Fotografie di Matilde Morselli
LORENZO MAZZONI
Sul terremoto che domenica 19 maggio ha scosso l’Emilia non c’è quasi più niente da dire o da vedere. Io, come decine di altre persone, mi sono svegliato con qualche calcinaccio in faccia, accolto dal boato e dal tremito violento. Ferrara, dicono le autorità, è stata prevalentemente colpita nel suo patrimonio storico e culturale. Il pomeriggio conseguente al sisma, il centro cittadino sembrava effettivamente molto danneggiato. Un clima di agitazione e spaesamento collettivo. Persone con valige. Nei giorni seguenti si sono riscontrati numerosi casi di abitazioni private danneggiate. Crepe, danni strutturali. Ma per l’opinione pubblica, Ferrara, tendenzialmente, è una città che ha già rimarginato la ferita. Avanti tutta.
Più niente da dire, niente da vedere. Sabato mattina, una settimana dopo la Grande Scossa, siamo partiti ugualmente da Ferrara e ci siamo recati nelle zone della provincia più colpite dal sisma. Attraverso una campagna silenziosa, dirottati lungo il percorso dalle numerose deviazioni stradali, abbiamo raggiunto il paese di San Carlo. Al bar vigili del fuoco e carabinieri alle prese con una veloce colazione. Il quadrilatero di vie che forma il centro storico è diventate il Quartiere Fantasma della Sabbia Nera.
La Sabbia Nera. Hanno chiamato così l’alchemico processo che solleva il terreno sabbioso del luogo trasformandolo in fanghiglia liquefatta che ha invaso le case. Volontari civili, qualche boy-scout, pompieri e carabinieri hanno provveduto a pulire le strade. Gli sfollati sono stati radunati in una tendopoli allestita nel campo sportivo, non troppo distante dalla zona rossa, dopo che si sono rifiutati di essere trasferiti a Casumaro, un altro paese.
Anche a Sant’Agostino, già il giorno conseguente al sisma, è stato organizzato uno spazio per accogliere chi è rimasto senza una casa o che, colpito da shock post-traumatico, ha paura di tornarci. Gli sfollati sono al PalaReno, il palazzetto dello sport locale, che di prima mattina si presenta come una distesa semivuota di brandine. Molti sono andati al lavoro, quelli che ancora ce l’hanno. Qualche ospite lava il pavimento. Le donne chiacchierano. Ci sono moltissimi stranieri, in maggioranza pakistani, marocchini e tunisini. Non ci sono problemi di convivenza. In qualche telegiornale, qualche giorno fa, ho sentito una signora dire che tutti i posti delle tendopoli e dei rifugi sono stati dati a cittadini stranieri, e che molti di loro non hanno nemmeno la casa danneggiata, ma utilizzano gli spazi d’emergenza per mangiare gratis. È inutile scrivere che la troupe di quel TG ha scelto di mettere in onda l’unico commento razzista di una popolazione solidale nella disgrazia. Al PalaReno è stata allestita una moschea, il servizio di mensa fornisce pasti a seconda delle religioni e dei culti praticati, la pulizia e le mansioni comuni vengono svolte gomito a gomito da italiani e stranieri.
Andandocene da Sant’Agostino notiamo, in piazza Sandro Pertini, di fronte alla facciata crollata del Municipio, un uomo seduto su uno sgabello che aspetta, pazientemente, con la telecamera a portata di mano, l’eventuale caduta del palazzo. Aspetta un’altra scossa. Aspetta lo scoop del disastro. È uno dei pochi, la stampa ormai se ne sta andando. Dopo una settimana i laboriosi emiliani a cui è caduto il tetto sulla testa non fanno più notizia. Rimangono i gregari dell’informazione, semplici curiosi con telefoni cellulari usati come macchine fotografiche a illustrarci, ottimamente, che tutti, al giorno d’oggi, possiamo essere reporter.
Più niente da dire, niente da vedere. Raggiungiamo il piccolo centro di Buonacompra, sventrato come decine di fotografie hanno documentato benissimo, e veniamo accolti dal suono delle campane. È una cosa molto strana: il campanile è spezzato in tre tronconi. C’è il rischio evidente che possa crollare da un momento all’altro. Troviamo il parroco seduto a mangiare insieme ad altri sfollati in una struttura in legno che ospita, nei momenti della vita quotidiana, il comitato della Sagra della Salama da Sugo, tipica della provincia ferrarese. L’anziano prete assicura che quelle che suonano ogni ora non sono certo le due campane da dieci quintali l’una che troneggiano dall’alto del campanile pericolante, ma semplici campane elettriche. Mentre beviamo un caffè gentilmente offerto dai volontari spero che le vibrazioni del “din-don” elettrico non siano abbastanza forti da far crollare il campanile sulle abitazioni circostanti. L’anziano prete, con fare un po’ nichilista, ci consiglia di rimanere fino a mezzogiorno quando lo scampanellio perdurerà qualche minuto. A volte la fede in Dio è più grande del buon senso.
Più niente da dire, niente da vedere. La provincia è in ginocchio, un intero tessuto lavorativo ed economico è allo sbando. Le zone artigianali e industriali di Sant’Agostino, Roversetto, Mirabello, Bondeno e Poggio Renatico sono seriamente danneggiate. Capannoni crollati, macchinari distrutti e, a volte, rubati dagli sciacalli che anche qui, come in tutti i luoghi violentati da disastri naturali e umani, accompagnano la scia marcia del post terremoto.
Aziende chiuse. Lavoratori a casa. Ma siamo emiliani. Gran lavoratori. Lo hanno ripetuto tutte le autorità che sono venute fugacemente a visitare questi luoghi. Poi via, da un’altra parte, a seguire parate, inaugurazioni, altre tragedie nazionali, angosce planetarie.
Qui non c’è più niente da dire, niente da vedere. Arrangiatevi ragazzi, e benedite i volontari.
Sabato 26 maggio, a Bondeno, si è svolto il funerale per una delle sette vittime del terremoto. Leonardo Ansaloni. Morto dentro le Ceramiche Sant’Agostino, mentre faceva il suo lavoro. Dal Quirinale hanno mandato fiori. Un bel gesto. Per lui e per le altre vittime, nemmeno un minuto di raccoglimento. Il terremoto non fa più notizia. Non c’è più niente da dire, niente da vedere. E noi torniamo a Ferrara seguendo un fiume dove navigano decine di pesci morti.