LIVIO GHERSI
Intervistato dal “Corriere della Sera” a proposito delle proposte di modifica della Forma di governo della Repubblica, l’ex Presidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky ha ricordato un modo di dire, secondo cui: «la destra propone, la sinistra segue; ma solo la destra sa quel che si fa» (si veda l’edizione del Quotidiano del 5 giugno 2013, pp. 8-9).
Nel bene e nel male, il Partito comunista italiano (PCI) aveva una precisa identità ed era chiaro cosa volesse. Le formazioni politiche che dal PCI sono derivate hanno mostrato, invece, di non avere una fisionomia ideale altrettanto definita, fino ad arrivare alla Babele dell’attuale Partito democratico. Il Partito democratico della Sinistra (PDS), costituitosi nel 1991, era indubbiamente una formazione di sinistra democratica. Il suo indirizzo politico era ben rappresentato dai suoi vertici: il Segretario politico Achille Occhetto (nato nel 1936), che era stato l’ultimo Segretario del PCI ed aveva guidato la conclusione formale di quell’esperienza storica; il Presidente Stefano Rodotà (nato nel 1933), ex radicale dei tempi del settimanale “Il Mondo” diretto da Mario Pannunzio, poi per più legislature eletto nelle liste del PCI come indipendente di sinistra ed autorevole capogruppo del Gruppo parlamentare della “Sinistra indipendente” alla Camera dei deputati.
Da quando Massimo D’Alema diventa Segretario del PDS, nel 1994, inizia una deriva politicista, purtroppo poi dimostratasi inarrestabile; è un dato di fatto, anche se bisogna riconoscere allo stesso D’Alema di avere intelligenza e cultura politica superiori rispetto alla media della classe politica odierna. Per deriva politicista intendo il fatto che, pur di conquistare e di mantenere il potere, si sia disposti a trattare con tutti, compagni ed avversari politici, senza porre alcun limite di contenuto alla trattativa. Deriva politicista significa, in estrema sintesi: “tutto è possibile”, purché i negoziatori ne traggano un concreto e reciproco vantaggio. A spese di chi? A spese del buon funzionamento delle Istituzioni (lottizzate fra i partiti ed asservite alla partitocrazia); a spese della buona tenuta dei conti pubblici (con una costante crescita della spesa pubblica, la quale, peraltro, non si traduce in vantaggi diffusi per l’intera popolazione, ma si concentra verso determinati destinatari); a spese del degrado del territorio (lasciato senza effettiva tutela rispetto alla volontà di sfruttamento da parte degli interessi privati, sia che si tratti di inquinamento ad opera delle industrie, sia che si tratti di speculazione edilizia, sia che si tratti di gestione dei rifiuti).
Ciò non significa che i dirigenti del vecchio PCI fossero tutti virtuosi; anche ai tempi della cosiddetta prima Repubblica si raggiungevano compromessi discutibili, tanto nelle Aule parlamentari, quanto a livello locale. Allora, però, si era più attenti all’immagine del Partito: si distingueva tra la teoria, che formalmente doveva essere coerente con certe premesse ideali, ed eventuali comportamenti, comunque giudicati “devianti” quando scoperti. Nel 1997, in occasione della Commissione Bicamerale presieduta da D’Alema, emerge plasticamente che gli ex comunisti sono disponibili a tutto, anche laddove si discuta di come ridisegnare la Costituzione della Repubblica. Non sono più difensori della Forma di governo parlamentare, ma aperti all’esigenza di rafforzare il Governo, l’Esecutivo, come chiedono le destre.
Non sono più difensori di leggi elettorali rigorosamente proporzionali, ma accettano con sempre maggiore convinzione la logica del maggioritario. Nel delineare il modello di Forma di governo delle Regioni, fanno propria la regola in base alla quale le vicende del Consiglio regionale sono indissolubilmente legate a quelle della persona fisica del Presidente della Regione. “Simul stabunt, simul cadent”, ossia vengono eletti insieme ed insieme cadranno. Il che significa che l’Assemblea rappresentativa, la quale pure ha una sua indubbia legittimazione democratica essendo eletta liberamente dai cittadini elettori, diventa una sorta di appendice del Presidente: se lui si dimette perché ha problemi di salute, il Consiglio regionale va a casa. Se lui si dimette perché ha disavventure giudiziarie, il Consiglio regionale va a casa. Se lui si dimette perché aspira ad altra carica incompatibile, ad esempio vuole essere eletto al Parlamento europeo, il Consiglio regionale va a casa.
Poi si meravigliano perché oggi siamo contrari al passaggio ad un modello semipresidenziale per l’intera Repubblica: conosciamo i nostri polli e sappiamo che non si accontenterebbero di una coabitazione fra un Presidente della Repubblica ed un Parlamento prevalentemente di altro indirizzo politico. No, quello che vogliono (anche se ancora non tutti hanno il coraggio di confessarlo) è che “per legge” la maggioranza parlamentare sia conforme all’indirizzo del Presidente.
Gli ex comunisti hanno fatto propria la logica del premio in seggi per assicurare e stabilizzare la maggioranza parlamentare; invenzione tutta italica, a partire dalla legge “Acerbo” con cui si votò nelle elezioni politiche del 1924 e che consentì al Governo presieduto da Mussolini di diventa regime. I tre più noti modelli europei di leggi elettorali, quello inglese, quello tedesco e quello francese, sono molto diversi fra loro ma hanno in comune il fatto di non prevedere alcun premio di maggioranza.
Volevano premiare la Lega Nord perché nelle elezioni del 21 aprile 1996 non si era coalizzata con il Centro-destra, consentendo la vittoria elettorale del Centro-sinistra. Così gli ex comunisti ci hanno regalato la più importante riforma della Costituzione finora approvata: la modifica del Titolo quinto della Parte seconda della Costituzione, attuata con legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3. Si è fatto finta di dar vita ad uno Stato federale, puntando invece su un modello ancora una volta confuso, teoricamente vocato all’esaltazione del regionalismo e del municipalismo.
In realtà, per rispettare il Patto di stabilità interno, derivante dai parametri europei accettati come condizione per l’adesione all’euro, dal 1999 ad oggi si è sviluppato un processo di progressiva compressione dell’autonomia finanziaria di Regioni ed Enti locali. Per questa via si è realizzato il paradosso di un aumento teorico dell’autonomia, però con un’effettiva riduzione delle risorse finanziarie. Soltanto da poco si ha piena consapevolezza delle incongruenze di quella riforma costituzionale e dei guasti che ha comportato.
In tempi di crisi economica, di disagi e di sacrifici per la stragrande maggioranza dei cittadini, un partito dignitosamente “di centrosinistra”, dovrebbe incentrare il proprio discorso pubblico sulle esigenze di equità e di solidarietà. Per la verità, non ci sarebbe neppure bisogno di essere “di sinistra”, perché equità e coesione nazionale stanno naturalmente a cuore a chi si riconosca nella tradizione repubblicana di Giuseppe Mazzini, così come nella tradizione del liberalismo italiano devoto alla Patria: da Cavour a Francesco De Sanctis, da Silvio Spaventa a Benedetto Croce, da Adolfo Omodeo a Guido De Ruggiero.
L’ultimo Governo Berlusconi ed il Governo Monti hanno cercato, in qualche modo, di fare i conti con l’equità, almeno per salvare la faccia: ad esempio, bloccando il meccanismo di adeguamento automatico delle retribuzioni dei magistrati ordinari (e di figure assimilate, magistrati del Consiglio di Stato, della Corte dei Conti, eccetera); o gravando di un contributo perequativo i trattamenti pensionistici superiori al lordo ad un certo importo annuo. Può darsi che le norme approvate fossero tecnicamente mal scritte. C’è però un problema che, prima di essere di ordine giuridico, è squisitamente politico. La Corte Costituzionale, nel silenzio degli organi di informazione, ha adottato un indirizzo giurisprudenziale che nulla concede alla logica del contributo straordinario a carico di ceti comunque più abbienti per finalità di solidarietà nazionale. Cito al riguardo due pronunce: la sentenza dell’8 ottobre 2012 n. 223; e la sentenza del 3 giugno 2013, n. 116. Entrambe redatte dal giudice Giuseppe Tesauro.
Ricordo che, al tempo delle riforme “Bassanini”, si teorizzò che occorreva modificare la Costituzione (cosa poi realizzatasi con la riforma del Titolo quinto nel 2001), per dare copertura costituzionale al disegno innovatore delineato dal Legislatore ordinario. Ebbene, i costituzionalisti e giuristi recentemente arruolati come saggi, i parlamentari membri del Comitato bicamerale incaricato di proporre riforme costituzionali, i dirigenti di tutte le forze politiche interessate, riflettano sul fatto che per superare le resistenze della Corte Costituzionale occorre un’esplicita ed inequivoca manifestazione di volontà politica, consacrata in una disposizione costituzionale. Tale disposizione dovrebbe enunciare i seguenti criteri:
a) per tutto il tempo in cui l’economia nazionale sia in fase recessiva, o sia comunque gravata da stringenti vincoli europei ed internazionali che impongono l’obbligo di risanare i conti pubblici riducendo il debito pubblico storico, sono costituzionalmente legittime disposizioni di legge che mirino a ridurre, in una misura che può essere determinata tra il tre ed il dieci per cento del totale, i trattamenti pensionistici e le retribuzioni superiori ad un certo ammontare lordo annuo, fissato dalla legge, a titolo di contributo aggiuntivo per fini di solidarietà nazionale, e formulate sempre in modo coerente con il principio della progressività del sistema tributario fissato dall’articolo 53 Cost.;
b) fermo restando che i trattamenti pensionistici devono essere rispondenti alla quantità e qualità del lavoro svolto, la Repubblica persegue in via prioritaria gli obiettivi della creazione di nuove opportunità di lavoro per i giovani e del finanziamento degli ammortizzatori sociali per i lavoratori interessati da crisi aziendali. Di conseguenza, sono costituzionalmente legittime disposizioni di legge che blocchino, per un periodo di tempo determinato e per il limite massimo di un triennio, l’adeguamento delle pensioni il cui ammontare lordo annuo sia superiore ad un certo importo, fissato dalla legge.
E’ lecito scrivere che, in mancanza di una disposizione costituzionale siffatta, la Corte Costituzionale ha dimostrato di ragionare in una logica angustamente e stupidamente “classista”, per cui magistrati e membri dell’alta dirigenza burocratica si sono tutelati vicendevolmente, come blocco di interessi che resiste ai sia pure timidi tentativi riformatori della politica?
E’ lecito scrivere che, in tempi di drammatica crisi economica, i “diritti quesiti” semplicemente non esistono? Non si tratta di negare lo Stato di Diritto. Si tratta di ricordarsi della “giungla retributiva” di cui scriveva Ermanno Gorrieri già nel 1972. Per il personale di supporto degli Organi costituzionali, per l’alta dirigenza dello Stato, per gli amministratori di Aziende ed Enti pubblici, per il personale dell’Assemblea regionale siciliana e per gli alti dirigenti regionali, in particolare nelle Regioni a statuto speciale, i trattamenti economici, anche dei pensionati, sono cresciuti al di fuori di ogni criterio di ragionevolezza, per mera protezione politica, senza che alcuno, per decenni, si preoccupasse di mettere un freno.
Non si chiede la restituzione di quanto percepito in passato. Ma è moralmente, oltre che politicamente, insopportabile, non battere ciglio di fronte a proposte come quella di licenziare centocinquantamila dipendenti pubblici in Grecia, e poi opporsi a che in Italia quanti ricevono più di settemila euro di pensione al mese (al netto delle imposte), non possano versare un contributo di solidarietà aggiuntivo di mille euro l’anno, oltre all’imposizione fiscale ordinaria cui sono tenuti. Su una questione discriminante come questa dovrebbe esserci il massimo della chiarezza.