In Sicilia qualcosa si muove

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LIVIO GHERSI

Ho letto l’articolo “La Sicilia, terra di filosofi“, a firma di Gianni Pardo, pubblicato da “Il Legno storto” nell’edizione del 31 agosto 2012. Divertente e ben scritto, ma non profondo: nel senso di non interessato a comprendere come realmente stiano le cose. Ripropone una serie di luoghi comuni, ricorrenti nella letteratura. I Siciliani sarebbero tutti filosofi scettici; ma anche un po’ epicurei ed un po’ utilitaristi. Sospetto che per l’autore il sostantivo “filosofo” non abbia in sè un significato positivo.
Come siciliano di terza generazione ho forse titoli insufficienti per parlare della Sicilia. Posso tentare di esprimere quel poco che conosco e quel poco che ho capito. L’autore asserisce che i Siciliani non credano in alcunché. Falso, falsissimo. Fossero veramente scettici, sarebbero falsi, ipocriti, maestri nell’arte diplomatica. In realtà, possono essere fin troppo “diretti” e dire in faccia al proprio interlocutore le verità più sgradevoli. Potrei riportare tantissime storie, riguardanti noti intellettuali come gente comune, che dimostrano la stessa cosa: quando un siciliano s’impegna nel difendere una causa (anche puramente ideale), ovvero decide di combattere contro chi ritiene essere un proprio avversario, non è secondo ad alcuno quanto a tenacia, ostinazione, determinazione, capacità di sacrificarsi pur di perseguire l’obiettivo.

E’ vero, non c’è un buon rapporto con il “potere”: sia in quanto istituzioni, sia in quanto persone fisiche che in concreto questo potere esercitano (di diritto, o di fatto). Un osservatore esterno davvero attento resterebbe però colpito dalla velocità con cui un siciliano può mutare atteggiamento rispetto alla persona di potere con cui, di volta in volta, si confronta; dalla apparente sottomissione ed alla adulazione, si può passare in un attimo alla forte protesta ed alla aperta rivolta.
Tanta reattività, secondo me, si spiega proprio perché l’analisi disincantata della realtà ed il cupo pessimismo sono soltanto la superficie del carattere siciliano; dietro questa crosta resta un gran vuoto. Resta il disperato bisogno di giustizia, di pulizia morale, di autenticità; e questi valori sono avvertiti in modo tanto più estremo ed assoluto, quanto più sono negati nell’esistenza reale. Gesù Cristo, popolarmente, è “u Signuruzzu”, colui che, innocente, ha patito il male del mondo. Il sentimento di cristiana rassegnazione è dominante, ma, sotto sotto, sempre contrastato dal desiderio un po’ folle di fare i conti con questo mondo cattivo per affermare, finalmente, i diritti dei buoni e degli innocenti.

Fortissimo è il legame con la propria terra, con la natura dei luoghi. I paesaggi bellissimi con vista sul mare aperto, i vulcani in costante attività, come l’Etna o lo Stromboli, i colori forti, le sagome delle isole minori che si stagliano nel mare, i profumi del gelsomino o della zagara, i campi una volta coltivati a grano, o ad altri cereali, per distese sconfinate, le stesse sagome dei fichi d’india: tutto questo penetra nell’anima come un marchio indelebile. Diventa nostalgia, quando si va altrove. Una terra anche matrigna, come ben sperimentarono per secoli generazioni e generazioni di contadini, costretti a fare i conti con una storica insufficienza di risorse idriche.
Il rapporto di amore / odio con la natura dei luoghi si traduce in un radicatissimo, profondo, disprezzo nei confronti dei pubblici amministratori. Non è vero che i Siciliani siano privi dell’idea stessa del bene comune e si preoccupino soltanto della propria casa, o del proprio giardino. Sanno che l’intera isola aveva avuto dal buon Dio quasi tutte le potenzialità per essere un paradiso; e che la causa prima per cui è spesso un inferno e gode di così cattiva considerazione nel mondo, va individuata nel modo pessimo in cui è stata e continua ad essere amministrata.
Gli amministratori sono stati per secoli espressi da governanti stranieri; ed i Siciliani storicamente hanno sempre cercato di liberarsi della dominazione in atto chiamando in aiuto un’altra potenza esterna, ossia cambiando dominatore. L’esperienza più importante di autogoverno, quella del biennio 1848-1849, fallì perché i Siciliani non seppero difendersi da soli, non seppero organizzare ed armare un proprio esercito, e si illusero di essere difesi dalla flotta inglese.
Nell’Italia repubblicana, la concessione di una speciale autonomia regionale avrebbe potuto essere la soluzione di tutti i problemi. Ma quella nuova stagione storica nacque male, sulla base di un rapporto equivoco con la restante Nazione italiana, rapporto avvelenato dal separatismo. Per gli indipendentisti l’autonomia era meno che l’indipendenza; per il resto d’Italia l’autonomia era stata strappata con un insopportabile ricatto.

Dal 1946 ad oggi l’autonomia speciale ha reso possibile privilegi per gruppi più o meno ristretti, beneficiati dal potere politico; dal punto di vista della buona amministrazione, è stata però un fallimento. Non c’è più neppure la scusa che gli amministratori, regionali e comunali, dipendano da un potere straniero. Ancora in tempi recenti, questi amministratori, prevalentemente corrotti ed incapaci, hanno consentito un abusivismo edilizio dilagante, che offende in primo luogo il senso estetico. Hanno consentito il degrado del territorio, con il proliferare delle discariche, più o meno abusive, e la cronica incapacità di gestire in modo efficiente e razionale il ciclo dei rifiuti.
Sono convinto che la Sicilia non cambierà in meglio per le restrizioni alle spese ed i vincoli economici imposti dall’Unione Europea. In un suo scritto importante (del 1958) uno fra i maggiori esponenti della cultura liberale europea, Isaiah Berlin, scrisse che «la mancanza di libertà lamentata da alcuni individui o gruppi equivale il più delle volte alla mancanza di un giusto riconoscimento» (da “Due concetti di libertà”). Berlin aveva in mente l’esperienza dei popoli che si stavano affrancando dal colonialismo e che preferivano tutti i tumultuosi problemi conseguenti alla sperimentazione dell’autogoverno, piuttosto che continuare ad affidarsi all’efficiente amministrazione britannica. Scrisse allora Berlin: «come membro di un gruppo non riconosciuto o non sufficientemente rispettato, … desidero l’emancipazione di tutta la mia classe o comunità, nazione, razza, professione. E posso volerlo tanto da preferire nel mio amaro aspirare a “uno status”, di essere tiranneggiato e mal governato da qualche membro della mia stessa razza o classe sociale, dal quale sono perlomeno riconosciuto come un uomo e un rivale — vale a dire come un eguale — piuttosto che essere trattato bene e con tolleranza da un appartenente a un gruppo più in alto e più lontano, il quale non mi riconosce per quello che desidero sentire io stesso di essere».

Non si può costringere i Siciliani ad essere migliori. Essi sanno benissimo che, quanto ad intelligenza, non sono inferiori ad alcuno. Non voglio scomodare la letteratura (Verga, Capuana, Pirandello, Vittorini, Tomasi di Lampedusa, Sciascia, ai quali va aggiunto il catanese d’adozione De Roberto). Mi limito a ricordare quattro intellettuali noti, i quali non erano “filosofi scettici”, ma si affermarono nei rispettivi campi di studio. L’economista Francesco Ferrara, liberista ed autonomista, che osò entrare in polemica diretta con Cavour (il che, dal mio punto di vista, non è un merito). Lo studioso di scienza politica Gaetano Mosca. Il filosofo Giovanni Gentile, il quale non era certamente incline allo scetticismo, trattandosi anzi di uno dei massimi rappresentanti della filosofia idealista. Lo storico Adolfo Omodeo; il quale nacque casualmente a Palermo, ma qui si formò intellettualmente e che comunque era ben radicato alla Sicilia da parte della madre agrigentina e della famiglia materna. Omodeo, di cultura liberale e studioso del pensiero mazziniano, prese nettamente posizione contro il separatismo.
Mi piace anche ricordare un amministratore siciliano degno di questo nome: Carlo Cottone, principe di Castelnuovo (1756-1829), protagonista nella fase dell’elaborazione e della prima applicazione della Costituzione siciliana del 1812. Cottone mancò di genio politico, ma fu un nobilissimo esempio di politico filantropo. Destinò i propri beni alla realizzazione di un Istituto agrario, cioè di una scuola di agricoltura, nella sua villa dei Colli, a Palermo.

Le prossime elezioni regionali siciliane possono apparire caotiche soltanto a chi è nostalgico del bipolarismo a tutti i costi, ovvero pensa che le elezioni (in genere) siano diventate un lusso perché l’unica cosa che serve è un bel governo tecnico di osservanza montiana, europeista “perinde ac cadaver”.
La buona notizia è che i competitori per la carica di Presidente della Regione sono quasi tutti di buon livello. L’altra buona notizia è che la tanto vituperata Regione siciliana dispone di una decente legge elettorale. Dei novanta seggi disponibili, ottanta saranno distribuiti con metodo proporzionale nelle nove circoscrizioni provinciali. Fra le formazioni politiche che raggiungano una percentuale di consenso non inferiore al cinque per cento dei voti validi espressi in ambito regionale. Soglia di sbarramento che si applica in modo uguale nei confronti di tutte le liste e che non è propriamente una “passeggiata”. Di conseguenza, se al momento le formazioni politiche sembrano numerosissime, scommetto che non più di sei / sette liste otterranno in concreto rappresentanza.

Il premio di maggioranza a disposizione del Presidente della Regione neo-eletto, per migliorare le condizioni di governabilità, è limitato ad otto seggi (più il seggio per il Presidente). Viene attribuito quando i seggi ottenuti dalle liste provinciali collegate siano in numero inferiore a 54 seggi (60 per cento del totale) e fino al raggiungimento di detto limite.
Le prossime elezioni regionali siciliani sono molto interessanti dal punto di vista politico perché, con quattro forti candidature alla Presidenza della Regione, è improbabile che un candidato ottenga in partenza una larga maggioranza, come invece è avvenuto nelle elezioni regionali del 2001, del 2006 e del 2008. Di conseguenza, anche dopo l’attribuzione del limitato premio di maggioranza, si renderà necessario che il Presidente della Regione ottenga il consenso e la fiducia di altri gruppi rappresentati nell’Assemblea regionale, inizialmente non collegati con lui. Si tornerà a sperimentare la Forma di governo parlamentare in un’Assemblea dotata di una capacita di rappresentanza superiore al recente passato e composta (è il mio auspicio) da persone che prendono più seriamente la dialettica politica. Questo potrebbe portare anche a risultati positivi. Mentre le maggioranze numeriche teoricamente garantite in partenza hanno dato pessimi esiti dopo le elezioni del 2001, del 2006 e del 2008. A dimostrazione che l’ingegneria istituzionale ed elettorale non può imbrigliare la politica.
Consentitemi, una volta tanto, un po’ di ottimismo.

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