FRANCESCO RIZZO
Non ho ritenuto di far parte del coro acclamante il governo Monti non avendone condiviso strategie e provvedimenti. Otto mesi di politica recessiva che ha fiaccato l’attività produttiva, fatto levitare il tasso di disoccupazione a livelli di allarme sociale, tolto definitivamente le prospettive di vita e di lavoro ad un’intera generazione di giovani. L’accanimento è stato tale che induce al dubbio che la recessione sia stata una scelta scientemente operata per riallineare al basso l’economia del nostro Paese. Eppure i reali problemi dell’Italia dovevano essere già noti ai “Professori” prima del loro insediamento: un debito pubblico pari al 120% del PIL e una spesa pubblica che nel 2011 ha superato il 50% del Prodotto Interno Lordo. Cifre impressionanti e folli che “uccidono l’economia”.
Nel frattempo il governo Monti si è misurato anche sul campo delle riforme strutturali di cui l’Italia ha prioritario bisogno producendo nell’ordine una riforma del mercato del lavoro che dopo mesi di “taglia e cuci” alla ricerca di un improbabile consenso generalizzato ha indotto il Presidente di Confindustria a definirla, sia pure folcloristicamente, una “boiata” e una riforma delle pensioni, magari “perfettina” sul piano delle teorie previdenziali ed economiche ma che non si attaglia al meglio alla nostra realtà atteso che il giorno dopo abbiamo dovuto assistere alla farsa degli esodati e a solo due mesi dalla sua approvazione viene sospesa per i pubblici dipendenti per consentire la manovra prevista dallo spending review.
I risultati di 8 mesi di tale politica sono sotto gli occhi di tutti: lo spread il 16 novembre 2011, insediamento del governo Monti, era pari a 468 punti, il 6 luglio 2012 ha chiuso a 470 punti, l’indice della Borsa di Milano il 16 novembre era a 15.419,il 6 luglio Milano ha chiuso a 13.732 punti.
Evidentemente la ricetta non funziona. Il buon senso e la diligenza del padre di famiglia avrebbe suggerito scelte differenti: privatizzazioni degli asset pubblici da portare tutte in detrazione del debito pubblico e manovre capaci di ricondurre il rapporto spesa pubblica/PIL a percentuali ragionevoli mai superiori al 45%, che è la percentuale dei Paesi più virtuosi.
Ora di privatizzazioni non vi è traccia, anzi un tale orientamento sembra essere culturalmente estraneo a questo governo che si conferma essere fortemente statalista, mentre sul secondo versante si è emanato il controverso decreto dello “spending review”.
Una scelta, a mio giudizio, importante e che va nella giusta direzione, ma che solleva perplessità circa la sua portata e le scelte di merito operate. Infatti al momento sembra che la manovra rappresenterà una contrazione di spesa pari allo 0.15% e soprattutto non sembra che si sia messo mano in maniera selettiva procedendo ad una valutazione circa la pertinenza del mantenimento nel circuito pubblico di attività e funzioni che probabilmente le sono estranee.
Un giudizio positivo, quindi, ma che deve essere necessariamente sospeso in attesa dei risultati, delle realizzazioni e, soprattutto, del “taglia e cuci” parlamentare in sede di conversione che, dalle prime prese di posizione, si preannuncia particolarmente “operoso”.
Non va dimenticata, infine, una questione fondamentalmente etica: non è in alcun modo accettabile che mentre il Paese e i cittadini sono sotto la sferza del rigore si parli tanto, ma non si intervenga per nulla, sugli spropositati costi della politica.