-zione, al buon governo, un vocabolo che subito associamo al nostro presidente esemplare, Luigi Einaudi. Sì, abbiamo una memoria ferrea, viviamo tra le zolle, sappiamo distinguere e separare il grano dal loglio>. Mi dica di Chiamparino. <Non potevamo essere insensibili alla sua personale offerta. Sia chiaro: non si è votato il Partito democratico, si è scelto un signore che ha dimostrato di non amare le fumisterie. L’ex sindaco di Torino ha chiamato a raccolta egregie energie, una varietà di amministratori incorrotti, salveminianamente edotti: sanno cioè che cosa siano i problemi e quali siano le soluzioni concrete. Il nostro, beninteso, non è un abbraccio enfatico, è un doveroso atto di fiducia> II dialetto a cui Chiamparino è solito ricorrere avrà contribuito a sedurre la balena bianca del Cuneese? <Come escluderlo? La “lenga” (la lingua) è una cartina di tornasole, rivela la temperatura etica di chi la parla. Come avvertiva Arpino, un braidese, nel nostro “spensare”, nel nostro ridurre a una forma dialettale gli incubi delle lingue – politiche, economiche, scritte o televomitate – ritroviamo sovente una misura prosaica e robusta delle cose, oppure scopriamo il vuoto di certe affermazioni>. L’uomo “conservatore” della Provincia Granda, scommettendo su Chiamparino, è consapevole che l’immigrazione non sarà affrontata alzando muraglie? <Eccome. Il mondo contadino è tollerante, conosce il ritmo, la diversità, gli estri e le durezze delle stagioni. A contraddistinguerlo è l’abitudine alle metamorfosi, non lo sterile aut–aut>.
Come rubare i voti agli altri
(Massimo Gramellini, La Stampa) Il teorema Renzi che ha sconvolto le leggi della fisica (politica) italiana, recita così: per trasformare una minoranza in maggioranza occorre togliere voti agli avversari. Una tesi non del tutto ignota ad altre democrazie del pianeta, ma abbastanza sconvolgente per il nostro Paese, come da vent’anni si affanna a ripeter il professor D’Alema, ordinario di scacchistica comparata presso la nota università di Sconfittopoli. Gli studi del D’Alema, autorevolmente proseguiti dal collega Bersani, partono da una premessa nota come Barriera del 33%: secondo cui in Italia la sinistra è geneticamente inadatta ad attrarre i voti di due italiani su tre: quelli che guardano Canale 5 (e in certi casi estremi, Retequattro), leggono poco e comunque solo le figure, pagano meno tasse che possono, non vanno a votare e, quando ci vanno, mettono la croce accanto al nome di strani ceffi populisti o, nelle patologie più gravi, scelgono addirittura Silvio Berlusconi. I consensi di questi individui perduti alla causa della civiltà non vanno mai ricercati, sostiene autorevolmente la Compagnia di Sconfittopoli, perché sporcherebbero la purezza della comunità democratica. Da qui la necessità di respingere al mittente i loro voti, salvo poi venire a Canossa dopo le elezioni per cercare il loro consenso.
L’avvento di Renzi ha scompaginato questa formidabile scuola di pensiero, a cui la sinistra deve alcune tra le sue sconfitte più belle. Prima del segretario fiorentino soltanto Veltroni aveva osato esporre ai colleghi democratici il bizzarro teorema: <Non dobbiamo allearci con i partiti di centrodestra, ma con i loro elettori>. La frase fa accolta da risolini di compatimento che talvolta si spingevano fino al disgusto, e portarono alla sua rapida defenestrazione. Non per niente il bravissimo autore del film Viva la libertà (ricordate?) fa recitare la frase al fratello matto del segretario del Pd. Per ragioni tattico-numeriche, Renzi l’ha poi fatta davvero, una alleanza con alcuni partiti moderati, ma fin dal primo giorno si è posto l’obiettivo di svuotarne i consensi.
Avrete notato come Monti e Casini, che ancora un anno fa superavano il 10 per cento, siano praticamente scomparsi, i loro voti risucchiati nel gorgo del partitone del centrosinistra. Ma il professorino di Pontassieve ha osato spingere il teorema ai limiti dell’ignoto, mettendosi a caccia degli elettori di Berlusconi, suscitando ovviamente reazioni sprezzanti nella sinistra del Pd attaccatissima alle proprie sconfitte. Per riuscirci ha evitato con cura di insultarli e di considerarli dei delinquenti o dei paria, resistendo stoicamente die provocazioni della stampa arcoriana che dopo averlo vezzeggiato per anni in funzione anticomunista negli ultimi giorni lo dipingeva come un incrocio tra Fonzie e Che Guevara. Dietro le comparsate ad Amici, le critiche alla Cgil e la mano tesa al popolo delle partite Iva – atteggiamenti duramente criticati dagli adepti di Sconfittopoli – ha preso forma un piano preciso: offrirsi come alternativa a una platea dì persone che non aveva mai votato a sinistra in vita sua e che per decenni si era aggrappata a Berlusconi non per amore ma per disperazione.
Il vero capolavoro di Renzi è stato strappare al leader del centrodestra gli anziani, conservatori per ragioni anagrafiche e sempre più decisivi nelle urne di un Paese a bassa natalità come il nostro. La faccia da genero benvoluto di tutte le mamme lo ha indubbiamente aiutato, almeno quanto la sua estraneità alla storia del comunismo e l’energia rassicurante, contrapposta a quella distruttiva di Grillo. L’urlatore capo ha dato la colpa della inattesa afonia elettorale dei Cinque stelle proprio ai pensionati. E in quel sessantacinquenne che accusa i suoi coetanei di avergli preferito un trentanovenne c’è tutta l’assurdità della politica italiana, ma anche la riprova che il teorema di Renzi ha superato la prova del nove. Anzi del quaranta (per cento).
Perché i sondaggi hanno fallito
(Luca Ricolfi, La Stampa) Prima domanda: perchè tutti i sondaggi hanno clamorosa-mente sbagliato la valutazione della distanza fra Renzi e Grillo, sopravvalutando Grillo e sottovalutando Renzi? La risposta alla prima domanda è sconcertante: diversi sondaggi circolati nelle ultime settimane non erano grezzi, ma erano stati limati e corretti per tenere conto della precedente débàcle sondaggistica del 2013. Facendo tesoro dell’esperienza di allora (!), il risultato del Pd è stato più o meno scientemente addomesticata verso il basso, e quello di Grillo addomesticato verso l’alto. Peccato che, nel frattempo, l’elettorato pare aver scelto di ingannare i sondaggisti esattamente nella direzione opposta: nel 2013 molti elettori intervistati dicevano di votare Bersani ma votavano Grillo, oggi diversi elettori hanno detto di votare Grillo ma in realtà hanno votato Renzi. Il fenomeno è noto e si ripresenta periodicamente, soprattutto dalla metà degli Anni 90. Ma nessuno è stato ancora in grado di individuare con sicurezza quando le risposte ai sondaggi distorcano le reali intenzioni di voto a favore di una parte politica e quando a favore di un’altra. Di qui un errore clamoroso, mai grande come una casa: il vantaggio di Renzi su Grillo è stato di circa 20 punti, mentre la maggior parte dei sondaggi circolati in questi mesi pronosticavano uno scarto dell’ordine di 5-6 punti.
Seconda domanda: perché gli elettori, questa volta, hanno finto di votare Grillo nei sondaggi e hanno scelto Renzi nelle urne? L’idea che mi sono fatto è che in modo involontario, ma diabolicamente efficace, tutti gli attori della scena pubblica, ovvero politici, sondaggisti e mass media, abbiano cooperato per creare la credenza in una possibile vittoria di Grillo. In questa direzione ha spinto la predizione, universale in Europa, di un clamoroso successo delle forze anti-euro e anti-sistema: una predizione che era naturale tradurre in un pronostico di sfondamento del M5S, ovvero della forza più anti-sistema del nostro quadro politico. Ma nella medesima direzione ha spinto la demonizzazione del “pericolo Grillo” da parte dei media e delle forze politiche, una demonizzazione cui, negli ultimi giorni di campagna elettorale ha dato un grande contributo Berlusconi stesso (<Grillo mi fa molta paura, è un aspirante dittatore>). Infine, nella stessa direzione possono aver agito perfino le “mani avanti” ultimamente messe da Renzi, le cui dichiarazioni – io resto anche se vince Grillo – potevano suonare come segnali di un possibile successo del M5S. In breve, nella testa di molti elettori si dev’essere formata la sensazione che Grillo davvero potesse vincere, e conseguentemente è scattato il consueto “effetto winner”, ossia la tendenza degli intervistati ad adeguarsi al clima di opinione, esprimendo intenzioni di voto generose verso il vincitore annunciato e prudenti verso il possibile perdente.
Terza domanda: perché Renzi ha stravinto e Grillo ha perso? Qui non si può che andare per congetture. Con il senno di poi (ero fra quanti non escludevano un clamoroso successo di Grillo) mi pare si debba dedurre che, almeno in questo periodo, gli italiani preferiscano essere governati piuttosto che lasciati alla deriva. Grillo è perfetto per lo sberleffo, per la polemica anticasta, per lo scetticismo sull’Europa, ma Renzi è riuscito a metabolizzarne molti messaggi, trasformandoli in messaggi positivi, dalla riduzione degli stipendi dei manager pubblici, alla vendita delle autoblù, all’abolizione delle province, all’intenzione di rinegoziare il patto europeo. E’ possibile che l’elettorato italiano il proprio “vaffa day” in realtà l’abbia già celebrato e consumato un anno fa, alle politiche del 2013, ed ora stia cercando di capire chi può prendere in mano le redini del Paese. Se è così, la sconfitta di Grillo (e di Berlusconi) non può stupire, e la vittoria di Renzi si spiega semplicemente con l’assenza dì antagonisti credibili, come in una partita di calcio in cui la squadra avversaria presenta in campo i junior.
Non so se questa lettura sia giusta o se invece sia troppo semplicistica. Nel breve periodo, la vittoria alle Europee non può che rafforzare Renzi e l’azione del suo governo, rendendo implausibile la richiesta di andare a elezioni anticipate per verificarne l’effettivo consenso. II peccato originale di essere andato al potere senza passare per vere elezioni in teoria resta, ma dopo il voto diventa difficile dubitare del seguito di Renzi nel Paese. Nel medio e nel lungo periodo, invece, le prospettive sono forse meno scontate. Il 40,8% può apparire un risultato storico, perché è la prima volta che il principale partito della sinistra, erede della tradizione del Pci, sfonda da solo la barriera del 40%, e pare far uscire la sinistra dal suo recinto storico, che l’ha sempre confinata al 33%. Il punto, però, è che nel 1976 votava comunista quasi 1 italiano su 3, mentre oggi vota Pd poco più di 1 italiano su 5. Per questo è ancora presto per parlare di un pieno e definitivo insediamento del Pd nel cuore della società italiana. Quello che è certo, per ora, è che fra chi si reca alle urne (meno del 60% del corpo elettorale, alle Europee di domenica) Renzi non ha veri avversari. Tutto sta a vedere se, quando si tornerà al voto, gli avversari di oggi saranno ancora privi di un programma convincente e di un leader credibile.
Non ha vinto coi voti della destra
(Elisabetta Gualmini, La Stampa) A differenza di quanto si è potuto pensare all’indomani della sua vittoria, Renzi non ha sfondato nel “Popolo della libertà”. Non è un Berlusconi di sinistra votato dalla destra, né un colonizzatore della prateria dei moderati. L’analisi dei flussi elettorali, degli spostamenti di voto dalle politiche del 2013 alle europee del 2014, mostra che la frattura destra/sinistra continua a dividere i comportamenti politici degli italiani. Così come dimostra che la speranza di arrivare, prima o poi, a una “normale” democrazia dell’alternanza, in cui due grandi partiti si confrontano l’uno con l’altro, non è un sogno. Lo dicono tre indizi ricavati da una indagine che l’Istituto Cattaneo ha svolto in diverse città italiane.
Primo. Renzi ha assorbito il centro. Il flusso più importante di voti in entrata al Pd proviene da Scelta Civica, tutta intera. L’area che faceva capo a Mario Monti si è svuotata ed è passata in blocco a sostenere il premier. Nel Nord, dove Monti aveva vinto di più, in città come Torino, Brescia, Padova, Venezia e Genova questo riposizionamento è evidentissimo. Una dinamica che si attenua leggermente nel Centro (Bologna, Firenze e Parma) e che diminuisce nel Sud. Con tutta probabilità, si tratta di elettori che avrebbero votato per Matteo-il-riformista già nel 2013, se Renzi avesse vinto le primarie contro Bersani. Quindi Scelta Civica ha di fatto ospitato un elettorato stanco di Berlusconi e allo stesso tempo respinto da Bersani che appena ha potuto si è riversato tra le braccia di un leader che promette di cambiare tutto.
Renzi ha poi conquistato voti grillini, e anche in questo caso, con tutta probabilità, sono voti che avrebbe intercettato già nel 2013. Fin qui niente di strano, a dire il vero. Lo sapevano tutti, compresi i dirigenti Pd che allora lo osteggiavano, che Renzi avrebbe potuto fare molto meglio di Bersani su entrambi i fronti. La vera notizia, quindi la vera differenza di queste elezioni sta nella capacità del leader del Pd, rispetto agli altri competitori, di far votare i “suoi” elettori. Mentre Berlusconi e Grillo hanno sofferto di astensione da parte dei loro elettori. In altre parole, dovrebbero rasserenarsi un po’: non è stata così tanto colpa loro se quote consistenti di seguaci abbiano scelto di stare a casa. Anzi, è quasi la norma in elezioni di questo tipo. Grillo ce l’ha messa tutta per dare l’idea che si trattasse di una elezione cruciale, o noi o loro, e invece anche i suoi fan a cinque stelle sono diventati elettori normali, si sono impigriti e sono rimasti a osservare. Berlusconi, oggettivamente, non poteva fare di più.
Il premier invece se li è portati tutti dietro: una valanga di voti da un popolo che si è risvegliato, compresi gli ex irriducibili bersaniani, a cui Renzi era stato raccontato come un pericolo per la democrazia. Che Renzi potesse attrarre elettori mobili delusi da Berlusconi e i tentati da Grillo lo sapevamo. La notizia è che Renzi ha “conquistato” il “suo popolo”, di sinistra. Non da solo. In un gioco a somma positiva tra la sua leadership e la rete dei candidati alle amministrative, che sono oggi più credibili degli esponenti disorientati del centrodestra e dei cittadini proposti da Grillo. Il caso di Parma è emblematico. La roccaforte ormai assediata di Pizzarotti, il simbolo del successo a cinque stelle, ha perso 11 punti percentuali nel favore dei cittadini, mentre il Pd schizza oltre il 50%. Quella del 25 maggio è stata dunque una vera e straordinaria vittoria del centrosinistra a egemonia Pd. A questo punto, c’è un unico consiglio che si può dare al premier. Caro Matteo, capitalizza subito. Segui il vento, porta a casa le due votazioni che servono per abolire il Senato elettivo e per approvare la lègge elettorale, in sei mesi. O adesso o mai più.
Il cargo del vincitore
(Marco Travaglio, Il Fatto) Siccome, crocianamente parlando, “non possiamo non dirci renziani”, il famoso carro del vincitore di Ennio Flaiano, su cui tutti saltano all’ultimo minuto, non basta più. Per raccogliere tutti i neofiti demoneorenziani travestiti da antemarcia che accorrono da ogni dove alla spicciolata, a bordo di zattere di fortuna rigurgitanti dicarne umana, ci vuole almeno un cargo. La Marina Militare pattuglia le coste per prestare ai profughi i primi soccorsi, nella nuova operazione ribattezzata dal Viminale “Matteum Nostrum”. La Protezione civile fa sapere che i richiedenti asilo al Nazareno e a Palazzo Chigi verranno alloggiati in strutture provvisorie di raccolta, i Cir (Centri identificazione e riciclaggio), in attesa di essere smistati in ministeri, enti pubblici, banche, municipalizzate, Cda di qualsiasi tipo, alla rinfusa. Nel frattempo, si prega di non spingere.
Una chicca
(Marco Imarisio, Corriere) L’Abruzzo è un piccolo mondo antico della politica. Alle elezioni comunali di Cupello, quattromila abitanti in provincia di Chieti, si è svolto il duello tra il candidato della sezione del Partito Comunista (ML), contro quello di Rifondazione, ritenuto troppo a destra. E chissà cosa ne pensano i trozkisti del paese celebre per i suoi carciofini? In compenso a Catignano, nel Pescarese, il signor Gabriele Piermattei apre ogni mattina la sezione della Democrazia cristiana e combatte la sua battaglia alle Poste per ottenere dall’Enel il rimborso delle bollette della luce, scontrandosi con la bieca burocrazia che gli chiede una delega da parte dei vertici del partito, tecnicamente estinto da ventuno anni. Sono storie minime, indicative però di un tempo che qui in Abruzzo scorre più lento che altrove, mantenendo in vita idee vecchie e pratiche sempre attuali, come il consociativismo spinto, nel ricordo di Remo Gaspari, il democristiano di Gissi che fu qui signore e padrone della Dc e della Regione.
Un appello europeo
Progressive Economy
(www.sbilanciamoci.info) L’appello di Progressive Economy, che vale la pena di leggere nel sito (www.progressive economy.eu) mette in discussione le politiche di austerità, e apre una breccia tra i socialdemocratici europei. Difficile non comprendere e condividere il senso di sconforto e disillusione provato da molti europei, alla vigilia di queste elezioni europee. L’austerity ha messo in ginocchio interi paesi, eppure a livello istituzionale nessuno dei grandi partiti europei ha finora avuto il coraggio di sfidare apertamente il paradigma dell’austerità. Lo stesso candidato socialdemocratico, Martin Schulz, non è andato molto al di là del ribadire la necessità di coadiuvare la “responsabilità fiscale”, in altre parole, pagare le tasse, con la crescita. Alimentando molti dubbi sulla capacità del prossimo Parlamento di segnare una rottura con le politiche attuali, anche nell’eventualità (sempre più remota) di una vittoria marginale dei socialdemocratici. Concentrarsi solo sulle timide dichiarazioni pre-elettorali di Schulz, però, rischia di farci perdere di vista i significativi (e positivi) smottamenti ideologici che, dietro le quinte, si sono verificati all’interno del gruppo dei socialdemocratici negli ultimi anni. Ne è la prova il manifesto “Un appello per il cambiamento”, promosso da Progressive Economy, think tank legato al Gruppo dell’Alleanza dei Socialisti e democratici presso il Parlamento europeo, e sottoscritto da numerosi economisti ed intellettuali di spicco, tra cui Stiglitz, Fitoussi e Galbraith Jr. Appello che presenta vari punti di contatto con quello promosso dalla Rete europea degli economisti progressisti. Pur non mettendo in discussione le regole di bilancio dell’Ue Progressive Economy sottolinea la necessità di una <una nuova strategia macroeconomica> orientata alla crescita e incentrata su un approccio al consolidamento fiscale più ponderato che prenda in considerazione le specificità dei singoli paesi; il rilancio degli investimenti nelle infrastrutture pubbliche; lo sviluppo di un sistema per la risoluzione e la ristrutturazione delle banche insolventi; la stabilizzazione dei redditi e delle condizioni sociali delle popolazione più vulnerabili d’Europa, a cominciare dalla creazione di un Fondo di solidarietà sociale; e l’attuazione di politiche sull’occupazione realmente attive e inclusive. Ampio spazio è poi dedicato al problema della disuguaglianza, definito come <una minaccia per tutta l’Europa>. Progressive Economy propone <una nuova strategia egualitaria> finalizzata alla costruzione di una vera e propria Unione sociale europea e fondata su una tassazione progressiva dei redditi e delle rendite, oltre che su una tassa sulle transazioni finanziarie e la lotta ai paradisi fiscali; una politica salariale che favorisca il rafforzamento dei sindacati, la contrattazione collettiva e alti salari minimi; e la convergenza dei livelli di reddito degli stati membri dell’Ue. Infine, viene auspicata la creazione di un Programma europeo per le pari opportunità nell’infanzia per affrontare il dramma sottaciuto della povertà infantile nell’Ue.
Ancient wisdom
<The Budget should be balanced, the Treasury should be refilled, public debt should be reduced, the arrogance of officialdom should be tempered and controlled, and the assistance to foreign lands should be curtailed, lest Rome will become bankrupt. People must again learn to work instead of living on public assistance> (Marco Tullio Cicerone, 55 BC) Se fosse vera, questa citazione, dopo 2000 anni, si applicherebbe perfettamente ai giorni nostri. Il fatto è che la versione sopra riportata, che circola in Internet dall’ottobre 2008, è basata su una vera frase dell’autore delle Catilinarie, ma con un po’ di aggiunte. La frase originale era: <The arrogance of officialdom should be tempered and controlled, and assistance to foreign hands should be curtailed, lest Rome fall>. Alla fine fu trovata anche la fonte: a frase era di Cicerone, ma veniva citata in un romanzo di Taylor Caldwell, A Pillar of Iron (1965). L’identificazione fu effettuata, in una lettera al The Chicago Tribune (20 April 1971) di John H. Collins, Professore di Storia alla Northern Illinois (Usa).
Sempre sfiga è
Caro Lorenzo, colgo l’occasione dell’articoletto sulla sfiga universale per una rapida evasione dal tran tran quotidiano. A completare il panorama delle “leggi” catastrofiche, ti cito la “Legge di Gumperson” che recita: <L’esatto contrario di un evento favorevole si verifica quando le conseguenze sono dannose al massimo>. Gumperson, un tecnico del suono di una stazione radio (siamo credo nei primi anni cinquanta) californiana, aveva avuto l’idea di fare un servizio sull’arrivo delle rondini nella valle di san Bernardino. Questo evento avveniva (avviene?) puntualmente il 21 di marzo, né prima, né dopo. Portò quindi sul posto microfoni, registratori, alimentatori, e tutte le attrezzature necessarie; completata la installazione se ne tornò in città, ed il 21 di buon’ora si recò sul posto … dove ebbe una sgradita sorpresa: le rondini erano arrivate – eccezionalmente – il giorno prima, e quindi addio servizio. Da questa avventura nacque la legge in oggetto, meno nota della legge di Murphy, ma molto più “sottile”! Cordialmente. Franco Di Marco
Citazione
Adesso Matteo Renzi deve fare un’analisi seria del voto. È vero, il suo successo è straordinario. Oltre il 40 per cento. Mai visto. Ma il premier si ricordi che gli altri in fondo tengono. In fondo tengono i Cinque stelle. Tengono anche Berlusconi e i berlusconiani – viste le condizioni e le abitudini. E tengono pure i Verdi, Ncd, Tsipras, F.lli d’Italia. Ecco, Renzi ricordi che in fondo tutti questi tengono. Come che cosa? Tengono famiglia (Mattia Feltri, La Stampa)
lorenzo.borla@fastwebnet.it