LIVIO GHERSI
La crisi mette con le spalle al muro quantità crescenti di cittadini e li induce a valutare perché si trovino nelle attuali difficoltà e come debbano orientarsi per costruire, per sé e per le nuove generazioni, un futuro che sia migliore del tribolato presente.
I difensori della classe dirigente italica si lamentano contro gli umori dell’antipolitica. Ricordano che, dopo il massimalismo ideologico del biennio 1919-1920, nel 1922 la critica del parlamentarismo portò al potere Mussolini e ne seguirono il regime fascista ed il coinvolgimento nella seconda guerra mondiale, con tutti i conseguenti, rovinosi, effetti. Molte analisi critiche sono, però, l’esatto contrario dell’antipolitica. Muovono da chi sa che ci sono ideali politici ai quali val la pena consacrare l’esistenza. Da chi ha un profondo rispetto per quanti, nella Storia, hanno sacrificato il successo, la carriera, la libertà, la vita, per essere coerenti con i propri ideali. Disporre di punti di riferimento “alti” significa, inevitabilmente, diventare più esigenti. Conoscere i giganti significa anche avere un metro per misurare i nani.
La decadenza italiana non nasce, ma precipita, nel 1992. Bisogna andare molto indietro nel tempo, forse al periodo in cui fu evidente il fallimento delle speranze di modernizzazione che avevano caratterizzato all’inizio la formula politica del Centrosinistra. Almeno da quarant’anni a questa parte, l’Italia è stata non governata, ma “sgovernata”, da una classe dirigente che, nel migliore dei casi, va definita mediocrissima; ma che, più spesso, è stata composta da persone alla ricerca dell’arricchimento e del tornaconto personali, contro ogni logica di promozione e di tutela del bene comune.
Il ceto politico che conta è, fondamentalmente, ancora quello che troviamo, nel 1997, nella composizione della Commissione parlamentare per le riforme costituzionali, presieduta da Massimo D’Alema. Si tratta di politici che dimostrarono, allora, la propria pochezza culturale e la propria spregiudicatezza, usando le disposizioni costituzionali come merce di scambio per scadentissimi compromessi finalizzati alla spartizione del potere. Nel ruolo di legislatori costituzionali hanno prodotto la riforma del Titolo quinto della parte seconda della Costituzione (legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3). Che qualche problema applicativo lo sta dando. Si sono superati, dal punto di vista della sapienza dei legislatori costituzionali, scrivendo all’articolo 5, primo comma, lettera g), della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, che in un caso si può procedere «anche in deroga all’articolo 119 della Costituzione» (testuale!). Non è consueto incontrare il termine “deroga” riferito alla Costituzione, ma questo succede quando si legifera in materia di equilibrio del bilancio e dei conti pubblici, con la massima fretta perché si è pressati dall’Unione Europea. Nel ruolo di legislatori ordinari hanno prodotto, tra l’altro, la legge 21 dicembre 2005, n. 270, la legge elettorale vigente per il rinnovo del Parlamento, vero monumento di sapienza giuridica, internazionalmente apprezzato.
Nel ruolo di governanti e di amministratori hanno prodotto un debito pubblico che supera il 120 per cento del Prodotto interno lordo (PIL) nazionale. L’Unione Europea pretende ora che l’Italia riporti il proprio debito pubblico al limite massimo previsto del 60 % rispetto al PIL. Ed ha stabilito che la parte eccedente vada ridotta al ritmo di un ventesimo l’anno. Il che significa ridurre il debito pubblico nella misura di oltre 47 miliardi di euro in ciascun esercizio finanziario. Contemporaneamente — si badi bene — il bilancio dello Stato dovrebbe essere tendenzialmente in pareggio, ossia chiudersi ogni anno senza deficit. Tutto questo mentre l’economia è in fase di recessione. Se c’è una cosa su cui gli economisti, una volta tanto, sono concordi, è che le politiche di risanamento dei conti pubblici sono più efficaci e socialmente sostenibili nelle fasi di espansione economica; viceversa, in recessione, deprimono ulteriormente l’economia e determinano disastri sociali. Evidentemente, questa conclusione di elementare buon senso vale dappertutto, tranne che nell’Unione Europea.
Nel ruolo di costruttori dell’Europa, i nostri uomini di Stato hanno sottoscritto, senza batter ciglio, le predette regole di rientro dal debito. Ora vorrebbero che il Parlamento ratificasse il trattato “sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria”, detto del “Fiscal compact“. Il Paese, sostengono, non può più vivere al di sopra dei suoi mezzi. Qualcuno però farà meno sacrifici degli altri: guarda caso, proprio i rappresentanti politici.
E’ quasi superfluo aggiungere che il nuovo Presidente della Repubblica, alla scadenza del mandato del Presidente Giorgio Napolitano, sarà probabilmente scelto nello stesso “gotha” dei politici che fecero parte nel 1997 della Bicamerale presieduta da D’Alema. Tra loro c’è Silvio Berlusconi; il quale potrebbe anche riproporsi come Presidente del Consiglio dei Ministri. Gli elettori, memori dei successi ottenuti in tanti anni di governo, gli tributeranno i dovuti riconoscimenti.
E’ possibile che le prossime elezioni politiche siano vinte dal Partito Democratico. Con tutta la simpatia nei confronti del Segretario Bersani e con tutte le aperture di credito che si possono fare a giovani dirigenti come Stefano Fassina, il PD rappresenta una vera alternativa? No, purtroppo, è una variante gestionale del malgoverno, già sperimentata con diversa etichetta. Con riferimento alle grandi opere, ossia ai grandi affari, il PD sostiene l’alta velocità ferroviaria in Val di Susa, con una convinzione non inferiore a quella del Ministro Passera. L’eventualità di un’uscita dell’Italia dall’Eurozona è descritta con i medesimi argomenti che potrebbero essere usati dal Presidente Monti, o dai politici dell’Unione di Centro.
Mettere in discussione l’euro e l’Unione Europea, secondo il Bersani pensiero, sarebbe indulgere al populismo, al nazionalismo, e comunque favorire una soluzione “di destra”. Nessuno sostiene che dismettere l’euro sarebbe una passeggiata; è ovvio che bisognerebbe pagare dei prezzi. E’ inaccettabile, però, che si cerchi di nascondere all’opinione pubblica che anche per restare nell’Eurozona occorre pagare un costo salato. E che, al momento e per lungo tempo, ci si resterebbe in un ruolo subordinato.
Le contraddizioni del PD sono infinite. Il PD, ufficialmente, è contro il liberismo economico, contro la logica della deregolamentazione fine a sé stessa, contro la concezione del lavoro come merce. Sembra non accorgersi, tuttavia, che le disposizioni dei due trattati fondamentali dell’Unione Europea non sono “neutre”, ma hanno un preciso orientamento ideologico. Nel Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea si legge, ad esempio: «l’obiettivo principale del Sistema europeo di banche centrali (SEBC) è il mantenimento della stabilità dei prezzi» (articolo 127, paragrafo primo, del TFUE). Mantenere la stabilità dei prezzi significa considerare prioritario l’obiettivo di evitare l’inflazione.
L’Unione Europea qual è (non quale vorremmo fosse) è matrigna nei confronti delle popolazioni degli Stati membri, soprattutto dei Paesi latini e mediterranei, mentre è amica del potere finanziario e delle banche. Si permette di imporre ad uno Stato membro come la Grecia di licenziare tot dipendenti pubblici ogni anno, infischiandosene dei contraccolpi sociali che misure di questo tipo determinano, mentre poi gli Stati membri devono sentirsi in dovere di contribuire ai costosissimi programmi di spese militari della Nato, a partire dal progetto di scudo antimissile (decisioni di Chicago del 20 e 21 maggio 2012).
Perché i cittadini non si allontanino dalla politica occorre che questa consenta loro di operare scelte reali. Invece di un’alternativa fasulla, di comodo, qual è il PD, servirebbe che il variegato arco di forze culturali, sociali, politiche, che sono insofferenti del ruolo egemone assunto dai mercati finanziari in questa fase storica, trovasse un accordo intorno ad una proposta procedurale: tendere all’approvazione di una legge costituzionale che consenta di discutere in appositi referendum popolari il destino dell’Italia. Con riferimento alle due scelte fondamentali di politica estera: la permanenza in questa Unione Europea; la permanenza nella Nato. Altro che soluzione “di destra”! Bisognerebbe informare l’on. Bersani che qualunque Stato membro può decidere, «conformemente alle proprie norme costituzionali», di recedere dall’Unione Europea. L’ipotesi è prevista e disciplinata dal’articolo 50 del Trattato sull’Unione Europea. Questo a proposito di tutte le chiacchiere interessate circa il fatto che l’adesione all’Unione Europea e l’appartenenza alla moneta comune sarebbero “irreversibili”. Saranno irreversibili solo se e quando il popolo italiano, con voto libero e segreto, deciderà sull’argomento.
Tutte le forze contrarie all’andazzo attuale potrebbero diventare protagoniste se accettassero una comune piattaforma programmatica minima. Il primo punto sarebbe quello di chiedere al popolo italiano, finora tenuto in condizioni di minorità per tutto ciò che attiene alle grandi decisioni in materia di politica estera, di decidere lui del proprio destino. Norvegesi, Danesi, Francesi, Olandesi, Irlandesi, in varie circostanze, si sono espressi sul processo d’integrazione europea. Perché soltanto agli Italiani questa possibilità dovrebbe restare preclusa? L’auspicata nuova aggregazione non farebbe propria la bandiera della spesa pubblica facile, ma si farebbe carico dell’esigenza di mettere in ordine i conti pubblici. Perché questo è nell’interesse degli Italiani, che vogliono essere autonomi e quindi devono ridurre la loro dipendenza dai creditori esteri, non perché lo comanda la Germania. Sarebbero però gli Italiani a decidere la gradualità ed i tempi del necessario risanamento. Una proposta qualificante potrebbe essere quella di proporre un tetto massimo per il trattamento economico dei dipendenti pubblici in servizio; da stabilirsi con legge costituzionale, in modo da includere anche i dipendenti degli apparati burocratici serventi degli Organi costituzionali e delle Regioni e Province con speciale autonomia. Un altro tetto massimo sarebbe stabilito per le pensioni; fermo restando che, con riferimento ai livelli apicali, l’importo massimo stabilito per la pensione dovrebbe essere sempre significativamente inferiore al trattamento massimo di un dirigente in servizio, al corrispondente livello.
Così sarebbe chiaro che i sacrifici li devono fare veramente tutti e la “giungla retributiva” sarebbe soltanto uno sgradevole ricordo. Qualora la legge elettorale restasse invariata, la piattaforma programmatica comune dovrebbe trovare corrispondenza in un unico gruppo di liste presentate con il medesimo simbolo in tutto il territorio nazionale. Per ricondurre a sintesi un variegato arco di forze, servirebbero dei garanti; ossia persone perbene, considerate al di sopra delle parti, che attestassero la serietà del programma comune, la qualità dei candidati nelle liste ed il pluralismo nelle medesime. A titolo esemplificativo, ci sarebbe bisogno di persone come Stefano Rodotà e Marco Revelli. Se una prospettiva di questo tipo si concretizzasse, la politica ritornerebbe immediatamente ad essere attrattiva. Il PD non potrebbe più giocare sull’equivoco e verrebbe ricondotto alla sua reale consistenza: otterrebbe percentuali di consenso non superiori a quelle conseguite dal Pasok nelle ultime elezioni greche.