L’autodistruzione del PD e la vista corta di Berlusconi consegnano il Paese a una drammatica crisi istituzionale

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ENRICO CISNETTO

Che sciagura! L’Italia è nelle mani di un manipolo di imbecilli, che ci porteranno alla rovina (ben più di quanto già non sia). Li avevamo avvisati che anteporre la nomina del Capo dello Stato a quella del governo, senza quindi aver sciolto i nodi politici posti dal voto quadripolare del 25 febbraio, avrebbe prodotto un disastro. E così, purtroppo, è stato. Tutti hanno agito in una logica di continuità con il passato, come se fossimo ancora nella Seconda Repubblica, senza capire che, invece, una stagione politico-istituzionale si era definitivamente chiusa un minuto dopo l’apertura delle urne e che, di conseguenza, la prima cosa da fare era dare al Paese un governo di grande coalizione che, insieme alle urgenze economiche, fosse capace di assicurare la transizione verso una fase completamente nuova. Attenzione, non stiamo parlando del nuovismo di maniera, populista e forcaiolo, evocato dai pentastellari di Grillo con l’eco di cantanti e attori “impegnati”. No, stiamo parlando di un passaggio che consentisse di tornare alle urne, perché è evidente che più del 50% degli italiani che sono “contro”, sommando Grillo agli astenuti, la legislatura non può avere futuro.

Ma non come atto di impotenza, bensì come scelta ponderata, in modo da aprire la Terza Repubblica votando il parlamento con una legge elettorale di stampo europeo ed eleggendo un’Assemblea Costituente cui delegare la riscrittura delle regole e la ridefinizione degli assetti istituzionali, in modo da superare la drammatica contrapposizione che oggi divide la Costituzione formale da quella materiale. Per farlo ci voleva un governo a tempo determinato e con obiettivi prefissati, non una (impossibile, e pure inopportuna) santa alleanza. Non era difficile né da capirsi, né da farsi. Invece si è oscillati tra la vacuità del nuovismo e l’illusione di poter perpetuare i vecchi schemi, in un mix di dilettantismo e furbizia da quattro soldi. Con il risultato di aver lasciato il Paese senza guida per due mesi (cui si sommano i molti mesi di campagna elettorale) e averlo definitivamente consegnato alla recessione che lo divora dal 2008.

Le responsabilità di questa situazione sono di molti. Tralasciamo qui quelle storiche di chi ha in questi vent’anni incarnato il bipolarismo bastardo che tanto male ha prodotto, e quelle più recenti di Monti, che ha buttato – per aver sbagliato politica economica e per non aver capito nulla delle scelte politiche che la discontinuità rappresentata dal suo governo gli consentiva e imponeva di fare – la straordinaria occasione che la storia gli aveva regalato. E tralasciamo anche gli errori commessi da Pd e Pdl prima delle elezioni, e in particolare da Bersani con le primarie e l’idea di avere la vittoria già in tasca, e da Alfano per non essere riuscito a costruire un quadro di emancipazione da Berlusconi nei mesi in cui ha avuto il pallino in mano. Di tutto questo parleremo in altro momento, quando la polvere tossica del presente si sarà in qualche modo posata.

Adesso limitiamoci a ciò che è successo dopo le elezioni. E allora, la prima e più grande responsabilità è quella dei Democratici, del loro segretario e di tutta la classe dirigente (sic) del partito. Bersani, nell’ordine, è stato capace di: a) non accorgersi di non avere vinto; b) attribuire il risultato insoddisfacente al fatto di non essere stato sufficientemente a sinistra e per questo di aver dato a Grillo il 5% dei voti (come se la linea dei grillini fosse di sinistra!); c) incaponirsi di volere il mandato da Napolitano e di non volerlo restituire quando il Capo dello stato gli ha ribadito che non lo avrebbe mandato alle Camere a fare un governo di minoranza; d) tentare e fallire un accordo con Grillo per andare a palazzo Chigi; e) obbligare Napolitano a gettare la spugna e posporre il governo al nuovo inquilino del Quirinale; f) bruciare un’abborracciata intesa istituzionale con Pdl e Scelta Civica con la fallimentare candidatura di Marini; g) bruciare la candidatura autoreferenziale di Prodi e procurare le dimissioni di Rosy Bindi. Complimenti, nessuno avrebbe potuto fare di più. Ma questo non esime dalla responsabilità tutte le componenti interne del Pd, che a più riprese (direzione dopo le elezioni e nel corso della crisi, assemblee dei gruppi parlamentari per la scelta dei candidati al Quirinale) non hanno avuto il coraggio di esprimere il dissenso politico verso il segretario che poi hanno mostrato di avere nelle conventicole e nel voto segreto.

Se il Pd ha più responsabilità, certo non ne è esente il Pdl. La prima è stata quella di aver alzato la posta esigendo che le larghe intese si traducessero in un impossibile governo politico senza limiti di durata e di programma, il che ha dato alibi a Bersani e ai sostenitori della linea “mai con Berlusconi” e tolto spazio a chi nel Pd voleva l’accordo. Il secondo errore è stato quello di proporre Schifani alla presidenza del Senato, perdendo l’occasione di cominciare a costruire alleanze. Ma la cantonata più grave è stata presa fin dalla prima votazione per il Quirinale: lì Berlusconi avrebbe dovuto votare Napolitano, mettendo in mora il Pd (come avrebbe potuto sottrarsi?) e costringendo il presidente uscente ad accettare la riconferma (come avrebbe potuto rifiutarsi dopo essere stato eletto?). Invece, il Cavaliere, pencolante tra un accordo con Bersani e le elezioni subito, ha scelto l’accordino su Marini, senza rendersi conto che così avrebbe contribuito a distruggere i ponti del vero accordo istituzionale. Insufficienza pure a lui.

E ora, cosa succederà? Il vincitore rischia di essere Grillo. Già ha portato a casa l’autodistruzione dei Democratici, che fin dall’inizio è stato il suo obiettivo principale. Ma se nelle prossime votazioni il Pd non riuscirà a sottrarsi all’attrazione fatale di votare Rodotà, la vittoria sarà totale. Se poi la scelta per Rodotà fosse figlia dell’idea che poi i cinquestelle trasformeranno le preannunciate “prateria per il governo” in una vera apertura di credito per varare un esecutivo guidato da Bersani, per Grillo sarebbe addirittura l’apoteosi, perché siamo pronti a scommettere che quella cambiale non sarebbe onorata dal padre-padrone della baracca pentastellare. E se così finisse, per il dimissionario (ma solo dopo aver finito di sfasciare tutto) Bersani arriverebbe la beffa dopo il danno. Se invece l’accordo su Rodotà consentisse al segretario di fare un governicchio (molto peggio che avere Prodi al Quirinale) sarebbe per Berlusconi la peggiore delle situazioni possibili, perché tutto l’armamentario delle leggi contra personam verrebbe dissotterrato e diventerebbe una ghigliottina politico-giudiziaria. Se invece “B&B” dovessero trovare un’intesa, essa sarà tributaria di Monti – per esempio la Cancellieri – regalandogli un insperato punticino per la sopravvivenza.

Al cospetto dell’eutanasia del Pd, che finirà per contaminare anche il Pdl, ci sarebbe da fregarsi le mani – perché è la premessa per la definitiva sepoltura della Seconda Repubblica – se non fosse che essa getta il Paese in una drammatica crisi istituzionale. Incrociamo le dita.

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