Lettera aperta di un insegnante dell’Albertelli di Roma alla stampa: “Sapete quanto lavorano i ‘prof’ oltre le 18 ore di lezione?”

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Prima ancora che un attacco, inaudito, ad una singola e specifica categoria di lavoratori, il progetto di aumentare l’orario di lezione dei docenti medi superiori da 18 a 24 ore settimanali (un terzo!), senza nemmeno prendere in considerazione un aumento corrispondente di retribuzione, è un vero e proprio insulto, verso tutti i docenti. Potevamo tollerare che tale idea potesse venire in mente al vorace Batman di Anagni, o ad un qualche politico che, travestito da maiale, si ingozza di ostriche e intanto inveisca contro i ‘prof’ mangiapane a ufo; ma non che venga da un governo di professori universitari (con le loro 60-70 ore di lezione annue, essi dovrebbero sapere come ad esse corrisponde – o dovrebbe corrispondere? – una mole assai maggiore di lavoro): questo no.

Infatti, una simile misura può essere anche solo ipotizzata soltanto facendo leva, con spirito populistico, su un pregiudizio tanto falso quanto diffuso (e ora ulteriormente puntellato): che i docenti non facciano niente, che lavorino solo 18 ore, e che dunque, in fondo, sgobbare un terzo delle ore in più, a parità di stipendio, è il minimo che si meritano. Tutto ciò è, semplicemente, falso: che l’uomo qualunque non veda e non conosca tutto il lavoro che c’è oltre le 18 ore di lezione è comprensibile; che il Ministro Professor Profumo ragioni come l’uomo qualunque, o ne sfrutti il qualunquismo, è inaccettabile.

Al populismo implicito di tale misura, voglio rispondere, da docente, con la mera e razionale analisi dei fatti. Facciamo due conti: solo come presenza a scuola, alle 18 ore di lezione a settimana, vanno aggiunte un’ora di ricevimento per i genitori, una media di due ore settimanali di impegni in riunioni varie, scrutini, consigli di classe (peraltro, impegni non continuativi, distribuiti in modo irregolare nei pomeriggi, e che quindi occupano ancora più tempo di quello effettivo), il tempo di sbrigare le inevitabili pratiche della burocrazia scolastica (archiviazione dei compiti in classe, compilazione di registro, schede e pagelle, redazione e invio di comunicazioni scritte alle famiglie, le varie telefonate per avvertire i genitori di alunni troppo assenti e/o in difficoltà, eventuali colloqui col dirigente…) e spesso tutto quel tempo non quantificabile in cui un professore resta a parlare (come un padre o una madre, a volte) in colloqui individuali con un alunno in difficoltà (non solo scolastiche), o in cui docenti colleghi si trattengono, (informalmente ma non per questo meno necessariamente), a discutere le tante situazioni e comportamenti problematici dei loro 80 o 140 o 200 o più alunni.

Veniamo poi al lavoro svolto a casa. Prendiamo il caso di un docente di materie letterarie. Con un numero di alunni per classe che può arrivare a 30, e quattro insegnamenti che prevedono prove scritte, deve correggere in un anno ca. 700 elaborati; vi si aggiungono tutte le prove scritte che noi docenti (ingenuamente, a questo punto) spesso facciamo svolgere in sostituzione delle interrogazioni orali in classe, per risparmiare tempo prezioso di lezione; aggiungiamo qualche controllo di prove svolte a casa. Con queste arriviamo – ma ci teniamo bassi – ad un totale di ca. 1.100-1200 elaborati. Dedicando una media di dieci minuti alla correzione di ogni prova (meno per un test, ma molto più per un tema), abbiamo un impegno annuo di 11/12.000 minuti, cioè 6 ore a settimana (ore piene, pienissime: non è un fare presenza). Tutte queste prove, ovviamente, non si preparano da sole!

E poi, c’è tutto il resto, cioè la vera e propria preparazione delle lezioni (o si pensa che in fondo si tratta di ripetere quattro filastrocche?): che non è semplicemente rileggere il manuale prima di ogni spiegazione (il che è comunque necessario, se si vuol far bene ai propri alunni), ma significa anche rileggere un romanzo assegnato in lettura, approfondire i problemi della globalizzazione, trovare sul web qualche immagine con cui arricchire la propria spiegazione in storia o in letteratura o quel video in cui una poesia di Dante viene recitata da Carmelo Bene, fotocopiare e adattare quello schema così efficace sul futuro in greco, scrivere uno schema da distribuire, preparare un powerpoint sulla polis, rileggere o anche leggere per la prima volta un romanzo o un qualsiasi testo per valutare se è possibile darlo in lettura alla classe: su 18 ore di lezione, signor Professor Ministro, quante ore ci vogliono di preparazione? E ancora, impegni più minuti, ma che si aggiungono al totale, come il tempo per valutare i testi da adottare, fare medie e calcoli, scrivere programmazioni e relazioni, aggiornarsi sulla normativa. Di somma in somma, arriviamo, a tenerci stretti, a 35-36 ore di lavoro (non lezione, ma lavoro sì: è chiara la differenza?). Se le ore di lezione aumentano di un terzo, arriviamo a 45-50 ore settimanali! E sia chiaro che sia il far lezione sia tutto il resto non è battere i timbri in ufficio, o scaldare la sedia, o premere un pulsante.

E l’aggiornamento? Se ho in classe un alunno con dislessia, non devo forse leggere un testo sull’argomento? (io l’ho fatto); ma in generale, se vogliamo essere professori migliori, non dobbiamo leggere nuovi libri, riviste, quotidiani? E’ parte del lavoro di un docente anche l’attenta lettura di quotidiani e riviste, la lettura di un romanzo appena uscito o di un interessante saggio che rinnova le mie idee su un certo argomento, la visione di un vecchio film d’autore che mi permette inediti collegamenti con la letteratura, la visita ad una mostra, ad un museo, ad un sito archeologico, ad una città d’arte, la partecipazione ad una conferenza scientifica… (dimenticavo: tutto è a nostre spese!).

Tutto ciò è parte del mio lavoro: perché contribuisce alla mia professionalità, arricchisce la mia preparazione ovvero, i miei alunni (sono loro che contano), in quanto tutto ciò poi viene trasfuso in classe, comunicato in forme varie agli studenti. Saranno loro le prime vittime di questa (indegna) proposta di legge: noi docenti faremo peggio, se il Paese lo vuole. Certo, non so come l’Italia possa sperare in un futuro migliore se attribuisce così poco valore al lavoro di quei docenti a cui il Paese affida, con l’educazione dei giovani, proprio il suo futuro.

Roma, 14, ottobre 2012

Contatti:
http://www.facebook.com @Adelia Daldoss

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