AUSILIA GUERRERA
Ogni inizio secolo porta con sé il giro di boa di una maledizione ricorrente da sfatare, che si chiama crisi economica. Mai si era vista e vissuta una tale situazione dalla famigerata grande depressione del 1929. Spartiacque di un’epoca oltreché di un’economia. Così è per questo passaggio storico di un’era che non può dirsi esattamente l’età dell’oro. Questa la prima memoria, la prima ora i primissimi rintocchi dell’inizio del XXI secolo, che non naviga affatto nell’oro.
In una nemesi da inizio millennio speculare a quella del XX secolo. La svolta storica non si può dire sia avvenuta sotto il segno positivo. Tutt’altro. Siamo nel villaggio globale di un’economia globale dove tutto è connesso – nell’occhio del ciclone degli eventi mediatici – per cui l’economia entra di prepotenza, volente o nolente, nelle nostre vite, anche e soprattutto per i suoi effetti sociali apocalittici. La scenografia è la selva fauve di una finanza internazionale in piena caduta libera, perché “liberatasi” del contatto con la realtà e dimentica della morale corrente, e di quel common sense, forse troppo “comune” e umano nella sua base di valori umani fondamentali dell’agire umano, per piacere alla sua élite finanziaria officiante il culto di un capitalismo autoritario, sempre più fine a se stesso – rotta ormai la triade occidentale di capitalismo razionalismo e liberaldemocrazia – e ancor più furente rispetto ai ruggenti anni ottanti – magistralmente immortalati dalla pellicola di Oliver Stone “Wall Street” e dall’indimenticabile personaggio Gordon Gekko e dal suo mirabile sequel Money Never Spleeps (2010); niente di più azzeccato in tempi di Occupation Status a Zuccotti Park: unico appannaggio consentito ai giovani precari.
Perso lo Status symbol del lavoro! Emblematiche eloquenti le scene dei bancari licenziati che a testa bassa sfilavano con gli scatoloni dei pochi effetti personali, quasi eclissati dietro questi scudi (simbolo di una generazione sfrattata dai propri sogni) a schermirsi per mascherare l’onta di una dignità umana calpestata, sotto lo sguardo basito di mezzo mondo – a tirare il fiato con loro in un esercizio di solidarietà, che mai si sarebbe pensato essere solo il prodromo preludio e la miccia di un detonatore ad alta eversione sociale a livello mondiale, per rivendicare i propri diritti vilipesi da una finanza fuori dalle regole, contro la crescita demenziale della diseguaglianza e della ricchezza. È la protesta dei giovani disoccupati che irrompe di lì a poco sulla scena della Storia, a cambiarla. L’antefatto. Era il 10 agosto 2007 quando la banca Lehman Brothers fallisce arrestando d’un colpo l’intero mercato interbancario mondiale, a causa del default dei mutui subprime: è il redde rationem della finanza internazionale che travolge a valanga anche l’economia europea e stravolge le nostre vite.
Siamo letteralmente subissati di dati tecnici dipanati dai dispacci delle agenzie e dai bollettini – che sembrano di guerra, per la ferocia della crisi finanziaria in atto – dei governi in carica. È dal 2008 in particolare che le nostre tasche – vuote – la qualità della vita e del lavoro sono cambiate in peggio, a causa della crisi economica. Le agenzie di rating parlano “chiaro” di uno spread che ci valuta persino nell’andamento sempre meno costante dei governi traballanti in carica, e noi mastichiamo un nuovo lessico non proprio famigliare, che mai ci saremmo sognati di comprendere; e che invece anche la casalinga di Voghera si appresta a declinare nelle sue spese quotidiane: dando del tu all’economia. A procurarci un minimo d’interesse è l’innesto dell’economia nella vita quotidiana. La domanda non riguarda tanto le dimensioni della crisi quanto piuttosto la sua infinita-fine. Questo arrovella l’attenzione generale.
Da ciò che appare privo di significato ha invece “senso”, ma non troppo, la nostra vita, e dipende la nostra realtà materiale e il nostro pensiero… Ricorrente. A tutt’oggi a distanza di quasi cinque anni. Ancora. L’economia sbarca dunque nelle nostre vite: è il trionfo del reale su qualsiasi intenzione ideale; è la fenomenologia di una crisi difficile da smaltire per le note ricadute nella quotidianità. Ogni bilancio ogni flessione dei mercati è un puntello contro le forze della speranza, che si trasforma in un modo fluido in queste società “liquide” in dramma. Questa la fotografia del secolo. La persuasione di un’economia deus ex machina che, come un Moloch sonante, si erge sulla nostra vita, incombendo sulla quotidianità, e annebbiando la vista, la visione la prospettiva, il futuro della nostra società, è un dato oramai incontrovertibile.
Alla nuova religione del capitale finanziario si genuflette anche la liturgia della politica: una democrazia sfiorita miope succube incapace a ricostruire un’identità nazionale, perché inetta e lenta nel leggere i segnali della società civile e dei giovani, o solamente incurante, mentre è complice del nuovo Super-Stato oggi al potere: il “Richistan”, il paese dei ricchi, la nazione a sé – secondo la definizione di Robert Frank – che condiziona i Parlamenti e il potere politico, per cui persino Obama sembra essere l’uomo giusto al posto sbagliato. Governi asserragliati nella loro pompa istituzionale fanno vergognosamente mostra di sottomissione non certo ai principi di Gesù… ma al proprio particulare dio-danaro.
Si domanda ai giovani sacrifici spropositati, quali olocausti viventi immolati in nome del dio-danaro sull’altare sacrilego dei maghi della finanza; pedine della partita a scacchi giocata dai grandi numeri della finanza mondiale. Il rischio è che la statistica riduca tutto a numero. Anche le persone. E le loro vicissitudini messe fra parentesi di operazioni numeriche, che per comprenderle non basta nemmeno uno sforzo di astrazione mentale! I giovani, vittime degli squali dell’alta finanza, esautorati deprivati declassati depauperati, non abbracciano però, quale contrappasso inevitabile della crisi economica, la croce funesta di una vita ai margini, quasi una concezione minimalista, perché invece si ergono a protagonisti non appiattiti, esercitando il loro diritto alla protesta.
La massima Kantiana “L’uomo come fine e mai come mezzo” dovrebbe insegnare alle persone ai posti di comando qualcosa in merito alla loro missione, che contempla appunto l’uomo, non reificato, ma inteso come ethos di qualsiasi teoria del vivere. I giovani nel microsolco del disco dell’economia mondiale in crisi, consci dei torti dei grandi, dei privilegi della casta, agiscono tempestivamente in funzione del presente come naviganti che hanno buttato a mare le zavorre del passato: il rimpianto di un posto di lavoro. Squalificati dal lavoro, la loro libertà di pensiero e di azione li qualifica ai propri occhi e agli occhi del mondo – che cerca d’ignorarli, imbavagliati da un consumismo come goffo conato di blandire le coscienze ed estrema mistificazione sociale, a dirci che la disparità economica proprio non esiste – rendendoli diversi e mutandoli in meglio.
“Nella meglio gioventù”! Non più clack plaudente le scenette grottesche solipsistiche dei grandi dell’olimpo, tappezzeria inerme che vegeta ignara, scelgono di essere legislatori-attori non potendo più sfuggire alla propria totale e profonda responsabilità, capace di suscitare anche nelle coscienze sopite, l’esigenza della libertà e dell’impegno. E laddove non fosse possibile del ritegno. Perché è sano, e ci piace! Questo il valore e il nerbo della loro esistenza. Perché i giovani, dai sit-in in poi, assiepati nelle piazze, a distanza di un anno, hanno prodotto opinioni, fatto la storia, incapaci a sopravvive da persone ragionevoli in un serraglio di pecore laureate. E, soprattutto, mai sulla difensiva al riparo da qualsiasi altisonante illusione seppur “tecnica”. Perché faber del loro destino!